Bolt l’extraterrestre

Storia dell'uomo più veloce di sempre, che ha piegato il tempo al proprio volere. Usain Bolt è pronto per la sua ultima Olimpiade.

L’umano, un bambino di otto anni, si volta indietro, ti guarda, sorride e sposta il pollice in giù. Ti ha sconfitto ancora. «Mio nonno parte più veloce di te». Questa volta eri quasi lì, due o tre metri e saresti stato un piede avanti, agli ottanta sentivi il suo cuore battere, il ritmo corto dei suoi passi, ti stavi mangiando la strada, poi però è finita. «E tu hai il respiro affannato di mia nonna, che fuma. Non riusciresti ad arrivare laggiù senza strisciare». Siete amici, da sempre. E non c’è dubbio su chi sia più veloce. Sei tu. Tranne qui, sulla distanza degli dei, i cento metri piani. Quella che per gli antichi erano cento passi, ma non lo saranno mai per te. Questo malumore che fatichi a nascondere non è invidia. È che ti batte a casa tua. Ed è vero. Parti lento, goffo, con il corpo che si accartoccia nel passaggio tra il pronti, in ginocchio, e lo scatto del via. Nessuno alto come te può sperare di distanziare la propria ombra sui cento. Ma tu sei il figlio del lampo e allora senti questo ritmo che sale dalla tua terra e muovi i muscoli per falli ballare. Non è ancora arrivato il tuo tempo. “Wake up and live. Life is one big road with lots of signs”.

Il piccolo umano si chiama Ricardo Geddes. La pista, improvvisata, è davanti alla scuola elementare di Sherwood Content, una cittadina del distretto di Trelawny e quella che stavi ascoltando prima è una vecchia canzone di Bob Marley. Tua madre è convinta che parli di te. Naturalmente vivi in Giamaica. Il tuo sogno è diventare un campione di cricket, le sfide con Ricardo sono solo una questione di tigna. C’è un insegnante, un sacerdote, Mr.Nugent, appassionato di sport, che continua a ripeterti: sei uno sprinter. Il problema è che tu ti vedi come uno sprinter che perde. Non sai ancora di non essere del tutto umano. Quello che sai è che ti serve un motivo per andare oltre. Niente di speciale. Mr.Nugent ti conosce. «Se riesci a battere Ricardo nel campionato scolastico ti regalo un pranzo in scatola». Adesso sì che si ragiona. Un pranzo in scatola è roba seria: pollo in salsa jerk giamaicana, yam arrosto, riso piselli. Nella tua biografia Come un fulmine quella sfida la racconti così. «Il tetto delle aule è di lamiera ondulata e le pareti sono dipinte a colori vivaci: rosa, azzurro, giallo. C’è un campo sportivo con porte da calcio, un campo di cricket e anche una pista di atletica. Una striscia d’erba per nulla pianeggiante, con le corsie delimitate da segni neri tracciati facendo bruciare benzina e un capanno proprio sulla linea del traguardo. Pronti…Via. Accade qualcosa di inspiegabile. All’inizio sento Ricardo ansimare dietro di me, ma non riesco a vederlo con la coda dell’occhio e dalle corse in strada so che è un buon segno. Passano i metri e non lo sento più. Di Ricardo nessuna traccia. Vinco. Vinco la mia gara più importante». “You shot the sheriff” e tutti ti stanno cercando.

Chi sei tu? Il fulmine. Chi sei tu? Il più veloce. Chi sei tu? Una leggenda. Chi sei tu? Il predestinato? Chi sei tu? Il prediletto. Chi sei tu? Il bambino che non sapeva stare fermo. Chi sei tu? Sono Usain Bolt e dicono che sto superando i confini dell’uomo. Nove e cinquantotto. Questo numero, in questo scorcio storico, dovrebbe essere impossibile. Era previsto per il 2030 e invece è accaduto in una notte a Berlino di mezz’agosto nel 2009. Nove secondi e cinquantotto millesimi. Tutti ti chiedono se si può andare sotto, se si può correre ancora più veloce. Tu sorridi. «Io posso». C’è in giro una grossa masnada di matematici, maghi, professionisti del futuro, analisti, premi Nobel e certo pure ciarlatani che si è messa a calcolare il limite di velocità dell’umano. Con quale battito di ciglia si possono correre i cento metri? La risposta varia tra i 9”42 e i 9”50. Questo se tu, Usain Bolt, sarai il primo e l’ultimo dei post umani.

Se sei solo il cigno nero e non fai media, non fai storia, e ti perdi nella leggenda, come un semidio da cantare nelle notti d’inverno, con la cantilena sdentata di un poeta cieco, come un piè veloce Achille reincarnato, come un demone della Giamaica che non mette paura ai bambini, ma gira il mondo come una bandiera gialla e verde, ricca di sponsor e di sorrisi, ma se invece non è così, se tu sei il padre del futuro, l’Adamo di una rivoluzione superomistica, un Superman non cresciuto su Kripto e capace di generare prole, allora ogni calcolo sarà imponderabile. Il punto di partenza sei tu: alto un metro e novantasei centimetri, con una frequenza di passi superiore a quella di chiunque altro e ogni falcata che sfiora i tre metri. «Londra. Le mie gambe lunghe mi spingono davanti agli altri. Sono come un’auto sportiva che innesta una marcia più alta. Supero i sessanta metri, poi i settanta. Sto per toccare la velocità massima. La finale olimpica 2012, come tante altre, si sta dimostrando ancora una volta basata sulla semplice aritmetica: i migliori del mondo devono fare 45 passi, io soltanto 41. Voglio correre contro un giaguaro». “We’re making the one stop. The generation gap. So feel this drumbeat. As it beats within playing a rhythm”.

Il record del mondo stabilito da Usain a Berlino

Chi sei tu? L’ultimo e il primo. Sei tutti quelli che ci sono stati prima di te e i nuovi che verranno. Sei lo strappo ma la tua evoluzione viene da lontano. Ecco l’ombra di Jesse Owens, che non è mai voluto essere un simbolo. Non vinceva per la razza o contro la razza. Non è l’ideologia e neppure il rancore, quello che gli interessa è gabbare il tempo. Corre e salta per rincorrere l’eternità. La sua firma è in quel “day of days”, quel 25 maggio del 1935, quando si prende quattro medaglie d’oro che valgono una leggenda. Non è Hitler il centro di questa storia. È il suo rapporto con l’altro tedesco, con Luz Long. Owens sbaglia due dei tre salti di qualificazione. Prima del terzo salto è proprio Luz, che conosce bene la pedana, a suggerire al ragazzo di Oakville di anticipare la battuta. È la storia di un’amicizia eterna, che va oltre la morte. Luz dal fronte di Cassino scrive una lettera a Owens: «È nato mio figlio, se non dovessi mai tornare raccontagli la nostra storia, la nostra amicizia». Luz Long non torna, cade il 14 luglio 1943 all’ombra dell’Abbazia benedettina. Jesse anni dopo accompagnerà il figlio di Luz all’altare il giorno del matrimonio.

Ecco Tommie Jet Smith e John Carlos. Eccoli sul podio di Città del Messico in quell’estate calda del ’68. Si presentano scalzi (con calze nere). Smith indossa una sciarpa nera intorno al collo, Carlos ha la parte superiore della tuta aperta (per mostrare solidarietà con tutti gli operai Stati Uniti) e una collana. Entrambi hanno una mano guantata di nero. È orgoglio. È la voglia di dire che Superman è discriminato, di gridarlo in faccia al mondo. Ecco Valery Borzov, ora ucraino, allora la risposta sovietica alla velocità degli invisible man. Borzov è un’utopia da laboratorio. È l’idea di allenare il superuomo del futuro. «A 17anni ero entrato all’Istituto di cultura fisica e di sport a Kiev, ma mi avevano già selezionato a 13. Lì avevano studiato molto scientificamente velocità, inclinazione, angoli di penetrazione, tempi di reazione. Mi allenavo 5 volte a settimana, tre ore al giorno. Quando finiva il lavoro duro ero così stanco che non riuscivo a dormire, allora bevevo un bicchierino di cognac».

L’Italia, sui 200, velocità con curva, ha mostrato al mondo invece la morale del sacrificio, qui il sovrumano battezzato Pietro Mennea ha una carica etica e filosofica, il desiderio dell’uomo qualunque di sfidare gli dei. C’è qualcosa di romantico e di profondamente umano, come una rivoluzione copernicana che riporta l’uomo al centro del sistema solare. È lui, questo pugliese senza allegria, che permette a te, Bolt, di non essere completamente ultraumano. Ecco lo scozzese Allan Wells, eroe delle Olimpiadi dimezzate di Mosca e Christophe Lemaitre, l’ultimo bianco a correre come i neri. Ecco il cubano Enrique Figuerola, ecco Don Quarrie, il patriarca di tutti i giamaicani e il traditore Ben Johnson, l’uomo che scelse di essere canadese, un proiettile lanciato da una rana, un superman gonfiato di steroidi, la perdita d’innocenza dei semidei. Ecco il Figlio del vento, quello che tu ami di meno, l’ultimo erede di Owens, bello come una statua d’ebano, elegante come nessun’ altro, troppo uomo da copertina, figlio incestuoso di Diana e di Apollo. Quello che si rifiuta di riconoscerti e spande sospetti sulla tua pulizia. Non sei forse tu della stessa schiatta di Ben Johnson? Eppure proprio Carl Lewis è quello che più di ogni altro ti ha passato il testimone: l’ultimo limite dell’umano. Così arrogante da invidiare gli dei. “Sunshine, sunshine reggae… let the good”.

LONDON, ENGLAND - JULY 22: Usain Bolt of Jamaica celebrates after winning the mens 200m during Day One of the Muller Anniversary Games at The Stadium - Queen Elizabeth Olympic Park on July 22, 2016 in London, England. (Photo by Dan Mullan/Getty Images)
Usain Bolt dopo la vittoria sui 200m durante il primo giorno del Muller Anniversary Games a Londra (Dan Mullan/Getty Images)

Neppure il sovrumano è perfetto. La schiena, maledetta schiena. La spina dorsale è fatta male. È troppo curva. Si chiama scoliosi e più invecchi e più fa male. Non è vero che Superman non deve allenarsi. Non si allena per correre, ma per sopravvivere a se stesso. Quando sei l’uomo più veloce del mondo, quando corri sulla linea dritta o sulla curva dei 200 come nessuno mai, quando hai vinto sei medaglie d’oro alle Olimpiadi, l’unico a vincere 100, 200 e 4 X 100 per due edizioni di fila, quando pensi che a Rio de Janeiro non puoi che fare la stessa cosa, allora come accade per la pistola più veloce del West spunterà sempre qualcuno che vuole sfidarti. Questo significa che ogni santo giorno vivrai solo per essere all’altezza di Usain Bolt, di quello che si racconta di te, del tuo nome, della tua leggenda, senza poter mai scappare da te stesso, senza poterti nascondere, senza poter dire no.

E ti viene voglia di rinnegarti, di strapparti il passato dalla pelle, di sognare un passo falso, di perdere perfino quella maledetta corsa olimpica per assaporare di nuovo la polvere, per tornare a essere mortale, per passare le giornate giocando a golf, come un ricco signore che ha tanto tempo da spendere e non prova più alcun senso di colpa per una birra di troppo o un hamburger stracarico di salsa da strafogare con le patatine fritte, come il demone del cibo spazzatura comanda. «Mi alleno fino a sentirmi male. Ogni giorno devo correre ripetute sui 300 metri, il più veloce possibile, per incrementare forza e resistenza. Tra una ripetuta e l’altra mi è concessa solo una breve sosta di un paio di minuti. Mi viene la nausea. Mi infilo due dita in gola per vomitare e la nausea passa, ma le gambe continuano a bruciare per l’acido lattico e il momento di non ritorno mi uccide ogni giorno. Dio quanto è dura. Come diceva Jesse Owens: un’intera vita di allenamento per soli dieci secondi. Anzi, per me sono anche meno. Sono nove e cinquantotto». Come in Keep On Moving non vuoi più essere trovato. “Lord I got to keep on moving. Lord I got to get on down. Lord I’ve got to keep on moving. Where I can’t be found”.

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Qualcuno lo ha detto e tu ti sei adombrato. «Usain è la rivelazione di Bob Marley». Come una bestemmia. Nessuno può essere come il santo patrono della Giamaica. Neppure tu. Eppure Marley ha visto la leggerezza del fulmine. Ha ascoltato il tuono e scansato la tempesta. Ti ha sentito arrivare, annunciando la tua corsa, quel tuo modo di accorciare i tempi allungando la falcata, quel ritmo che solo la tua terra può avere. Nella tua play list al primo posto c’è questa canzone: One Love. C’è una sola domanda che davvero vorrei fare, esiste un posto per il peccatore senza speranza? Sono passati otto anni da Pechino, il giorno della rivelazione. Ti ricordi? Quanto sono lunghi nove secondi e sessantanove centesimi? Abbastanza per alzare la testa, lanciare lo sguardo a destra e sinistra, allargare le braccia, battere la mano aperta sul petto e sussurrare «sono il più forte». Se lo chiedi a Usain Bolt ti dice che 9’69” sono cento metri, l’oro olimpico e i passi dell’uomo più veloce del mondo.

Ma se lo chiedi ai miliardi di occhi che hanno visto un uomo correre con le scarpe slacciate come se il tempo, all’improvviso, rallentasse, quei nove secondi e sessantanove centesimi possono essere tutto. Sono una corsetta sulla spiaggia senza neppure troppo sudare, la conferma che la teoria di Einstein sulla relatività esiste, una brezza di mezz’agosto, un numero magico del Talmud che gioca con i multipli del tre o semplicemente tre sei di cui il secondo capovolto. C’è qualcosa di mistico. Il 21 agosto, quando a Rio si spegneranno le luci e le braci della XXXI Olimpiade, avrai trent’anni. Come invecchiano i post umani? Cosa accade quando i passi rallentano? Quando sarai il passato e gli anni verranno come calci sulla schiena. Com’è la vita quando si smette di correre più veloci del tempo? Forse sarà come nei versi di Wislawa Szymborska. «Un’occasione eccezionale per ricordare per un attimo di che si è parlato a luce spenta; e almeno per una volta inciampare in una pietra, bagnarsi in qualche pioggia, perdere le chiavi tra l’erba; e seguire con gli occhi una scintilla nel vento; e persistere nel non sapere qualcosa d’importante». Lo scopriremo a Rio, Usain. “We’ve got to fulfill the book. Won’t you help to sing, these songs of freedom?”