Stevie G

Un giocatore espressione di uno stadio, di un popolo, di un sentimento. Steven Gerrard raccontato attraverso i momenti più significativi nel Liverpool.

Stevie G ha sempre la stessa espressione. È a metà tra il concentrato e il corrucciato. Stevie G ha quella faccia fin da quando era bambino. È una cosa che gli viene naturale, un po’ come è stato infilarsi quella maglietta. Aveva nove anni quando l’ha indossata per la prima volta. Per lui, ragazzo di Whiston, Merseyside, dodici chilometri da Anfield, non c’era niente di più naturale. La maglia tutta rossa, quella che ha imparato ad amare fin da bambino, cresciuto in una famiglia che del Liverpool era devota. La storia dirà che con quella maglia addosso Steven Gerrard trascorrerà venticinque anni della sua vita, tra giovanili e prima squadra. Da professionista con i Reds ha collezionato 710 presenze (terzo nella storia del club dopo Ian Callaghan e Jamie Carragher), con 186 reti. Capitano a 23 anni, in ogni istante simbolo di un’identificazione totale e suprema con il proprio club. «Quando la mia vita starà per finire, non portatemi in ospedale. Portatemi ad Anfield: qui sono nato e qui voglio morire».

Dentro Anfield

È il 29 novembre del 1998, probabilmente chi è entrato dalle scale di Anfield non immagina nemmeno che in qualche modo una gara casalinga contro i Blackburn Rovers avrebbe segnato la storia recente del club. Al 90′ di una gara già decisa (i Reds vinceranno 2-0), il terzino norvegese Vegard Heggem lascia il campo per un «local product, eighteen years old» che ha già giocato per la Nazionale inglese under 18. Quel ragazzo dal volto schivo è Steven Gerrard. Dice di essersi sentito debolissimo, emozionato dalla presenza del papà sugli spalti. È spaventato, ansioso, ma consapevole che prima o poi sarebbe arrivato quel momento. A fine stagione le presenze saranno 13, ma è quello il momento che sancirà l’inizio di un legame duraturo come pochissimi altri.

Eroe del Merseyside

Per un giocatore così legato a doppio filo con la storia, la tradizione, l’essenza stessa del Liverpool, la partita contro l’Everton è una delle occasioni di maggior sublimazione del proprio senso di appartenenza. La prima volta che affronta l’Everton, il 3 aprile 1999, Steven Gerrard è ancora un baby, un diciottenne che con i grandi ha giocato meno di 200 minuti in Premier League. Quando Houllier decide di mandarlo in campo, a venti minuti dalla fine, il Liverpool sta vincendo per 2-1 con doppietta di Fowler. Diventa 3-1 con Berger, ma con il doppio vantaggio i Reds hanno il demerito di rilassarsi e incassano il gol del 3-2. È l’apice dell’emotività della partita, un derby pieno di colpi di scena che ora si consuma in un’overdose di agonismo. In quel momento, non tutti conoscono il carattere di Gerrard. Ma sarà questione di attimi, prima che Anfield ne impari i tratti caratteristici. Su un lancio lungo dell’Everton, la difesa del Liverpool la combina grossa, con il portiere James che sbaglia l’uscita e viene travolto da un compagno. Il pallone ballonzola in area di rigore, con Campbell che potrebbe calciarlo a porta libera: la sfera però rimbalza alta, e Campbell si trova leggermente avanti rispetto a essa, così perde l’attimo decisivo per colpire a rete. In quella minuscola esitazione interviene proprio Gerrard, che toglie il potenziale possesso all’avversario. Ma l’azione non è conclusa: sul pallone vagante arriva per primo Cadamarteri, che colpisce indisturbato. La conclusione, ben piazzata, arriva prima dell’intervento di Staunton: ma prima che il pallone varchi la linea di porta, è ancora Gerrard a salvare il risultato. Stevie riceve gli abbracci e i complimenti di McManaman, Staunton e Redknapp. È la prima investitura dei senatori del Liverpool. Ma l’investitura più grande arriva dal pubblico di Anfield che, quel giorno, torna a casa con un nome in testa, e che da lì non se ne andrà mai più.

 

The Greek Freak

Prima di Istanbul, c’è stata un’altra Istanbul nella stessa Champions. Quel Liverpool, che vincerà poi la Champions in finale contro il Milan, rischia di uscire già nella fase a gironi. Nell’ultima gara, in casa contro l’Olympiacos, i Reds devono per forza vincere: i greci hanno tre punti in più in classifica, e all’andata hanno vinto 1-0. Perciò, o si vince 1-0, o con due gol di scarto. Non impossibile, ma molto complicato quando, al 27′ del primo tempo, Rivaldo porta in vantaggio l’Olympiacos su calcio di punizione. Così il Liverpool, quando rientra in campo nella ripresa, ha l’obbligo di segnare tre gol. Come in un’altra partita di quella stessa competizione, qualche mese dopo. Stavolta non ci sono i sei minuti d’esaltazione, ma il groppo in gola di Anfield dura fino all’ultimo: dopo il gol in apertura di tempo di Sinama-Pongolle, il 2-1 arriva con Mellor a dieci minuti dalla fine. È l’86’ quando succede l’inevitabile, quando Gerrard esalta la concezione di Gerrard: orgoglio, stile, tenacia. Su una sponda di Mellor, il pallone gli arriva docilmente, in prossimità del limite dell’area di rigore. Il capitano dei Reds si coordina come se stesse eseguendo un esercizio fisico, anziché una semplice conclusione: tutto è esasperato in funzione della ricerca della massima potenza, eppure inglobata all’interno del senso per il controllo, per la padronanza. Ne viene fuori una conclusione perfetta: il pallone viene calciato forte, angolato, teso, e Nikopolidis non può mai arrivarci. L’urlo impossibile di Anfield, l’euforia di Gerrard, l’abbraccio con la Kop intera: Stevie ha appena regalato al Liverpool il momento più autenticamente Liverpool della sua storia.

 

La riscossa

Là dentro, nel cuore del tifo del Liverpool, lo hanno visto distintamente. Non il gol: non allora, non in quel momento di una partita compromessa, se non persa. Ma quello che è successo una manciata di secondi dopo: Gerrard che mulina le braccia per aria, una, due, cinque volte. «Mi sono rivolto ai tifosi, perché capissero che noi eravamo con loro, che non avevamo mollato. E loro hanno risposto ai miei gesti, e hanno alzato ancora di più il rumore del tifo». È il 54′ di Milan-Liverpool, con i rossoneri avanti 3-0. Riise prova il cross, e all’interno dell’area milanista un giocatore corre all’impazzata per sorprendere gli avversari, mentre tutto il resto sembra galleggiare in una bolla. Il primo traversone del norvegese viene murato, ma quel giocatore è ancora lì. «Ho controllato la mia corsa iniziale, poi sono corso di nuovo in area. Colpire di testa in mezzo a difensori come Stam e Nesta è stato speciale. Quel colpo di testa è stato istintivo. Ho segnato gol molto più belli, ma quello a Istanbul è stato il più importante nella mia carriera». Gerrard indirizza la palla con estrema precisione, tanto che Dida non accenna nemmeno alla parata, ma sorveglia con lo sguardo la traiettoria del pallone che termina in rete. È ancora 3-1, ma il fatto che sia stato proprio capitan Gerrard ad aver segnato quel gol, e il modo in cui carica se stesso, i compagni e tutti i tifosi del Liverpool, in qualche modo dà una spinta nuova, inusuale, ai Reds. «Quella rete ci ha dato un po’ di fiducia, ma non avrei pensato che avrebbe scatenato quell’incredibile rimonta».

 

Gerrard Cup

Nella stagione 2005/06 il Liverpool affronta il West Ham in finale, ha Pardew in panchina e pochi campioni in campo. I Reds, in rosa, hanno Agger, Hyypia, Riise, Robbie Fowler e Crouch tra gli altri. Gerrard parte dalla fascia destra, con Kewell sull’altra, a riprova di quanto totale sia stata la sua abnegazione alla causa. Gli Hammers passano in vantaggio con un’autorete di Carragher su cross da destra di Scaloni. Al 28′ Dean Ashton ha già fatto il secondo gol dopo una respinta maldestra di Pepe Reina. A ridosso del 31′ Gerrard entra dentro il campo, spostandosi in posizione centrale per gestire un pallone toccato da Finnan: quando alza la testa, vede un taglio in area di Cissé che un occhio normale non vedrebbe, e il francese colpisce il pallone scivolando e fa 2-1. È un lancio di 35 metri circa, fuori dal normale, è solo il primo step di una partita folgorante per Stevie G. Al 54′ raccoglie in area un pallone appena uscito da un groviglio di uomini sospeso in area, scarica di destro nell’angolo alto a sinistra, alle spalle di Hislop. Reo-Coker si dispera mentre il capitano urla in faccia ai propri tifosi, battendosi la mano sul petto. È il momento in cui tutti pensano all’ennesima rimonta in stile Liverpool, ma Paul Konchesky sbaglia un cross che diventa gol solo per puro caso. Quando di minuto ne manca uno soltanto alla fine della partita, c’è l’ennesimo pallone sporco lanciato verso l’area del West Ham da Riise. Gerrard, abbassatosi nuovamente nel ruolo di centrale, recupera un pallone respinto dalla difesa e impatta forte il pallone da una distanza da cui solitamente si prega e basta. Il destro del numero 8 è affilato, lama nel cuore degli Hammers. È il 3 -3 che arriva quando la speranza è quasi finita. I calci di rigore che seguono hanno il destino già scritto. Liverpool campione e Steven che segna, preciso, anche dal dischetto.


La caduta

27 aprile 2014, tre giornate alla fine della Premier League. Il Liverpool è primo, con cinque punti di vantaggio. I Reds stanno vivendo un momento eccezionale: hanno raccolto undici vittorie consecutive, comprese prestazioni in cui hanno surclassato gli avversari (3-0 al Manchester United e 5-1 all’Arsenal), e Gerrard sta giocando divinamente, e segna tantissimo — 13 gol in campionato, meglio solo nel 2008/09 quando ne fece 16. Quel giorno ad Anfield, contro il Chelsea, c’è il sole. Uno di quegli scenari perfetti, dove la quiete, forse, è troppo eccessiva. La gara scorre senza reti fin quasi all’intervallo. Poi, nell’ultima azione del primo tempo, Gerrard riceve palla da Sakho. Si prepara a controllare la palla con il destro, ma maldestramente gli sfugge via: il numero 8 cerca immediatamente di rientrarne in possesso ma scivola. È il segnale della tempesta: Demba Ba è in agguato, conquista palla e fugge via verso la porta di Mignolet per segnare l’1-0. Gerrard ha la fronte più corrugata del solito, si passa una mano sui capelli, lo sguardo smarrito, come se cercasse qualcuno che gli dicesse che no, non è successo nulla, quell’errore non pregiudica nulla. E invece non sarà così, perché il Liverpool perderà 2-0 e non riuscirà a vincere nemmeno nella giornata successiva, pareggiando 3-3 contro il Crystal Palace. Due frenate che spianeranno la strada al Manchester City, che a fine stagione si laurea campione d’Inghilterra con due punti di vantaggio sui Reds. Quel campionato, che Liverpool pregustava dopo un digiuno di 24 anni, Gerrard non lo vincerà, e non lo vincerà più. A distanza di un anno, Steven ha detto di quell’episodio: «Non passa giorno che non ci pensi. Se non fossi scivolato, le cose sarebbero andate in un modo diverso?». È la resa personale, il tormento di un’intera vita. il dramma individuale che diventa collettivo: se si volesse trovare un senso in quella scivolata, in quell’errore così grossolano, puerile, in definitiva non da leggenda del Liverpool, è giusto che sia stato così. Perché Steven è Liverpool, e se c’era qualcuno che doveva espiare la sofferenza calcistica di un intero popolo, allora non poteva che essere lui.

 

Giù il sipario

È una delle sue ultime partite con il Liverpool. L’ultima stagione ad Anfield è una stagione difficile: il peso della Premier League persa l’anno precedente si fa sentire da subito, con sei sconfitte nelle prime dodici giornate di campionato. In Champions le cose vanno ancora peggio: fuori al primo turno, dopo una sola vittoria, nonostante un girone non complicato (Basilea e Ludogorets, oltre al Real Madrid). Tutto quanto, a Liverpool, si carica di un’atmosfera da fine impero. Quando arriva il Manchester United, nel marzo 2015, Gerrard sa che si tratta dell’ultima volta che li affronterà. Gli odiati rivali, quelli che sin da quando era ragazzino aveva rifiutato. Parte dalla panchina, perché è reduce da un infortunio e non è in perfette condizioni fisiche. Con i Reds sotto di una rete all’intervallo, Rodgers decide di inserirlo subito a inizio ripresa, al posto di Lallana. Stevie G ha sempre quella faccia là. Sempre. Ma c’è qualcosa, nel profondo, che lo turba. Passano 30 secondi e interviene con rabbia, in maniera scomposta, su Mata. Ma Atkinson fa proseguire, perché giudica il tackle, seppur duro, sul pallone. Passano altri 8 secondi e stavolta Atkinson è costretto a fermare il gioco. Mentre Gerrard scarica il pallone, Herrera gli si fa incontro minaccioso, senza però affondare il colpo. Gerrard ha una reazione istintiva e con lo scarpino preme contro la caviglia del giocatore spagnolo. Espulso, dopo 38 secondi dall’ingresso in campo. A fine partita dirà: «Mi prendo tutta la responsabilità. La decisione era giusta. Ho deluso i miei compagni e i tifosi». È un momento difficile, ma anche quello più squisitamente umano di Gerrard. Il momento in cui fa i conti con i propri limiti: l’età, certo, quasi 35 anni, e i limiti che non gli hanno permesso, nonostante diciassette anni ad Anfield, di riportare la Premier a Liverpool. Gerrard si scopre debole, fragile, frustrato. Ma ancora più vicino alla sua gente. Che anche quella volta, come ha fatto per anni e anni, canta: «Steve Gerrard, Gerrard / He’ll pass the ball 40 yards / He’s big and he’s fuckin’ hard / Steve Gerrard, Gerrard».