Abbiccì — Il doppio passo

La prima puntata di una rubrica sulla storia e l'evoluzione dei gesti tecnici del calcio. Si comincia con il doppio passo, da Amedeo Biavati ai due Ronaldo.

Doppio passo: è un tipo di dribbling, o finta, con la quale nel giuoco del calcio un calciatore con un piede fa un movimento rotatorio attorno al pallone, mentre con l’altro effettua un leggero tocco in velocità. In italiano prima di chiamarsi doppio passo ha avuto altri nomi: scambietto (da Gianni Brera) o anche passo doppio. È chiamata in spagnolo pedalada, in inglese scissors o Denìlson, in onore del giocatore brasiliano.

Nella cultura sportiva il doppio passo rappresenta l’emblema del calcio spensierato e (anche) strafottente; dai puristi è spesso considerato solo un barocchismo. Si loda, in questi casi, un giocatore, ad esempio Messi, per essere uno che non perde tempo a fare doppi passi, veroniche o rabone. In questa sua accezione da spettacolo, il doppio passo è associato al joga bonito brasiliano, a quel tipo di calcio che non è solo realizzazione ma anche intrattenimento. Il doppio passo è in nuce tutto quello che il calcio carioca rappresenta: velocità, estro e il guardarsi allo specchio per sentirsi dire quanto si è bravi. E l’immediata associazione col Brasile è dovuta al primo calciatore che ha unito la velocità e potenza fisica a due piedi fantastici.

Robinho dà un saggio della sua pedalada nella sua prima con il Real Madrid, nel 2005

L’Inter sta sfidando la Lazio in casa, la partita è sullo zero a zero, sulla metà campo laziale la palla raggiunge Ronaldo, che la controlla prima con un uno stop di petto poi con un leggero tocco. In questo momento è forse il centravanti più forte che c’è al mondo, e probabilmente, in questa sua versione targata anno 2002 è uno degli attaccanti più forti di tutti i tempi: potenza pura. Poi Ronaldo mette l’acceleratore e ingrana subito due o tre marce, supera un giocatore in velocità e si avvicina alla mezzaluna, il difensore laziale davanti a lui, Couto, rallenta correndo all’indiretto, Ronaldo stesso rallenta leggermente; l’intento è quello di effettuare la finta per poi, grazie a questa, accelerare e lasciare Couto per terra stordito a guardarlo andare dritto in porta a segnare il gol che sblocca la partita. Ronaldo fa due tocchi con il piede destro portandosi avanti la palla, ha la schiena leggermente chinata e lo sguardo sul pallone, gira il piede destro attorno alla palla e quando fa lo stesso con il piede sinistro la gamba gli si pianta nel terreno, il ginocchio parte e lui crolla a terra dolorante stringendo i denti.

L’iconica giocata di Ronaldo nella finale di Coppa Uefa del 1998

Ronaldo durante la sua carriera ha effettuato un numero di doppi passi probabilmente uguale se non leggermente inferiore a quello dei suoi gol, che sappiamo tutti essere tanti e svariati e potenti e belli. E come lui tanti altri brasiliani, come Ronaldinho Gaucho e Robinho. Ma, come dimostra Ronaldo, se non esagerato, il doppio passo è una finta funzionale come poche altre, capace di far saltare l’uomo e di lasciarlo a terra con le stelline che gli girano sulla testa a chiedersi dove sia finito quello là. Il suo omonimo, al giorno d’oggi, pratica lo stesso tipo di finta, ed è interessante notare come a inizio carriera con la maglia dello Sporting di Lisbona e anche nei primi anni a Manchester il doppio passo fosse solo un suo modo di esternare il proprio talento, per poi diventare nel Real Madrid una finta mirata semplicemente a superare l’avversario.

Lezione di doppio passo del Ronaldo portoghese

È strano a questo punto pensare come in realtà il doppio passo non sia nato in un Paese dove si parla il portoghese o in qualche campo sudamericano, ma tra quelli europei: olandesi, secondo alcuni; italiani o più precisamente bolognesi secondo altri. La sua invenzione si fa risalire o a Law Adam, giocatore olandese di fine anni ’20, inizio anni ’30, il cui soprannome era “The scissorman”; o a Amedeo Biavati, ala del Bologna e vincitore, prima della seconda guerra mondiale, di tre campionati e un Mondiale con la maglia della Nazionale. La paternità del doppio passo non è certa, anche se è possibile che sia stato semplicemente inventato due volte.

Non ci è difficile immaginare un campo sterrato di Budrio, nella provincia di Bologna, con le porte senza la rete perché non ci sono i soldi e la palla che ogni volta che viene segnato un gol bisogna andarla a riprendere, e vedere su questo campo un giovane e magro Amedeo Biavati allenarsi, velocizzarsi a correre su e giù per quel lembo di campo che per molto tempo sarà la sua casa. Vederlo muovere i piedi attorno al pallone inconsapevole di stare creando qualcosa che rimarrà per sempre nel mondo del calcio. Biavati corre sulla fascia, il difensore indietreggia, Amedeo va un po’ troppo veloce, deve rallentare o si schianterà contro di lui; deve scartarlo, quindi muove velocemente il piede attorno al pallone fingendo un tocco con il piede sinistro, il difensore non se lo aspetta e si muove verso sinistra, quindi Biavati tocca la palla con il piede destro e se ne va verso la porta. Gli è uscito naturale, spontaneo, e così lo ripete un’altra volta, e poi lo ripete in quello che adesso è chiamato Dall’Ara davanti a migliaia di spettatori in Serie A, poi lo ripete in Uruguay al Mondiale, nei quarti di finale, poi lo ripete in eterno.

1946 - I capitani Peppino Meazza e Amedeo Biavati
I capitani Peppino Meazza e Amedeo Biavati prima di un Inter – Bologna

 

Amedeo Biavati era nato a Budrio in provincia di Bologna il 4 aprile del 1915. Era un giovane dal fisico esile e, si dice, con i piedi piatti, cresciuto in povertà, che dopo la trafila nelle giovanili del Bologna era riuscito ad arrivare in prima squadra dove, diciottenne, esordì riuscendo a segnare due reti. Dal 35’ al ’38, sotto la guida di Arpad Weisz, che lo rese l’ala dominante che era, riuscì a guadagnarsi un posto da titolare, riuscendo a vincere tre scudetti oltre che a essere convocato in Nazionale. Biavati venne convocato per il Mondiale del 1938, il secondo di fila vinto dalla Nazionale Italiana. Ricorda Maurizio Barendson: «Il cinema si interessò a fondo di Biavati alla vigilia dei Campionati Mondiali del ’38. A quell’epoca i colpi segreti del calcio azzurro, i trucchi più spettacolari e avvincenti erano due: il “passo doppio” di Biavati e la rovesciata di Piola. Un regista di allora ne approfittò per sottoporre i due moschettieri a una contemporanea analisi visiva. Fu così che tutti noi ci accorgemmo della incantevole semplicità della tecnica di Biavati e che per molti il “doppio passo” diventò una innocente mania. Sembrava un nome di danza e in effetti la parte di ritmo era indispensabile all’ efficace esecuzione del colpo. A farlo piano si poteva anche illudersi di riuscire, ma a volerlo eseguire con la stessa cadenza del suo creatore c’era soltanto da rischiare una brutta figura».

Biavati in quel Mondiale partì titolare ed esordì con la Nazionale durante i quarti di finale, giocando così bene da essere inamovibile fino alla finale e per molti anni dopo. L’unico video che si riesce a trovare con Biavati giocatore è il video della finale del vinta contro l’Ungheria 4-2.

Un gol di Biavati è rimasto impresso a chi allora poté vederlo

13 maggio 1939, l’Italia sta perdendo contro l’Inghilterra 1 a 0, a San Siro sta piovendo e la palla e le casacche dei giocatori si fanno sempre più pesanti. Biavati riceve palla sulla destra e accelera in una delle sue solite volate; questa però è lunga ben quaranta metri, più veloce di tutti i suoi avversari. Al limite dell’area di rigore, Biavati si trova uno contro uno con la bandiera inglese Eddie Hapgood, ma il giocatore bolognese non si ferma e lo dribbla una e due volte con il suo doppio passo. Un ultimo tocco e si trova davanti al portiere che spiazza tirando sull’angolo opposto. Si dice che Hapgood corse a stringergli la mano. La partita finì due a due ed è ricordata anche per un gol di mano di Silvio Piola.

Del doppio passo di Biavati ne ha scritto anche Gianni Brera: «La finta di iniziare il dribbling con il destro, teso e poi trattenuto e richiamato con armoniosa sornioneria quando l’avversario ha ormai pensato al sinistro. Non m’illudo di averlo descritto alla perfezione, il famoso, scambietto di Biavati: è una finta elegante, con il difetto di non essere un gesto perentorio: ma proprio per la sua semplicità inganna l’avversario che sta per opporsi in tackle e vi rinuncia, insospettito da questa pausa: allora ne approfitta Biavati per partire e prendere vantaggio».