Cinque marzo 2016, velodromo Lee Valley di Londra. La stessa pista di quattro anni prima, in un’altra stagione olimpica. È la corsa a punti che decide l’omnium, la prova del tutto per tutto che comincia con Elia Viviani in testa alla classifica e si conclude con una volata sul filo del punteggio: Cavendish parte lunghissimo, Viviani si accoda al britannico ma non riesce mai a superarlo. Gaviria gode, è campione del mondo. Qualche mese più tardi, Elia Viviani dirà che da quella corsa ha imparato più che in ogni altra. Ha imparato che la decisione di giocarsi tutto in una volata prevede la possibilità di vincere o perdere tutto. 50/50. È la regola di ogni velocista. E vale allo stesso modo in una disciplina, l’omnium, che abbraccia uno spettro ben più ampio rispetto ai soli velocisti. Una disciplina cui Viviani ha dovuto abituarsi per forza, scoprendo sulla sua pelle che perdere tutto è qualcosa che può succedere sempre, anche quando ci si sente più forti di ogni avversario.
È una disciplina dalla vita complicata, l’omnium. Nata negli anni d’oro delle Sei Giorni nel dopoguerra, cresciuta sino ad approdare ai Mondiali, dove incoronò come ultimo iridato addirittura Patrick Sercu, conobbe un declino altrettanto rapido fino ad essere dimenticata del tutto. La sua storia riprende nel 2007, sotto la spinta di un’Unione Ciclista Internazionale alla disperata ricerca di un modo per ridurre il numero di gare ed atleti nel programma olimpico. Via prove storiche e spettacolari come inseguimento individuale, corsa a punti e americana, dentro proprio l’omnium, con l’obiettivo di garantire spazio ai corridori più completi, capaci tener testa a due giorni di gara massacranti, suddivisi tra prove veloci ed endurance: scratch, inseguimento individuale, eliminazione, chilometro da fermo, giro lanciato, corsa a punti. L’ordine è prefissato ma figlio di un’ulteriore riforma, che modificò punteggi e successione delle prove in modo da togliere qualche vantaggio ai velocisti e favorire i corridori di fondo, quelli capaci di spremersi fino all’ultima volata nella corsa a punti decisiva.
Ha fatto storcere nasi con la sua introduzione e con le sue riforme, ma nel frattempo l’omnium ha cresciuto anche una generazione di piccoli specialisti di questa giovane vecchia disciplina. A partire da Elia Viviani. Veronese, classe ’89, Viviani era già in bicicletta a otto anni. Inizialmente voleva soltanto fare «qualcosa di diverso dal calcio», ma ben presto ci si accorse che Elia in bicicletta ci sapeva andare, e forte. Non era l’unico, perché tra Lombardia e Veneto in quegli anni le ruote veloci sembravano proliferare: Guardini, Cimolai, Guarnieri, Modolo… un plotoncino di velocisti formatisi nei pochi velodromi disponibili, tra Pordenone, Pescantina, Portogruaro e Bassano, e dalle piste ben presto estromessi verso una più canonica carriera giovanile su strada. Tutti tranne uno, tutti tranne Viviani. Non che l’abbia snobbata la strada, Elia, ma l’amore per la pista non è mai tramontato, anche quando le cose non andavano come sperato.
Ciò che impressiona di Elia Viviani è infatti la totale concentrazione sull’obiettivo agonistico. Una caparbietà capace di fargli superare ogni volta l’intoppo di turno. È passato per sconfitte, per piazzamenti brucianti, per critiche ingenerose, per vacanze annullate, ma ha saputo sempre anteporre la sua fatica, e andare oltre. Non c’è stato un minuto negli ultimi diciotto anni in cui Elia Viviani non abbia pensato alla sua bici e a come spingerla davanti a quelle degli avversari. Basterebbe fare quello che si fa con i suoi coetanei sul palcoscenico olimpico, guardare i suoi social network. Sui profili di Viviani non ci sono Pokemon, barzellette, spiagge o squadre di calcio: c’è soltanto ciclismo. Parla di sé, della sua fidanzata e collega Elena Cecchini, ma anche dei suoi compagni in Sky (la squadra che lo ha ingaggiato e fatto maturare garantendogli da subito il riconoscimento dell’attività su pista, benché gli chiedesse soprattutto risultati su strada), dei pistard italiani e non solo. È come se nella testa di Elia ci fosse solo la bici, un velodromo di idee, con una sola idea al centro. È da questo monumento alla caparbietà che nasce il Viviani capace di rilanciare dopo ogni sconfitta, quello che si arrabbia ogni volta che perde, magari maltratta anche gli avversari, ma poi si rialza e chiede scusa. Verso la successiva volata, la successiva possibilità di vincere o perdere tutto. Anche un titolo olimpico.
Ferragosto 2016, velodromo di Barra da Tijuca, Rio de Janeiro. Elia Viviani parte per la corsa a punti decisiva dell’omnium olimpico in testa alla classifica, come a Londra, contro gli stessi avversari. La storia, però, deve essere differente, perché il Viviani che affronta la corsa è un atleta differente. A Rio ci è arrivato preparato alla perfezione, è andato a sfidare Boudat e Gaviria in Francia ed è tornato per vincere per il secondo anno di fila la Sei Giorni di Fiorenzuola, vera eccellenza della pista in Italia da cui sono passati negli anni tutti i protagonisti di questo omnium olimpico di livello eccelso. È volato in Brasile con anticipo per imparare a conoscere ogni ruga della rinnovata pista di Rio, tanto da disputare una corsa quasi perfetta nelle prime cinque prove dell’omnium: partenza lenta (7°) nello scratch, poi terzo nell’odiato inseguimento e primo nell’eliminazione. Inaugura la seconda giornata prendendo la testa con un terzo posto nel chilometro e un secondo nel giro lanciato. È talmente sereno che tra una prova e l’altra scrive nella chat Whatsapp dei suoi tifosi, scherzando e raccogliendo incitamenti. Gli resta solo la corsa a punti, la sua corsa a punti, e la lezione di Londra. Viviani mostra subito la gamba nelle prime volate, poi si dedica al catenaccio, non attacca ma sprinta, per vincere tutto. Rischia di perdere tutto, invece, con una caduta a cento giri dal termine, ma riparte quasi come se nulla fosse. Fino a quel penultimo sprint, vinto di rabbia e potenza, che sa di liberazione, e anticipa le lacrime di una medaglia d’oro più inseguita che attesa.
Le Olimpiadi di Rio 2016 segneranno un passaggio che ha del clamoroso, quello della piccola rinascita della pista italiana. Un risultato quantomai sorprendente, se pensiamo che arriva in un’epoca in cui la Federciclismo si occupa più di granfondo amatoriali che di sviluppi sportivi, ignorando una carenza di velodromi che obbliga i pistard nostrani a predicare nel deserto. Un risultato che ha però dei padri nobili nella tenacia di tre tecnici capaci di lottare ogni giorno contro i mulini a vento e sconfiggerli, i ct Marco Villa e Dino Salvoldi e il coordinatore delle nazionali Davide Cassani. Personaggi figli del tanto bistrattato ciclismo degli anni ’90, raccontato soltanto sotto la narrazione tossica dell’antidoping, ma che invece ha saputo tenere in vita quelle ultime scintille di una cultura del ciclismo a 360°, eclissatasi sempre più nell’epoca delle programmazione assoluta. A queste tre figure, però, ne andrebbe aggiunta una quarta con lo stesso peso: Elia Viviani.
La vittoria del veronese infatti appare come il sigillo di questo passaggio storico, con l’obiettivo raggiunto da colui che da solo ha tenuto accesa la speranza dei pistard italiani negli ultimi anni; è uno di quei risultati che finalmente possono essere definiti “giusti”. Una conquista inseguita da anni che ora libera Viviani verso nuovi obiettivi. Il primo sarà una maglia importante ai mondiali su strada di Doha, poi proverà a sperimentarsi davvero nelle grandi classiche, dalla Sanremo in giù. Per la pista ci sarà spazio più avanti, perché a Viviani manca ancora una maglia iridata e non tollererà mai questa lacuna, ma nel frattempo il testimone si sposta in altre mani. Passa ai tre ct, ai quartetti dell’inseguimento, a Filippo Ganna, e a un ciclismo italiano che dovrà saper raccogliere questo slancio di speranza, fornendogli strutture ed opportunità. La posta in gioco è sempre la stessa: vincere o perdere tutto.