Dietro a un grande golfista c’è spesso un padre straordinario e questo vale anche per Arnold Palmer, scomparso lunedì a 87 anni, che è a sua volta il papà del golf moderno, “the king”, il re dell’“esercito di Arnie”, come sono chiamati i suoi fan, tutti ugualmente ammaliati da quel fare diretto e a tratti aggressivo che ha cambiato lo spirito dei golfisti, oltre che la popolarità di questo sport pressoché ignorato fino all’arrivo di Arnie. A Golfer’s Life, il memoir che Palmer pubblicò nel 1999, è un inno a suo padre “Deke”, che mise in mano al figlio il primo bastone da golf, un bastone da donna accorciato. Arnie aveva tre anni, suo padre gli disse soltanto: «Colpisci forte, ragazzo», e da quel momento il ragazzino non ha fatto altro, ha colpito fortissimo fin da subito, quando si allenava all’alba perché poteva giocare soltanto prima dell’apertura del campo ai soci del golf.
Nella frase di papà Deke c’è tutto il golf di Arnold Palmer, c’è la rottura con la tradizionale delicatezza con cui ancora oggi i maestri insegnano il golf, c’è la forza, l’audacia, lo swing fatto di potenza e creatività, il sorriso beffardo, l’aria da sciupafemmine, la sigaretta tra le dita, l’istinto sopra a tutto. Arnie non giocava su un campo da golf, lo aggrediva, amava le competizioni, più erano rabbiose più si divertiva, litigava con i suoi avversari, provocava, rideva, e tutti i commentatori, a ogni gara, non riuscivano a non sottolineare quanto fossero grandi le mani di questo golfista, mani da “everyman” non da figlio di papà, quanto fosse irriverente il suo modo di giocare a uno sport che era famoso per i movimenti carezzevoli e gli abiti elegantissimi. Arnie cambiò tutto, e tutto cambiò assieme a lui, il golf divenne spettacolo, il suo spettacolo, Arnie fece tantissimi soldi, divenne imprenditore di un business fondato su se stesso, disegnò vestiti, automobili, campi da golf, prodotti per la casa, aprì anche una catena di lavanderie a suo nome e c’è un drink che si chiama come lui, un tè freddo con tanta limonata (nulla sarebbe accaduto se dietro a Arnie non ci fosse stata Winnie, la moglie scomparsa nel 1999, che a 19 anni si innamorò di lui e scappò di casa per sposarlo, ignorando il padre che le diceva che quel matrimonio era un errore: Winnie dedicò la sua vita a far tornare i conti di Arnie, a fare i preventivi per le trasferte, a pagare le bollette e i fornitori, a seguire gli affari che nascevano attorno al marito-fenomeno, a far sì che lui potesse concentrarsi soltanto sul golf).
La televisione e Arnold Palmer arrivarono insieme a salvare il golf dal suo destino elitario, e da gran seduttore Arnie diceva spesso, guardando in camera, che la forza per fare tutto quel che faceva “siete voi”, superando così in popolarità e simpatia giocatori anche più forti di lui (Palmer non riuscì mai a ottenere un Grande Slam). La prima regola che insegnano i maestri a chi inizia a giocare a golf è: non picchiare la palla, ma Palmer faceva l’esatto opposto, e ne andava fiero, seguiva quel che gli aveva detto papà, colpisci fortissimo, sparava la palla in posti impensabili e dovunque fosse provava sempre a tirare al green. Potevo essere come gli altri, diceva, potevo essere un conservatore, ma anche i conservatori rischiano di sbagliare, e allora preferisco fare quel che ho sempre fatto, fin da quando ero ragazzino, tiro al green anche se sono nel bosco, spesso ci riesco. Gli altri calcolavano e lui osava, perché solo così il golf diventa divertente e lui questo voleva, che il suo sport diventasse appetibile per tutti, che tutti potessero immedesimarsi nelle rimonte straordinarie, e nelle battaglie colpo su colpo, con il fiato sospeso, perché era convinto che il golf fosse vita: non soltanto la sua, la vita di ogni americano.
C’è stato un momento in cui qualcuno pensò di sfruttare la popolarità di Palmer in un ambito in cui il consenso è tutto: la politica. Erano i tempi del Watergate, la classe politica americana era sotto pressione, il Partito repubblicano andava cercando una “faccia pulita”, Palmer votava repubblicano – si definiva un “middle-of-the-road Republican” – e spesso nel pubblico che lo seguiva nelle gare si alzavano cartelli scritti a mano che dicevano: “Arnie for President”. Un giorno alcuni investitori e sostenitori del Partito repubblicano gli si avvicinarono, gli dissero che lo stimavano molto e che la sua figura era popolare e positiva per il popolo americano e che se avesse voluto fare politica loro erano lì pronti ad assecondare ogni sua ambizione. Palmer ha raccontato di essere stato tentato dall’offerta: aveva talvolta pensato all’ipotesi di trasformarsi in qualcosa di diverso dal golfista più amato del momento, aveva già ricevuto proposte simili in altre due occasioni, nel suo stato, la Pennsylvania, ma allora aveva risposto di non sentirsi intelligente a sufficienza. All’ultima offerta, ci pensò un po’ di più. Ma poi concluse di essere troppo diretto, di avere avuto da sempre la fortuna di poter dire quello che voleva – anche chiamare il suo nemico poi diventato amico Jack Nicklaus «il maiale d’oro», facendo il verso a tutto il resto del mondo per cui Nickalus era “l’orso d’oro”, senza doversi preoccupare delle conseguenze, un lusso irrinunciabile. Ancora una volta Arnie seguì i consigli di suo padre, che era un rooseveltiano con il caratteraccio ma non gli aveva insegnato soltanto a colpire la palla fortissimo: «Un uomo intelligente impara presto in che cosa è bravo, e continua a fare quello».