L’inevitabile eroismo

Un tempo rudi e violenti, oggi i difensori sanno essere anche eleganti. Merito di pochi che hanno inserito eleganza e letteratura a fianco a tackle e spallate.

Difendere significava, fino a non troppo tempo fa, essere rudi e violenti, spezzare l’urlo del gol nella gola dei tifosi e degli attaccanti. Oggi è diverso: il merito è di qualche raro esempio passato, che ha saputo inserire eleganza e letteratura in quella figura mai troppo capita. La mia immagine del calcio è quella che hanno molti uomini della mia età. Non è un video, né una foto, ma un disegno, la riproduzione di un gesto tecnico. Il più spettacolare che possa compiere un calciatore. È da un gesto che si creano gli eroi, è da un gesto che si parte per raccontare una storia. È il 15 gennaio del 1950, la partita di campionato tra la Fiorentina e la Juventus, l’ottantesimo minuto, un lancio dal centrocampo sta per raggiungere il centravanti Egisto della Fiorentina. Tra lui e il portiere ci sono: il pallone, dieci metri di terreno e un difensore che però non può intervenire di testa. Il pallone è troppo alto e troppo potente. C’è solo un’opzione per fermare la palla che sta arrivando tra i piedi dell’attaccante ed è un gesto che nessun difensore ha mai fatto sino ad allora, o comunque, mai sino ad allora qualcuno era riuscito a documentarlo.

Il difensore della Juventus si alza in volo, non per colpire la palla di testa, ha il baricentro inclinato, la gamba destra sale su sino a diventare una spada rivolta al cielo, la sinistra è piegata, un perno attorno al quale ruota l’universo del calcio, chi lo guarda da dietro vede la luce sparire, è come se quel salto avesse offuscato il sole. Egisto, che pregustava il pallone, se lo vede sparire. La sfera è respinta da quella che è la più spettacolare sforbiciata della storia. Per tutti sarà la rovesciata. Anche se ha una rotazione minore, il pubblico avversario esplode in un’ovazione, misto di bellezza e incredulità. Il mondo ha conosciuto il gesto più bello di sempre, l’autore è Carlo Parola, un difensore.

Barcelona v Real X

Parola, classe ’21, fu un ciclista fallito, cominciò a giocare centravanti, ma poi l’allenatore, Borel, scoprì che aveva buone doti anche come mediano metodista, col tempo arretrò ancora e divenne il libero della Juventus tra gli anni Quaranta e i Cinquanta. La sua rovesciata fu un disegno e poi la copertina del più importante album di figurine del mondo. Facciamo un salto in avanti di 66 anni. Fine primo tempo di Italia-Belgio, giugno 2016. Assisto al match in un cinema tedesco dove trasmettono le partite dell’Europeo. Sono uno dei pochi italiani, la stragrande maggioranza sono belgi e ovviamente tedeschi che ci tifano contro. Zdf organizza uno studio nell’intervallo incentrato sull’analisi tecnica dell’ex calciatore più competente ed efficace dei media tedeschi: Mehmet Schöll.

La partita è stata dominata nel primo tempo dall’Italia e l’esordio di Schöll è: «Abbiamo visto la squadra più organizzata del torneo». Da qui un racconto con gli occhi luccicanti; mai visto Schöll nell’arco di tutto l’Europeo così entusiasta. Racconta che l’Italia è un team di giocatori non eccezionali, forse mediocri, con l’eccezione di due calciatori: Buffon e «questo signore qua». Primo piano della regia sul volto di Leonardo Bonucci, poi il replay di un’azione. È il lancio proverbialmente millimetrico di Bonucci sui piedi di Giaccherini per il gol del vantaggio. Schöll con la voce rotta da un entusiasmo che fatico a trovare anche nelle concitate spiegazioni di certi racconti sui nostri canali sportivi, si ardimenta nella spiegazione: esistono gesti nel calcio al limite della comprensione. Con un gesto sono stati fatti fuori dieci giocatori del Belgio. È matematica. «Pazzesco». Questo non è un difensore qualunque, è il difensore del futuro, questo è il calcio, dice più o meno Schöll.

IRELAND V ITALY

Se un bambino avesse ascoltato quelle parole oggi nella vita vorrebbe diventare più Bonucci che Pellè o Éder, i nostri attaccanti di quella serata. Eppure per anni il ruolo del difensore è stato dileggiato, l’anticamera degli scarsi, quelli che non sapevano calciare, quelli che nei pulcini venivano mandati a tirare calci allo pneumatico. Ero un bambino con qualche problema di sviluppo, più magro degli altri, più fragile anche emotivamente, ma ero il più disciplinato tatticamente. Rispettavo perfettamente le consegne che mi dava l’allenatore. Fino alle soglie della Beretti (la squadra giovanile dei campionati a ridosso della B), ero un terzino destro. E la consegna più importante che avevo era quella di seguire l’ala sinistra avversaria anche negli spogliatoi, ma soprattutto, ancor più della marcatura a uomo, c’erano le colonne d’Ercole da non superare mai: il centrocampo.

La prima volta che le varcai, in una partita ufficiale Esordienti il mister entrò in campo e mi urlò «Dove cazzo vai». Allora esisteva già l’idea che il terzino destro dovesse spingere, lo facevano bene Tassotti e Mussi, lanciati da Sacchi anche nel Mondiale ’94. Roberto Mussi, classe ’63, era un terzino destro dai capelli rossi e il viso da cherubino anche se aveva già 31 anni. Quando lo vidi sul vertice dell’area di rigore avversaria in un’indimenticabile Nigeria-Italia a Usa ’94, pensai a quel «Dove cazzo vai». Mentre la sfera gli rimpallava e i due giocatori nigeriani venivano saltati dal suo repentino movimento, il “Dove cazzo vai” divenne un incitamento, il pallone tra i piedi di Baggio e gol, grazie all’assist di quel terzino destro trasformatosi in ala.

Avevo appena visto con i miei occhi uno dei frutti della rivoluzione che in quegli anni però ebbe il suo più compiuto prototipo, il terzino destro della nazionale brasiliana e poi di Roma e Milan: “Pendolino” Cafu. Un giocatore pazzesco, che raggiungeva prestazioni atletiche da duecentista e un tocco di palla raffinata come i più grandi facitori di gioco della Seleção.  Sull’altra fascia correva Roberto Carlos, le sue punizioni ancora oggi sono considerate un paradigma della potenza e la precisione.

Tony Adams

Il ruolo di difensore venne definitivamente sdoganato proprio in questo segmento storico, la stessa Nike lanciò uno spot dove, nella partita da calciatori e diavoli, i calciatori trionfavano sul male grazie a un tackle di Paolo Maldini prima ancora dell’arrivederci sancito dal tiro finale di Cantona con il bavero alzato e l’espressione da galeotto. Prima di allora, prima di Maldini, Roberto Carlos, Cafu, Baresi, i difensori erano stati per gran parte della storia i bruti, coloro che con le buone o le cattive strozzavano la poesia del gol. Faceva eccezione forse la figura del libero (che nella parola stessa immettere un senso di creatività e frivolezza). Oggi non si parla più di libero, il ruolo più pittoresco delle antiche difese a uomo, il calciatore che doveva avere la visione del gioco, colui che andava a battere il rinvio di fondo e poi doveva occuparsi di riparare alle mancanze dello stopper, ma anche chi faceva ripartire l’azione e si opponeva come ultimo baluardo agli attaccanti avversari. Il più grande di tutti i tempi fu probabilmente un ex centrocampista dell’Atalanta che arrivò alla Juventus per 700 milioni di lire e tre calciatori. Si chiamava Gaetano Scirea e rimase in bianconero fino al 2 settembre 1989, quando da osservatore era andato in Polonia a studiare il Górnik Zabrze, una modesta squadra che la Juve avrebbe affrontato nel primo turno di Coppa Uefa. Scirea arrivò alla Juve con un ruolo non ben definito, l’allenatore della squadra bianconera lo vide nei primi allenamenti e capì che doveva portarlo dal centrocampo alla difesa. Quell’allenatore era Carlo Parola.

Scirea non fu mai espulso, neanche nelle 78 partite della Nazionale, un record clamoroso per un difensore, ancor più un libero, ultimo argine tra attaccante e portiere. Arrivava sempre prima di tutti e, soprattutto, aveva una caratteristica che tutti i liberi di quegli anni cercavano di imitargli. Si chiamava sganciamento. Ossia recupero palla, poi sponda con un compagno del reparto difensivo e inserimento tra le linee di attacco e centrocampo della squadra avversaria. Scirea lo realizzava con un’eleganza sconcertante, il petto all’infuori e la testa alta, qualche volta (di rado) capitava che la sponda non gli faceva tornare il pallone e lui correva all’indietro, recuperava, sferrava un tackle, ripartiva, lui ancora col petto all’infuori e la testa alta. Poi la partita continuava e tutti sapevano che dietro prima di Zoff c’era lui, un uomo che si faceva muro e si faceva vento, come certe figure nei miti classici, ninfe o semidei, ma col destino segnato da un lutto improvviso, celebrato dal rispetto, l’amore e la gloria, parole che non c’entrano col calcio, perché presuppongono un’umiliazione, una disfatta. E nessuno è più soggetto alla disfatta, dunque alla gloria e l’amore, di un difensore.

 

Articolo apparso sul numero 13 di Undici