Di squadre-simpatia è costellata la storia del calcio. Di squadre detestabili si è addirittura perso il conto. Ma per trovare una squadra-simpatia che sapesse anche farsi odiare da un intero Paese bisognava aspettare il 2016, l’anno in cui il RB Leipzig conquistò la vetta della Bundesliga. Perché quella del primo club della ex Ddr ad esprimersi ad alti livelli nel campionato della Germania riunificata è una storia bella solo a metà. È piuttosto la dimostrazione calcistica della teoria della relatività: favola o abominio dipendono solo dalla prospettiva in cui si guarda, o si tifa.
Per andare con ordine è meglio partire dalla fine, ovvero dal 3-1 al Mainz che è valso l’aggancio al Bayern Monaco per la squadra di Lipsia. Il campo dice 23 punti, 7 vittorie, 3 pareggi, zero sconfitte, una specie di miracolo per una neopromossa, per di più con un’età media da Giovani marmotte: 23,9 anni. Sempre il campo dice che il tecnico Ralph Hasenhüttl probabilmente in un’altra vita era un direttore d’orchestra. Non si spiega altrimenti la capacità di creare in soli quattro mesi (fino a giugno era il tecnico dell’Ingolstadt) una sinfonia di gioco così rodata. Il Lipsia sembra giochi insieme da un decennio, mostra automatismi che sorprendono. Basta guardare le azioni dei gol: difficile siano su palla inattiva o su invenzione personale. Di norma sono azioni “alla mano” o contropiedi letali figli di un 4-4-2 solido e dinamico (nell’ultimo match 3 km corsi in più rispetto agli avversari). È ancora il campo a dire che lo svedese Emil Forsberg sta attraversando un periodo di grazia, che la meteora viola Compper a Firenze non sembrava così forte, che il centrocampista Naby Keita (21 anni) diventerà oggetto delle mire dei big d’Europa e che Timo Werner (classe ’96) è candidato a raccogliere l’eredità di Miro Klose in Nazionale.
Il secondo gol contro il Mainz
Insomma, il campo dice molto del RB Lipsia, ne illumina i pregi e irradia un entusiasmo contagioso. Abbiamo tutti bisogno di credere nelle fiabe, siamo assetati di Chievi, Sassuoli e Islande, ci basta sentire mormorare che Davide sta dando noie a Golia – fosse anche in seconda divisione paraguaiana – per parteggiare istintivamente col piccolo diventato grande. Se poi uno alza lo sguardo sugli spalti, ecco che l’innamoramento è sicuro: stadio da 44mila spettatori sempre pieno, il 30% degli spettatori è donna, il 10% under 14 e tra i gruppi ultras nessun nostalgico delle Ss come in altre famigerate curve neonazi della ex Ddr. Impossibile rimanere impassibili. L’attenzione mondiale si concentra in Sassonia. Cascate di articoli, giornalisti spediti a Lipsia a documentare il momento storico, analisi sulla luce in fondo al tunnel del calcio tedesco dell’Est. Non è la Ostalgie, il rimpianto un po’ inspiegabile per la Rdt delle Trabant e dei cetrioli della Sprea, ma Goodbye Lenin lo abbiamo visto tutti e dopo quel film nessuno è stato più come prima. In fondo i tedeschi dell’Est, asfissiati dalla Stasi e tagliati fuori dalla storia, sono un popolo che ispira curiosità. E il Lipsia, lungi dall’essere un residuato bellico di quell’epoca, diventa trend topic.
Quel che però il campo non spiega è il motivo per cui le tifoserie di tutta la Germania si siano unite nel comitato Nein zu RB, No al RB Lipsia. Per capirlo è utile tornare indietro al 2009, quando Dietrich Mateschitz, tycoon austriaco proprietario del colosso delle bibite energetiche Red Bull decide di comprare una squadra anche in Germania. Legittimo, sono in molti a detenere diversi club in diversi Paesi (i Pozzo ad esempio, con Udinese, Watford e Granada, ma anche i Mansour del Manchester City, del New York City e del Melbourne City). Quel che però costituisce il primo lato oscuro della forza di Red Bull è come questi acquisti sono effettuati, ovvero cannibalizzando l’identità di squadre già esistenti, che di fatto spariscono, fagocitate dalla nuova società. Esemplare è quanto accaduto all’Austria Salisburgo, società blasonata con qualche titolo nazionale in palmarès. Acquistata nel 2005, è stata totalmente spazzata via: via il nome, cambiato in Red Bull Salzburg; via i colori sociali viola, rimpiazzati dal biancorosso; via lo stemma sostituito dai due tori rossi con cerchio giallo che campeggiano su ogni lattina del mondo del drink a base di caffeina e taurina. E la tradizione, il rispetto, i tifosi che chiedevano semplicemente un bordino viola sui calzettoni come piccolo ricordo affettivo della loro identità perduta? Migliaia di occhialini con lenti viola fatti trovare sui seggiolini: «Vogliono il viola? Così potranno vederlo».
Stessa cosa a New York, dove nel 2006 i MetroStars subiscono la stessa metamorfosi taurina, a Campinas (San Paolo), dove nel 2007 nascono i Red Bull Brasil, e in Ghana, dove viene fondata una succursale africana poi ceduta al Feyenoord in seguito agli scarsi risultati. Tutti con la stessa maglia, lo stesso nome, lo stesso stemma, un invasivo franchising del pallone, il Mc Donald’s del calcio. Così, quando la Red Bull (11mila dipendenti, 500 milioni di euro investiti ogni anno nello sport, dalla Formula1 ai tuffi fino ai lanci dalla stratosfera di Baumgartner) decide di invadere la Germania dalla vicina e detestata Austria, le premesse non sono le migliori.
Il problema è che lo sviluppo dell’idea di Mateschitz («Voglio vincere la Bundesliga prima di compiere 80 anni») è stato se possibile peggiore delle premesse. A dire il vero l’area scelta – l’ex Ddr – era la più adatta per molte ragioni, Innanzitutto una atavica e insaziata fame di calcio. Dalla riunificazione solo 4 squadre dell’Est avevano militato in Bundesliga: Dynamo Dresda, Hansa Rostock, la fallita Lokomotive Lipsia e l’Energie Cottbus, ultima a retrocedere nel 2009. Logico dunque che l’arrivo di un magnate potesse trovare terreno più fertile che altrove. In secondo luogo per un motivo economico: Lipsia era una città da mezzo milione di abitanti con uno stadio nuovissimo (costruito per il Mondiale 2006) e inutilizzato, nonché un centro in fase di rilancio dopo gli anni di depauperamento post-riunificazione. Storica capitale della stampa con la sua fiera del libro, crogiuolo artistico e musicale (qui vissero Wagner, Bach e Mendelssohn), all’avanguardia nella ricerca scientifica sotto la Ddr, oggi è una sede universitaria vivacissima e dai prezzi contenuti. Il che ne fa una meta perfetta per un marchio giovane come Red Bull. Scelta la sede, occorreva trovare una squadra. Scartata la Dynamo Dresda per le frange violente del tifo, costretti a rinunciare al Sachsen Leipzig (l’ex Chemie), agli austriaci viene proposto dalla federazione il piccolo club del Ssv Markranstädt, un sobborgo di Lipsia. I tifosi devastano i cartelloni pubblicitari e bruciano l’erba del campo con il diserbante come gli Unni in calata su Roma, ma non serve a nulla: in un anno nasce la RB Leipzig, che per sdebitarsi del disturbo acquista quattro squadre giovanili dal Sachsen (salvandolo dalla bancarotta) e rifonda per i tifosi del Markranstädt il loro vecchio club.
I tifosi devastano i cartelloni pubblicitari e bruciano l’erba del campo con il diserbante come gli Unni in calata su Roma, ma non serve a nulla
Da qui inizia quella che secondo i commentatori sportivi è una cavalcata fatta di sotterfugi e furbizie. Innanzitutto il nome. Le regole della Bundesliga sono chiare: una azienda può figurare nel nome della squadra solo in casi di eccezionale longevità della partnership (a Leverkusen la Bayer era addirittura co-fondatrice del club). Impossibile dunque chiamare la squadra Red Bull Leipzig come format imporrebbe. Nessun problema, nasce il RasenBallsport Leipzig, squadra dello sport su prato, abbreviato in RB: le iniziali di Red Bull. La seconda regola aggirata è quella dello stemma. Impossibile mettere il logo della bibita sulla maglietta. Non c’è problema: basta aggiungere delle linee che rendano i tori più dinamici, togliere il cerchio giallo, lavorare di Photoshop ed ecco il logo del RB Leipzig: quello della Red Bull ma con ritocchi sufficienti a evitare contestazioni. La terza regola aggirata è quella della proprietà. In Germania il federalismo non è uno slogan da baraccone elettorale, ma una cosa seria, così anche nel calcio si cerca di dare una chance a tutti. Per evitare posizioni dominanti, le società devono essere possedute per il 50 per cento più uno da azionisti popolari. Red Bull, per rientrare formalmente nella legge, crea una società di garanzia limitata, le quote vengono divise tra i manager austriaci e la quota per gli azionisti popolari viene fissata a 800 euro (al Borussia Dortmund è di 45 euro). Morale: nessuna richiesta di azionariato e club in regola. Infine, anche il fair play finanziario è un concetto indefinito per il RB Leipzig, Lo è in virtù del fatto che dalle altre squadre della galassia calcistica in lattina arrivano ogni anno giocatori in prestito che non gravano sui bilanci. Dal Salisburgo sono arrivati Bernardo, Sabitzer, Keita, Ilsanker, il portiere Gulacsi e perfino il ds Ralf Rangnick, già tecnico dello Schalke 04.
Dominik Kaiser, capitano, a Lipsia dal 2012 (Robert Michael/Getty Images)
È soprattutto questo continuo prendersi beffe delle regole che ha reso il Lipsia la squadra più odiata di Germania. Non è solo l’essere una squadra di plastica senza tradizione come l’Hoffenheim, squadra di una cittadina di 3mila abitanti che vive sui milioni della Sap del magnate Dietmar Hopp, che vi giocò da ragazzo. Non è solo l’aver trasformato una squadra in sponsor di una bibita piuttosto del contrario. Non è nemmeno solo la sensazione di artificiosità delle squadre in serie, dove può capitare che un giocatore del Salisburgo giochi 90’ di preliminare di Champions League indossando la maglia del Lipsia senza che nessuno se ne accorga da tanto sono simili. No, è anche il fatto che l’aggiramento delle regole da parte del Lipsia sta facendo implodere il sistema. Dall’Hannover in giù, sono in molti a reclamare una revisione della legge del 50 per cento più uno, freno reale agli investimenti di potenziali sceicchi, oligarchi russi o cordate cinesi. Se è vero quel che dicono molti storici contemporanei, ovvero che il Muro di Berlino cadde a Lipsia un mese prima, quando 70mila persone scesero in piazza demolendo silenziosamente l’autorità della polizia della Ddr, forse anche le fondamenta dell’intera Bundesliga cadranno qui. Qui dove Goethe ambientò un episodio iniziale del suo Faust, che calza a pennello: Mefistofele – dopo aver rubato l’anima a Faust – ridacchia in una cantina: «Certa gente non si accorge del diavolo nemmeno quando li prende per la collottola». Figuriamoci quando investe milioni di euro in una squadra.
Resta il campo, però. E lo stadio pieno, anche se come in un Truman Show ovattato ed educato. E resta una città che si gode il primato in una parte di Germania che prova a rialzarsi. Come si fa a capire cosa vale di più? Nella Mannschaft campione del mondo 2014 solo Toni Kroos era dell’Est, paradossalmente erano di più quelli nati in Polonia (Klose e Podolski). Dopo il 1989 i talenti come Sammer e Kirsten finirono tutti all’Ovest e oggi a parte Schmelzer e Huth si vede poco all’orizzonte. Questo significa che una squadra di vertice è necessaria anche per rilanciare i vivai, sebbene in tutta la rosa del Leipzig l’unico tedesco dell’Est sia il portiere di riserva. Certo, per una squadra è dura diventare l’orgoglio di un popolo se ogni domenica hai un nuovo nemico. I tifosi del Borussia invece di andare in trasferta a Lipsia sono andati a tifare la squadra riserve impegnata in un campaccio fuori Dortmund, quelli della Dynamo Dresda hanno lanciato in campo una testa di toro mozzata; quelli del Sankt Pauli si sono rifiutati di inserire il logo Red Bull nel programma della partita, quelli del Colonia si sono seduti per strada per impedire l’ingresso del pullman del Lipsia allo stadio; quelli del Magonza cantano: «L’ottavo giorno Dio creò il Mainz. A voi vi hanno fatti in fabbrica», quelli dell’Union Berlin si vestono di nero per celebrare il funerale del calcio e si tassano per aiutare i tifosi dell’Austria Salisburgo, la squadra divorata dal colosso Red Bull che vuole rinascere con lo slogan «Tradition hat zu kunft», la tradizione è il futuro. La tradizione qui è Sparwasser in maglietta blu con il martello sul petto che segna l’1-0 della Ddr contro la Germania Ovest al Mondiale tedesco del ’74. Oppure il Magdeburgo vincitore della Coppa delle Coppe ’74, o ancora la Dynamo Dresda e l’Union Berlin, costrette a perdere per un decennio contro la Dynamo Berlino di Erich Mielke e della sua Stasi. Eroi calcistici che non volevano essere chiamati eroi, come i cittadini di Lipsia che scesero in piazza nell’89.