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«Chi nasce veloce, lo rimane per tutta la vita». È il mantra paradossale che Merlene Ottey si ripete da sempre. Lo sussurra a se stessa, per l’ennesima volta, nel giugno del 2012. A 52 anni suonati si è ritagliata un posto per gli europei finlandesi d’atletica leggera, partecipando alla staffetta 4×100 con la nazionale slovena. Nel 2002 ha abbandonato la sua Giamaica, per accasarsi a Lubiana, affidandosi alle cure sapienti del suo trainer Srdjan Djordievic. Riparare nei Balcani era l’unico modo per rimanere in una Nazionale, esorcizzando l’anagrafe incalzante, rinviando a data da destinarsi il suo addio alle grandi ribalte internazionali. Del resto, corre ancora i cento metri in 11 secondi e ottantadue decimi: quanto basta per affrontare a testa alta una frazione di staffetta. La Slovenia, in Finlandia, non conquista la finale, eppure il pubblico finnico riserva a Merlene calorose ovazioni. Salvo un impercettibile irrigidimento nella struttura, la Ottey è rimasta la stessa ragazza esplosiva degli esordi. Quella che nel 1980, quando tutte le altre partecipanti all’Europeo non erano ancora nate, conquistava il bronzo alle Olimpiadi di Mosca, sui 200 metri.
Mostrando al mondo falcate selvagge e armoniose, corpo flessuoso, volto statuario e sguardo di scura profondità: l’epifania su pista di una divinità caraibica, di quelle adorate nelle comunità rurali della sua Giamaica. Nata a Cold Spring nel 1960, a nord ovest dell’isola, è la quarta di sette figli. Suo padre, guardia giurata, muore nel 1979, un attimo prima di potersi commuovere per la prima medaglia di prestigio conquistata dalla figlia. Consuma un’infanzia da cinema neorealista, nella scuola del suo paese. Ogni mattina, per entrare in classe, percorre cinque miglia a giorno di corsa su strade sterrate e sconnesse, dribblando asini, capre e pollame in libertà. A scuola tutto sembra ruotare attorno all’ora di educazione fisica, a scapito di matematica e ortografia: il campo in terra battuta, dietro l’edificio scolastico è il luogo in cui si impara a correre forte, più veloce degli altri. In palio c’è l’accesso ai college e ai campi universitari dei vicini States, per evadere dall’ineluttabilità di un futuro di povertà ed emarginazione. Merlene intuisce l’antifona e sprinta con decisione: raggiungerà in volata l’Università del Nebraska, per dedicarsi ad arte e design. Non smette mai di correre: il suo talento naturale viene dirozzato e disciplinato dagli allenatori americani. Tra i banchi universitari rimarrà sedotta da Michelangelo e Chagall. Ma la vera opera d’arte, per lei, rimane il suo connazionale Don Quarrie.
Lo vede baluginare dal televisore nel 1976: basetta e crine crespo da blaxploitation, il velocista di Kingston mostra una progressione stupefacente, sulla pista canadese. Guardandolo bruciare 200 metri a rotta di collo, per conquistare l’oro olimpico di Montreal, Merlene intravede il suo destino. Si sbaglia, in parte: dopo il promettente bronzo di Mosca, nel 1980, la ragazza di Cold Spring parteciperà ad altre sei edizioni delle Olimpiadi. Ma non conquisterà mai la gioia di un oro, guadagnandosi la fama agrodolce di beautiful loser. Per stile, per bellezza e per carisma, Merlene si presenta da subito come il doppelgänger femminile di Carl Lewis, figlio malinconico del vento. Il destino da eterna favorita, però, le grava addosso come un sortilegio, regalandole anni vissuti a muso duro, da introversa. Passati a perdere primi posti d’un soffio, lamentandosi dei miglioramenti prodigiosi e sospetti delle rivali. Predicando un’atletica che uscisse dalle farmacie, sfilando la mano dalle strette ipocrite delle avversarie bollate come strafatte, come la tedesca Katrin Krabbe.
Nell’ambiente dell’atletica Merlene finisce con l’assumere la nomea sarcastica di dama di bronzo, per quel podio dorato sempre perso nelle volate finali. La rivale più accanita ha il volto afroamericano di Gail Devers, sprinter statunitense di Seattle, sei anni più giovane di Merlene. Una che polverizzato anche il Morbo di Basedow, che le ha però lasciato in eredità uno sguardo ipertiroideo. Il sorriso affilato, cannibalesco, e le unghione ricurve, da vampira, ne completano il profilo da incubo ricorrente. La saga comincia alle Olimpiadi di Barcellona, nel 1992. In gioco è la supremazia sulla velocità tra il colosso Usa e la piccola isoletta caraibica. Sui cento metri sprintano in cinque, veloci come fulmini. L’arrivo è confuso: ad affiancare sul traguardo la Ottey e la Devers ci sono anche la Torrence, la Privalova e la Cuthbert. Superato il traguardo, inchiodano tutte e cinque lo sguardo sul tabellone. Che non cancella le perplessità sull’effettiva classifica finale. Il replay viene ripetuto all’infinito, ma nessuno è in grado di risolvere l’arcano. Persino il fotofinish è ambiguo: il blow up insistito non chiarisce l’ambiguità dell’immagine, dell’ultimo fotogramma. Che viene interpretato con approccio divinatorio dalla giuria: ha vinto la Devers, e Merlene si ritrova quinta, nella gara più veloce della storia: tutte e cinque atlete sono scese sotto i dieci e novanta.
La finale dei 100 m femminili a Barcellona ’92
Un anno dopo, ai Mondiali di Stoccarda, Merlene si presenta con i quadricipiti tirati a lucido. La Devers parte a razzo, indemoniata come sempre. Marlene arranca in partenza ma regge l’urto, recuperando terreno e arrivando appaiata all’americana. I replay e i fotofinish vengono ripetuti in loop. Come un anno prima, non dissipano nessun dubbio. Il tempo di entrambe è 10 e 82. La giuria opta per incoronare di nuovo l’americana: la Giamaica non ci sta e inoltra un reclamo ufficiale. Ma è tutto vano: l’analisi spasmodica del fotofinish dimostrerà che la spalla ossuta della Devers, protesa in avanti, è il primo frammento corporeo a solcare il traguardo. La Ottey paga la propria postura elegante, mantenuta fino all’ultimo respiro. Viene incoronata di nuovo vincitrice la cannibale di Seattle, per un millesimo di secondo. Ma è proprio in quei Mondiali tedeschi, che Merlene troverà la sua prima, autentica consacrazione, tredici anni dopo la sua prima apparizione sulla scena internazionale. Affronta anche i duecento metri provando a liquidare gli incubi atavici, da magnifica incompiuta. La partenza è troppo bruciante, in barba ad ogni calcolo, ad ogni meditata strategia. E’ come se volesse scorciare un’agonia, sopire un tormento interiore. Liberarsi di quella timidezza paralizzante, di quell’atteggiamento riservato e composto, che sembra impedirle di ammazzare le gare, di esibire senza veli la propria conclamata superiorità. Sembra bloccata dall’eredità dolorosa della propria memoria etnica, giamaicana, da discendente di schiavi. Un malessere oscuro che le si aggrappa al cuore e alle cosce, impedendole di commettere uno sgarbo alle avversarie, lasciandosele alle spalle.
Silke Gladisch (al centro) della Germania dell’Est sul podio dopo aver vinto i 200m ai Campionati Mondiali di Roma. Insieme a lei sul podio Merlene Ottey argento e Florence Griffith Joyner bronzo (Tony Duffy/Allsport)
In allenamento è sempre stata prodigiosamente elastica, piena di grazia. Tendente all’incorporeo, con la scarpetta che sfiora leggera il terreno, blandendo la forza di gravità. In gara, invece, non è mai riuscita a correre come sa, se non per alcuni tratti, regalando discontinui lampi di classe. Appare spesso pesante, condizionata da partenze poco perentorie. Quel giorno, invece, a Stoccarda, sbuca dalla curva per prima, a testa alta, come la regina che improvvisamente si ricorda di essere. Gli orecchini dorati, a pendaglio, che fluttuano nel vento, la massa scura di capelli che ondeggia ritmica, la pelle ambrata e lucente, avvolta nel costume attillato, verde e oro giamaicano: è una visione abbagliante. Le altre arrancano dietro, sembrano ridotte all’innocuità. Ma negli ultimi quaranta metri la fluidità del ritmo di Merlene si incrina, ancora una volta. Ha dato troppo nei primi cento metri. Si indurisce, rallenta, mentre la Torrence recupera terreno, alle sue spalle, prospettandole l’ipotesi tetra di un altro drammatico fotofinish. Ma Merlene stavolta resiste all’assalto. E vince, finalmente, un primo titolo vero, un oro puro. Meno prestigioso di quell’Olimpico, che rimarrà proibitivo. Quanto basta, però, per sentirsi campionessa.
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Un tripudio da dividere con il suo uomo e allenatore, il velocista orvietano Stefano Tilli, il primo a essere stupito dal misterioso prodigio con cui convive. La soppesa con l’amore analitico dell’entomologo: «Merlene è metodica, puntuale, seria, ma ha la capoccia dura come il marmo. Il rammarico vero è che non sembra esserci nessuna correlazione tra la sua testa e le sue capacità motorie. Non ascolta fino in fondo i suoi muscoli, quello che hanno da rivelarle. Fa esercizi estremi che squarterebbero qualsiasi atleta, che io non oserei mai fare. Si allunga e si contorce ogni giorno in un’ora e mezza di stretching. E non ne avrebbe bisogno, perché è dotata dell’elasticità di un felino. I giamaicani sono un popolo impressionante. Geneticamente scolpiti dalla propria storia, dalla sopravvivenza alla schiavitù. Se fai una biopsia ai loro muscoli, ci ritrovi una quantità impressionante di fibre veloci. Che si ipertrofizzano anche se si allenano male. Noi italiani studiamo come matti il tempo d’appoggio, la fisiomeccanica, per cercare di spremere il massimo da un atleta. Poi guardi i giamaicani e scopri che non fanno niente. Nascono così, rinforzati dalla loro dieta pauperistica, ma piena di proteine, che stimola l’ormone della crescita: pollo, uova, pesci e legumi. Ecco perché la Giamaica, che ha gli stessi abitanti di Roma, è affollata di velocisti mostruosi, come Merlene».
La vittoria ai Mondiali di Stoccarda ’93
Nel 1996 Merlene ritrova la propria nemesi, alle Olimpiadi di Atlanta. Nella finale femminile dei 100 metri lei a le Devers divorano il traguardo in tandem, esultano furiosamente e si abbracciano con rancore malcelato, levando gli occhi al grande tabellone dello stadio. Nel replay l’una sembra l’ombra dell’altra: non filtra luce, trai due corpi. Il pubblico di casa invoca la Devers a gran voce. Il fotofinish, ancora una volta, non sembra risolutivo. La giuria sancisce che la sprinter americana è stata più veloce della Ottey di cinque millesimi di secondo. Alla giamaicana non resta che rassegnarsi ancora una volta alla crudeltà impietosa delle cellule fotoelettriche. Un anno dopo, ai mondiali di Atene, la Ottey si ritrova trentasettenne, ancora in forma smagliante, ad affrontare gli ultimi cento metri davvero importanti della sua carriera. Dopo lo start, però, non sente il secondo sparo che segnala la falsa partenza. Forse perché è troppo lontana, nella corsia esterna, o forse perché è già salpata per un suo intimo altrove. Si concede così una corsa solitaria, folle, dando fondo a tutta la birra che ha in corpo, fluttuando in trance in un’altra dimensione. Le avversarie la guardano sbigottite, inchiodate ai blocchi di partenza. Dopo settanta metri Merlene riapre già occhi semichiusi, intuisce il dramma, si ferma e torna indietro. Incedendo regale, per quella che sembra una passerella di saluto alle grandi ribalte.
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Ispirati dall’iconica sneaker da corsa Bolt, gli occhiali Ignite 600 sono realizzati in acetato iniettato di alta qualità che presenta degli inserti in materiale ammortizzante sulle stanghette per una vestibilità e una stabilità senza pari. Le lenti a specchio a contrasto, flash o uniformi, creano effetti di grande impatto nelle varianti corallo e argento, bianco e rosa o cioccolato.
Poi, nel 1999, incappa nel nandrolone, anabolizzante che dilata i muscoli e trucca le prestazioni. Un colpo ferale, per la paladina del sangue pulito, della corsa leale. Si dichiara innocente. Forse lo è davvero o, forse, alle soglie dei quarant’anni, si è insinuata in lei la tentazione faustiana, la smania di vincere l’agognato oro Olimpico, fuori tempo massimo. Per conquistare l’empireo dell’immortalità, abrogando le inique leggi della biologia. Un anno dopo la squalifica viene annullata dallo Iaaf, potrà continuare ancora per molti anni nella sua smania di durare, di rimanere in pista. Continuando a trascinare il suo trolley da atleta per aereoporti, alberghi, piste e meeting di tutto il mondo, da Osaka a Montecarlo, passando Lubiana. Mietendo record di anzianità in mondiali, europei e olimpiadi, sempre velata da un ostinato disincanto alla Jackie Brown. Alimentando il proprio romanzo infinito, spostando paradossalmente il piano della propria sfida, dalla velocità alla persistenza. Continuando a ripetersi, isolata in se stessa, nel clamore degli stadi “Chi nasce veloce, lo rimane per tutta la vita”.