Undici in collaborazione con Puma Eyewear presenta #NoCage, il format che raccoglie le storie di 12 personaggi sportivi contemporanei e del passato, che hanno cambiato la storia dello sport superando le barriere e gli ostacoli grazie alla determinazione e alla forza di volontà.
Mamma divorziata, nonna divorziata, allevata da donne, la ragazza che sembrava un ragazzo – magra come un grissino e coi capelli cortissimi – , scartava da sempre le bambole, preferendo le automobiline. A nove anni, scartò pure hockey ghiaccio, corsa, sci e calcio, e imbracciò decisa la racchetta da tennis di famiglia, cominciando una guerra personale contro il muro dietro casa e le difficoltà balistiche di un’arma troppo pesante, che brandiva a due mani. Finché il primo maestro, George Parma, non la sgrezzò, dopo gli insegnamenti iniziali di nonna Agnes Semanska, che era stata numero 2 nazionale prima della Seconda Guerra Mondiale.
A dieci anni, Martina la mancina scartò anche il cognome del papà (ex maestro di sci, poi morto suicida) e, da Subertova, diventò Navratilova, adottando quello del patrigno, Miroslav Navratil, che divenne il primo coach ufficiale, mentre mamma Jana le allenava il fisico, da ex maestra di sci, ginnasta e tennista. A diciannove, Martina scartò pure il suo paese, che allora si chiamava Cecoslovacchia, e voleva sbarrarle le frontiere per impedirle una vita da vera professionista con la minaccia di riportarla a scuola perché “troppo occidentalizzata”. Quel gesto di ribellione, quando varcò la porta dell’Ufficio immigrazione per chiedere asilo politico in un paese tanto diverso dal suo, subito dopo gli Us Open 1975, nel clou della guerra fredda, le costò carissimo. La vera patria relegò in una notizia di tre righe senza nome il suo primo trionfo a Wimbledon, del 1978, anche se l’orgoglioso tam-tam nazionalistico continuò a raggiungere la sua gente e a far palpitare quei poveri, sottomessi, cuori.
Gli highlights della finale tra la Navratilova e Chris Evert
Ognuno è schiavo del proprio destino e l’eroina boema era nata per ribellarsi: mancina, col rovescio a una mano, giocava un servizio-volée tutto fantasia e fuochi d’artificio, aveva movenze mascoline che contrastavano con una sensibilità sopraffina, reagì all’impatto con l’opulenza yankee e col rifiuto della buona società Usa abbuffandosi nel frigorifero sempre traboccante della nuova realtà, ed appoggiandosi ad amicizie femminili molto forti, molto guida, molto più anziane. Dalla collega Billie Jean King, pioniera di tutte le battaglie civili (a cominciare dalla liberazione della donna), alla golfista Sandra Haynes, dalla scrittrice Rita Mae Brown, leader del movimento omosessuale femminile negli Usa, che sposò addirittura a Washington e dalla quale poi divorziò con mille polemiche perché la compagna, per vendetta, spifferò tutti i retroscena della love story. Quante volte Martina si è coperta di vergogna, quante volte sarebbe stato più facile per lei un bel compromesso, una scelta meno drastica? Col nuovo passaporto, nel 1981, per i media Usa divenne piuttosto “la grande, grossa, speranza”. La sua ribellione, oggi, sarebbe un simbolo positivo, allora fu un gesto di rottura, anche sessuale, che si aggiungeva all’intrusione di un ospite, peraltro di un paese “nemico”, come tutti i paesi dell’Est europeo, satelliti dell’Urss. Un ospite doppiamente scomodo, perché molto brava e molto all’antitesi con la “fidanzata d’America”, Chris Evert, tutta lustrini e movenze gentili, di buona famiglia, di amori tradizionali.
Di più, tanto Chrissie era controllata nelle reazioni e perfettina nel gioco da fondocampo con zero errori, tanto Martina era imprevedibile e persino scomposta, a cominciare dalla lingua diversa che doveva parlare. Tanto l’una era delicata e femminile, tanto l’altro era mascolina. «Ha rivoluzionato il gioco con la sua superba atleticità e l’aggressività, ha portato il fattore fisico a un livello completamente diverso anche come sistemi di preparazione, aggiungendo fondo, palestra e basket, per allenarsi al tennis», le avrebbe poi reso onore la Evert chiosando la rivalità più famosa dello sport da addirittura 80 sfide (43 successi a 37 per Martina). Mentre le malelingue ridacchiavano di Renée Richards, ex tennista professionista ed ex dentista che aveva cambiato sesso e le faceva da coach, e vociferavano dell’ex cestista a Nancy Liebermann, dichiaratamente omosessuale, che aveva creato il primo team di una tennista, con il dietologo Robert Haas e la trasformazione della campionessa in vegetariana in un’epoca in cui l’atleta classico era carnivoro dichiarato.
Non fosse stata così spontanea e sincera, la Navratilova avrebbe potuto mascherare le sue scelte, soprattutto in chiave sessuale, almeno davanti alla famiglia che le fece finalmente visita nel suo nuovo paese e soggiornò un po’ a Fort Worth, per decidere, poco dopo, di rientrare nella più familiare Revnice. Ma la sua forza è stata anche quella, e le incertezze del suo io delicato l’hanno fatta amare più di altre atlete più “politically correct”. Così è stato, nel 1986, quando Martina tornò finalmente a casa, a Praga, vestita a stelle e strisce, però, e solo per partecipare a un confronto di Fed Cup, e pianse insieme a tutto lo stadio che poteva finalmente riabbracciarla dopo undici anni di esilio.
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Così è stato nel 1991, quando chiuse la lunga relazione con Judy Nelson, che la trascinò in una rovinosa causa in tribunale sventolando un filmato in cui Martina le regalava l’anello di fidanzamento e si impegnava con lei come una vera moglie. Così è stato quando, agli Us Open 2014, in diretta sul maxischermo del campo centrale, chiese commossa, in ginocchio, la mano di Julia Lemigova, che ha sposato subito dopo. Soprattutto, la gente ha sofferto in tandem con la prodigiosa mancina quando, a fine carriera, ha duellato, spesso invano, contro la più giovane Steffi Graf, quando ha messo il nono sigillo a Wimbledon a 33 anni (superando Helen Wills), quand’ha clamorosamente fallito il decimo urrà a 37 (nell’incredibile finale con Concita Martinez), quando s’è ribellata all’età ed è rientrata per giocare soprattutto in doppio, diventando, col titolo di misto 2003 a Wimbledon, la più anziana regina Slam, a 46 anni e 8 mesi. Per eguagliare i 20 successi ai Championships (singolare, doppio e misto compresi) della sua mentore, Billie Jean King. E poi firmare un match anche di singolare, per 6-0 6-1 contro Catalina Castaño a Wimbledon 2004, ad addirittura 47 anni ed 8 mesi, più anziana nell’era Open. Aggiudicandosi infine l’ultimo torneo di doppio, il numero 177 – record -, nel misto agli US Open 2006, un mese prima di compiere 50 anni. Così da affiancarlo ai 167 titoli (18 Slam) di singolare: altro record.
La gara contro Gisela Dulko a Wimbledon 2004
Martina s’è ribellata al potere dispotico, alle consuetudini, alle regole, ai suoi anni, alle scelte comode e anche al male. Al cancro che l’ha colpita al seno nel 2010, e che ha battuto, dopo aver annunciato al mondo la sua battaglia. S’è ribellata anche alle umane possibilità, venendo respinta nel 2010 dalla scalata del Kilimangiaro fino a un letto d’ospedale, colpita da edema polmonare. Ed è sempre pronta alla prossima battaglia civile, sempre impegnata politicamente, sempre decisa a dire la sua a favore delle minoranze e dei più deboli. Assolutamente unica, come campionessa e come donna. La più forte tennista di sempre, l’ultima che ammansiva qualsiasi palla e volava prima possibile a rete per chiudere il punto con la volée. Intelligente e imperfetta, imitabile e affascinante. Martina Navratilova.