Nella penombra di una camera d’albergo, Niccolò Campriani tira fuori la carabina, la alza e prende la mira. Poi la riabbassa e ripete, e così per tutta la notte, in mutande e canottiera, di fronte a uno specchio. Silenzioso, per non svegliare suo padre. Ha 13 anni e il giorno dopo, ai Giochi della gioventù, vincerà il suo primo titolo italiano di tiro a segno.
La storia di Campriani, due medaglie d’oro a Rio de Janeiro dopo un oro e un argento a Londra, è in primo luogo una storia di ossessione, vicenda non troppo originale del ragazzino che evolve a campione per assecondare una necessità quasi esistenziale di vittoria. Suo padre, tiratore amatoriale, un giorno lo porta con sé al poligono di tiro di Bibbiena; lui rivela mira invidiabile e talento naturale, e si innamora del rumore dello sparo di una carabina e dell’odore del legno di cui è fatto il suo calcio. Poi in un magazzino trova per caso un vecchio manuale di tiro: è in cirillico, decide di passare notte e giorno a studiarne le figure. Vuole disperatamente migliorare la sua posizione di sparo.
Qualche tempo dopo arriva però un momento in cui la traiettoria umana e sportiva del più forte tiratore della nostra epoca devia dal tracciato sicuro della predestinazione e si incurva verso i sentieri della crisi, della riflessione, della ricerca. Succede a Pechino, nel 2008, quando Niccolò fallisce l’ultimo colpo per l’accesso alla finale olimpica della carabina 10 metri, la sua specialità. Fa un 8, resta fuori per un punto. La paura dell’ultimo colpo comincia così a tormentarlo, il timore del fallimento e delle attese tradite lo paralizza. Non riesce più a trovare il momento giusto per tirare il grilletto, che è sempre tra un battito del cuore e dell’altro. Campriani si sente come Matthew Emmons, il campione americano che quattro anni prima, ad Atene, aveva gettato via l’oro nella carabina tre posizioni con uno 0 all’ultimo colpo: tesissimo, Emmons aveva mirato al bersaglio della corsia accanto.
Inizia dal fallimento cinese, e dalla conseguente cura della “sindrome dell’ultimo colpo”, una lunga fase in cui il tiratore di Sesto Fiorentino fa i conti con i propri demoni e si mette in cerca della ragione ultima del suo tirare. Conosce dapprima il sorriso di Petra Zublasing (sua attuale collega e fidanzata), poi si trasferisce in America, dove si laurea in Ingegneria manageriale alla West Virginia University e finisce nella lista dei quindici migliori studenti-atleti di tutti gli Stati Uniti. Una volta oltreoceano, senza smettere di allenarsi, viene indirizzato dal professor Edward Etzel verso l’analisi della propria interiorità. Unendo princìpi di psicologia dello sport ed elementi di filosofia zen, Campriani converge lentamente ma con successo verso un paio di risoluzioni illuminanti. Punto primo, ogni volta che è in pedana deve ricordarsi di dimenticare la paura. Punto secondo, gli occorre ricalibrare il fine della sua azione: non più il centro del bersaglio, ma la ricerca del gesto tecnico perfetto. Un gesto talmente puro da poterlo compiere solamente in una condizione di distacco. Di più: un gesto talmente puro che si compie da sé. Succede insomma che Niccolò diventa un uomo capace di accettare la paura, che nel suo sport è un’entità spessa quanto due monete da un centesimo messe una sopra l’altra: poco più di 3 millimetri, tanta è la distanza tra un 8 e un 10. Il nuovo Campriani si mette in cammino verso l’agognata meta del colpo perfetto, quello fatto senza intenzione.
Da allora, di colpi perfetti è riuscito a infilarne un’infinità. Ultimi in ordine di tempo, quelli tirati durante la recentissima finale della carabina 50 metri tre posizioni, specialità regina del tiro a segno e suo secondo trionfo a Rio 2016. Non tutti perfetti, a dire la verità. Il decisivo, l’ultimo, è stato un pericolosissimo 9.2, rivelatosi vincente soltanto perché l’altro finalista, il russo Kamenskiy, ha fatto anche peggio: 8.3. A fine gara Campriani, sobrio e sorridente, non ha fatto alcuna fatica ad ammettere che il suo avversario avrebbe meritato l’oro più di lui, e che forse era stato il mormorio del pubblico a disturbarlo.
Il custode del primo poligono di tiro frequentato da Niccolò Campriani una volta aveva bloccato la metà delle linee di tiro per un mese intero perché due passerotti avevano fatto il nido sulla macchina per il recupero dei pallini, dietro ai bersagli: i tiratori erano quindi stati costretti a fare a turno per sparare nelle linee rimaste libere. Il tiro a segno esaltato dalle gesta di Campriani è una disciplina nobile, in cui pistole e carabine sono attrezzi sportivi al pari di mazze e racchette. È un’arte che richiede passione autentica ed esige sforzi massacranti per il corpo e la mente: i tappi nelle orecchie disorientano, le giacche pesano, i respiri assordano. I battiti del cuore si avvicinano, e devi trovare sempre il modo di tirare tra uno e l’altro.
«L’unico sport in cui il più bravo è quello che usa di meno i muscoli, che li rilassa meglio», sostiene Niccolò. Fatto salvo il bottino olimpico senza precedenti, a ben vedere è proprio la rilassatezza dell’ultimo post-gara di Rio, al limite quasi del distacco, ad apparire come la conquista maggiore degli anni d’oro dell’ingegnere-cecchino che dice di non saper spiegare cosa faccia di un atleta un campione ma di sapere benissimo cosa faccia di un atleta un uomo felice. Da settembre si trasferirà nella Silicon Valley per lavorare in una startup, e molti non si sorprenderebbero se decidesse di ritirarsi molto presto dalle competizioni. D’altra parte Niccolò Campriani ha trovato se stesso ed ha vinto tutto. Non ha ancora trent’anni.