Uno dei motivi, forse il principale, per cui impieghiamo così tanto tempo a pensare allo sport, e conseguentemente a parlarne, a leggerne e a scriverne è la sua incredibile capacità metaforica. La tentazione della metafora è un’irresistibile campo di forza che attrae chiunque si approcci allo sport inducendolo a vedere altro laddove in realtà ci sarebbe soltanto uno scatto, un lancio, un colpo. Buona parte di questo corpus metaforico-sportivo è all’occorrenza applicabile a qualsiasi disciplina: la lotta dell’uomo contro i propri limiti, il sapersi rialzare dopo la caduta, il reagire a una forza negativa e imponderabile sono linee narrative che si possono trovare dappertutto, dal più oscuro sport di squadra alla più celebre delle discipline olimpiche. Altre, però, sono intimamente legate ad un solo sport, e sono proprio queste a pennellare le sfumature, a rendere uniche le esperienze emozionali.
Nessuno sport riesce a parlare dell’ignoto come fa il salto in alto. Su un primo piano di lettura, più immediato e spontaneo, l’asticella è il bordo fragile di un crepaccio aperto sul buio. L’atleta che, dopo aver portato al di là la testa e le spalle, resta sospeso in aria per un millesimo di secondo prima di ricadere, rievoca ansie antiche e inevitabili, presenti in ciascuno di noi: dopo aver saltato, come sarà l’atterraggio? Dopo aver studiato la disciplina e appreso le modalità di allenamento, però, emerge un secondo piano di lettura di questa metafora. Il salto in alto può essere infatti inteso come il gigantesco sforzo collettivo di atleti e allenatori di sfidare l’ignoto andando alla ricerca di un gesto tecnico sempre perfettibile, e mai definitivo. Ci parla di questo l’epocale rivoluzione nello stile del salto, dal ventrale al Fosbury, che ha letteralmente cambiato i connotati alla disciplina. Ci parla di questo il fatto che il salto in alto sia una delle specialità dell’atletica leggera con i record mondiali più longevi, risalenti a più di vent’anni fa sia per gli uomini che per le donne. Ma soprattutto ci parla di questo l’allenamento a cui si sottopongono i saltatori, una ripetizione di gesti apparentemente sempre uguali ma in realtà sempre impercettibilmente diversi, da ripetere all’infinito, oltre i limiti dell’ossessione, fino all’automazione totale del corpo e al raggiungimento di un salto perfetto che in realtà è, di nuovo, ignoto.
Alessia Trost è una ragazza friulana dotata di una grazia nei movimenti assurda per i suoi centottantotto centimetri. È la migliore saltatrice in alto italiana in attività, e, di fatto, nonostante abbia solo ventitré anni e non abbia ancora mai partecipato a un’Olimpiade, una delle migliori di sempre, essendo una delle sole tre atlete azzurre, insieme ad Antonietta Di Martino e Sara Simeoni, ad aver saltato oltre la soglia cruciale dei due metri. Basta ascoltarla per qualche minuto, dopo una gara o mentre spiega for dummies la sua disciplina nei video tutorial del canale Youtube del Coni, per toccare con mano l’anima del salto in alto. Quando, dopo il risultato deludente agli Europei da poco conclusi, di fatto le prove generali delle Olimpiadi imminenti, le viene chiesto la natura dei suoi errori la risposta è chiara: «Di sicuro non ho automatizzato certi movimenti». Lo stesso concetto lo aveva già illustrato l’anno scorso ai microfoni proprio di Undici («Immagina il salto in alto come una serie di informazioni motorie per cui nel corso del tempo più salti, più automatizzi. Tanto che dovresti arrivare alla gara pensare») e ancora prima, tra gli altri, alla Gazzetta dello Sport («Il problema su cui ho lavorato molto in questa stagione sta nel cercare di automatizzare al massimo la ritmica della rincorsa e la velocità negli ultimi tre appoggi prima dello stacco. Ma so che insistendo prima o poi questi automatismi arriveranno»).
La preparazione al salto è un annientamento brutale, una deliberata de-umanizzazione che rende questo sport il paradossale confronto tra uomini che anelano a essere macchine. All’ignoto, al salto perfetto, non ci si arriva con un lucido atto di volontarismo, ma togliendo ogni tipo di controllo mentale sul corpo. Non è un caso che indoor, dove si gareggia senza essere circondati dal caos delle altre gare contemporaneamente in corso, e dove di conseguenza può essere più facile innescare il processo di automatizzazione del proprio fisico, Alessia Trost abbia dato il meglio di sé – record personale dei due metri e argento agli Europei del 2015 – e non è un caso che a Sportface sia stata lei stessa, in relazione all’atmosfera festosa che ci si aspetta a Rio, a dire: «Sto già lavorando a livello mentale per riuscire a entrare in una bolla ed escludere tutto il resto per poter solo saltare al meglio delle mie capacità». Nonostante agli Europei di Amsterdam sia arrivata solo sesta, saltando sotto il metro e novanta, Alessia avrà a Rio de Janeiro la grande occasione per riportare il salto in alto italiano a una medaglia olimpica che manca da trentadue anni. Quando Alessia Trost si troverà sospesa in aria, con la testa e le spalle oltre l’asticella, penseremo tutti, intensamente, all’ignoto, cercando la risposta alla domanda universale: «Dopo aver saltato, come sarà l’atterraggio?».