Saranno gli Us Open delle risposte. La prima riguarda le donne. Perché la bocciatura di Angelique Kerber all’esame da numero 1 è stata sacrosanta, nella scorciatoia di Cincinnati, mentre Serena era bloccata dall’infortunio alla spalla. Ma, al di là dei limiti dell’erede di Steffi Graf stoppata dalla picchiatrice Karolina Pliskova, un anno dopo il clamoroso harakiri di New York contro Roberta Vinci quand’era a due sole tappe dal Grande Slam, la regina deve risolvere il quiz sulla sua grandezza: è quella che sciupa le occasioni storiche, come anche nelle finali di Australian Open e Roland Garros di quest’anno (contro Kerber e Muguruza), è quella che si riappropria di Wimbledon, o è quella che si scioglie in lacrime all’Olimpiade? La gente lo sa, l’ambiente lo sa, il tennis lo sa, e perciò per la prima volta da anni il costo medio dei biglietti per la finale femminile è di circa 520 dollari, appena il 18% meno di quelli per la finale maschile.
Il vero dilemma degli Us Open è legato però al numero 1 degli uomini. Non più alle velleità del fenomenale Federer, che ha deciso di fermarsi in bacino di carenaggio per rimettere in sesto il fisico, o a quelle di Rafa Nadal, sempre più usurato proprio nella proverbiale fisicità. Il dubbio riguarda i primi due, i gemelli del maggio ’87, Novak Djokovic e Andy Murray. Perché, se fino al trionfo del Roland Garros, col quale il serbo di caucciù ha sfatato il tabù nell’unico Major che gli mancava, volando virtualmente verso il Grande Slam (cioè la conquista nello stesso anno dei quattro maggiori tornei, che è mancato nei momenti d’oro alla coppia Federer & Nadal), Nole ha poi fallito totalmente i due grandi appuntamenti successivi, Wimbledon e Olimpiade, lasciandoli nelle mani del rivale scozzese. E, mentre Andy ritrovava insieme a coach Ivan Lendl le sue mille risorse, il serbo si fermava troppo presto, riaprendo tutti i dubbi sui limiti psico-tecnici: quando va in ebollizione perde completamente la tramontana, ha un gioco molto dispendioso e senza assi nella manica e quindi fa troppa più fatica, maschera malissimo il disamore del pubblico verso di lui. E così l’equilibrio fra Novak ed Andy s’è ribaltato, con il quarto dei Fab Four che ha scalato le posizioni ed è diventato il vero protagonista della seconda parte di stagione, fermandosi sono dopo 22 successi consecutivi, e solo in finale, più per stanchezza mentale che per le autentiche virtù del pur temibile Marin Cilic, campione degli Us Open 2014.
La finale dell’ultimo Wimbledon, vinta da Murray
Importantissimo è stato, per Murray, riconquistare Wimbledon, il torneo di casa, e ancor di più è stato confermare l’oro olimpico di quattro anni fa sull’erba mitica di quello stesso torneo, allora a cinque cerchi. Perché stavolta aveva più responsabilità davanti al Regno Unito, come portabandiera alla cerimonia d’apertura e come reale favorito dopo le titubanze di Djokovic. Ha tenuto duro di nervi, ha sbaragliato la concorrenza anche da quel Juan Martin Del Potro che sembrava armato dal destino in un torneo che per i big è importantissimo. Come hanno detto chiaramente le lacrime di Nole dopo l’eliminazione già al primo turno contro il miracolato Delpo, e quelle di Rafa dopo aver conquistato l’oro di doppio, quattro anni dopo la dolorosissima rinuncia di Londra per il ginocchio in panne. Senza contare quelle nascoste a malapena da Federer, che aveva fissato proprio a Rio la boa di fine carriera, magari col botto di quell’oro in singolare che manca alla sua collezione di incredibili successi. Murray all’Olimpiade era sbocciato e all’Olimpiade s’è rilanciato. Lì vinse l’oro, riscattando un mese dopo la delusione della finale di Wimbledon classico, e prendendo lo slancio per firmare il primo Slam agli Us Open e, quindi, un anno dopo, per sfatare la maledizione britannica ai Championships 77 anni dopo Fred Perry. Lì, sullo slancio del secondo urrà a Wimbledon, ha preso completa fiducia a Rio verso i traguardi più importanti, dall’ultima tappa stagionale sul cemento di New York agli Australian Open di gennaio che ha fallito cinque volte, dalla terra rossa del Roland Garros (superficie dove si sente sempre più sicuro) al Masters di casa dove arriva sempre spompato.
A fargli coraggio c’è la nuova regolarità, la capacità di trovare la via di fuga anche quand’è con le spalle al muro e, soprattutto, le crepe nell’armatura di Djokovic. Battuto al secondo turno a Wimbledon e al primo ai Giochi, e poi costretto a saltare Cincinnati per una tendinite al polso sinistro, proprio la fucina di tanti miracolosi recuperi col famoso rovescio a due mani. Crepe di fisico, ma soprattutto di fiducia, proprio quando sembrava pronto a schizzare, imprendibile, nel firmamento dei più grandi tennisti di sempre. Crepe che, per l’orgoglioso eroe serbo, sono autentiche voragini nella sua autostima. Sarà in grado di riscattarsi e di travolgere ancora una volta i rivali? I dubbi, che già si erano rivelati nelle campagne d’Australia e di Francia e si sono fortemente acuiti con le disfatte con Querrey e Del Potro, non sono stati affatto cancellati dal trionfo nell’ennesimo torneo Masters 1000, addirittura il trentesimo, a Toronto, un successo che l’ha accomunato sempre più all’altro grande lottatore anni 80, Ivan Lendl, come lui grande collezionatore di tornei ricchi, ma incapace di conquistare davvero le folle.
Il trionfo di Djokovic agli Us Open 2015
Oggi come oggi, Novak sembra bravo a sfruttare le debolezze dell’avversario e a scalare marcia nei momenti topici. Senza però mostrarsi davvero ingiocabile come in certe memorabili partite, quand’ha gettato nello sconforto chi si trovava di là del net, imponendogli un ritmo di palleggio troppo elevato e schiantandolo, quindi, di testa e di fisico. Molte sono le fasi di stanca del suo gioco, molti i momenti di autentico sconforto, molti i set che deve vincere allo sprint. Da cui il rilancio del numero 2, Murray, costretto negli anni a ingoiare rospi amari, ma sempre comunque capace di ritagliarsi il suo angolo di gloria, in virtù di una classe tennistica superiore, di un fisico pieno di sorprese e di un immenso orgoglio. A New York, quindi, l’ardua sentenza: re Djokovic si è logorato col suo gioco sempre a mille o ha rifiatato dopo 20 mesi di dominio (novembre 2014-giugno 2016: 19 titoli, di cui 6 Slam, 10 Masters 1000 e 2 Masters), come gli capitò esattamente quattro anni fa, dopo la doppia delusione Wimbledon-Olimpiade? I 7 tornei vinti quest’anno (uno più del trionfale 2015), il gigantesco vantaggio di punti nella classifica mondiale, i due successi Slam stagionali, i precedenti con Murray, la pochezza dei secondi della classe e dei giovani rampanti, la dedizione, la capacità di essere stato il detentore di tutt’e quattro gli Slam dopo Rod Laver negli anni 60 e la innata voglia di riscatto fanno pensare a una fortissima voglia di reazione del campione. Che, proprio agli Us Open, punta dichiaratamente alla ripartenza, pur dopo aver superato la fatidica data dei 29 anni, come nel tennis sono riusciti solo Emerson ed Agassi. Ma la sensazione è che il miglior Djokovic l’abbiamo già visto e il miglior Murray non l’abbiamo visto ancora tutto. E poi la vox populi dello spogliatoio è terribile: se è riuscito a batterlo Querrey, perché non dovrei riuscirci io?