10 X 2016

Abbiamo chiesto a dieci firme chi è il loro giocatore preferito del 2016.

Leonardo Bonucci

Un giorno di agosto del 2011, in compagnia di una amica giornalista, incontro a Torino per strada Pepe e Bonucci. Lei li conosce, scambiamo qualche battuta; a un tratto si accenna al loro possibile trasferimento in Russia, di cui in quei giorni, dopo quella stagione così deludente, si parla in modo concreto. Bonucci sorride, ammicca. Ci va, ho capito. Russia o non Russia, non avrà una lunga carriera alla Juve, questo centrale dai piedi buoni ma dalla concentrazione non sempre all’altezza. I suoi cinque anni successivi sono una delle più fulgide dimostrazioni esistenti di quanto, lavorando su se stessi, con voglia e applicazione, si possa fare di un punto debole, la distrazione, il proprio punto di forza, la concentrazione. Di quanto la società, l’allenatore e i compagni che si hanno intorno siano in grado di aiutare un giocatore a trasformarsi completamente. A passare da quasi scarto della Juve traballante di Del Neri a leader di quelle granitiche e vincenti di Conte e Allegri. Da una possibile svendita in Russia al rifiuto di andare dal migliore allenatore del pianeta, il quale è convinto che quel tipo così distratto che ho incontrato nel 2011 sia oggi unico al mondo, in quel ruolo e con quelle caratteristiche. Odiato dai rivali e amato dagli juventini (ma in fondo ammirato anche dagli altri), Bonucci è colui dal quale parte ogni azione della Juve, il regista aggiunto, l’uomo che toglie un possibile gol scudetto a Higuain – non abbiamo ancora capito come – e segna gol incredibili solo quando conta davvero: alla Roma, all’Inter, al Napoli, nel derby, a Siviglia. L’uomo che, alla notizia di un banale infortunio che lo terrà fuori per due mesi, ci fa sobbalzare: «No, tutti ma non lui». Da qualche giorno sappiamo che Bonucci, l’insostituibile, resterà alla Juve fino al 2021. E comincio seriamente a pensare che quel pomeriggio non fossi proprio in vena di vaticini. (Massimo Zampini)

Luis Suárez

Passata la melassa delle commedie natalizie, è il caso di ricordare che se il calcio fosse un film, sarebbe un western. E in ogni western che si rispetti c’è il Pistolero brutto e cattivo, odiato e temuto. Nel film del 2016 la parte non può che essere di Luis Suárez, l’antieroe per eccellenza, l’uomo d’area più letale dell’anno coi suoi 49 gol. Una mostruosità che ridimensiona perfino il record italiano di Higuain. Un bottino che gli è valso la Scarpa d’Oro ma non il miele della critica né il paragone coi giganti Messi e CR7. Perché il destino dei bounty killer è sempre lo stesso: vivere nell’ombra e uscire solo per colpire. Destro e sinistro equivalenti, potenti e precisi; un senso innato per il tiro di prima intenzione; coordinazione e stacco di testa, controllo e scatto esplosivo: l’uruguaiano alla vigilia dei 30 anni è diventato il centravanti perfetto, la controfigura di Lewandowski. Più feroce e spietato, altrettanto massiccio, ma eternamente dimenticato. Può segnare 319 gol in carriera e 7 triplette in un anno, ma Suárez sarà considerato sempre e solo un simulatore, un attaccabrighe e un miracolato dagli assist dei compagni. Son buoni tutti di fare gol giocando coi fenomeni. Forse, ma lui ne fa di più e li fa meravigliosi e pesanti. E lotta e litiga e morde, fa infuriare avversari e tifosi, è sempre al posto giusto ma con il karma sbagliato. Lo hanno disegnato così, mezzo pazzo, brutto e cattivo. Ma un Pistolero così a Sergio Leone sarebbe piaciuto da matti. (Marco Zucchetti)

Franco Brienza

L’ho fatto. Ho digitato “Franco Brienza” su Youtube. I risultati che mi sono apparsi, nell’ordine: Franco Brienza, the gladiator, best skills and goals in Serie A; Sfide – Messi vs Brienza; Ciccio Brienza – Welcome to Manchester United. Credo che l’unico punto di contatto tra il Bari e il Manchester United sia la bellissima divisa del centenario dei pugliesi, che poteva in qualche modo assomigliare a quella dei Red Devils – oltre a un paio di improbabili amichevoli giocate contro gli inglesi, allora con Best in squadra, all’inizio degli anni Settanta. Ma non è questo il punto. Il punto è che ho preferito cercare su Youtube lui, Franco Brienza, giocatore dell’attuale organico dell’Fc Bari 1908, piuttosto che controbilanciare mirabolanti trasferte in arrivo contro Pisa e Ascoli con chiavi di ricerca come “Bari Juventus” e “Bari stagione 1997 1998”. Il passato mitico fagocita un presente ordinario, lo anestetizza, gli dà una forma nuova. Almeno fino al sabato successivo.

«L’eccentrica Chiesa Russa, nel quartiere Carrassi, costruita a inizio Novecento con un fantastico tetto di tegole verdi e un campanile con cupola a bulbo. Sta in mezzo ai palazzi popolari, e sembra arrivare da un altro pianeta». Leggo queste parole di Gianrico Carofiglio e mi viene in mente Brienza. Sta in mezzo ai palazzi popolari, ma è di un altro pianeta. A 37 anni, è in una condizione fisica impressionante. È riduttivo dire che si muove in mezzo al campo: no, lui fluttua, sembra non toccare terra nel suo incedere, o almeno si limita a sfiorarla, come un ballerino sulle punte. Ha fatto vedere gol bellissimi e giocate bellissime. Ma è in tutto il resto, quello che non passa la selezione di sintesi e highlights, che sta la grandezza di Brienza. Il modo in cui taglia il campo e spezza a metà le linee avversarie. Il modo in cui svuota spazi vitali per i compagni. Il modo in cui sceglie sempre la soluzione più efficace, più giusta. Tutta la squadra incamera energia dalle sue giocate. E questo, francamente, su Youtube non l’ho trovato. (Francesco Paolo Giordano)

Gareth Bale

Egolandia è una terra con ambasciate ovunque, tranne che in Galles. Il segreto della bella storia dei Dragoni, arrivati fino alla semifinale di Euro 2016, lo si poteva intuire osservando il linguaggio del corpo di Gareth Bale. Mai un gesto di insofferenza, né un rimprovero al compagno per un passaggio errato o una giocata poco opportuna. Tutto l’opposto del repertorio da divo isterico e narcisista sciorinato – ad esempio – dal compagno di squadra nel Real Madrid Cristiano Ronaldo. La capacità di Bale di passare indistintamente dal lussuoso bianco della grandeur madridista al rosso sanguigno e popolare della sua terra d’origine, risultando in entrambi i casi il giocatore che entra nel maggior numero di gol delle rispettive squadre, è roba da fuoriclasse autentico. Sempre nel gruppo, mai sopra di esso, anche in una Nazionale dove vige la formula del 10+1, ovvero dieci gregari al servizio dell’unico campione. Solo in ambienti del genere possono generarsi e risultare credibili le storie più improbabili, come la coppia d’attacco che ha steso la Slovacchia all’esordio dell’Europeo: Bale-Robson Kanu, il giocatore da 100 milioni e il disoccupato. Una delle storie del 2016. Un anno chiuso da Bale da campione d’Europa (assist e rigore realizzato nella finale di Milano) e del mondo in carica. Perché i successi contano sempre, e di beautiful losers è pieno il mondo. Celebriamo per una volta un beautiful winner. (Alec Cordolcini)

Andrea Belotti

La cosa davvero impressionante, al limite del demenziale, del 2016 belottiano non sono tanto i numeri (28 gol tra Torino e Nazionale – 12 di destro, 9 di sinistro e 7 di testa- più 9 assist) ma la sensazione di trovarsi di fronte a un calciatore che migliora sensibilmente settimana dopo settimana, in un’ascesa costante e vertiginosa, un’acrobatica scalata sul Monte della Possibilità. Se nei primi 6 mesi al Torino si era messo in mostra come un centravanti forte fisicamente, intelligente tatticamente e molto propenso al sacrificio, in pochissimo tempo lo abbiamo visto imparare ad attaccare l’area con tempi sempre giusti, diventare implacabile sotto porta, imparare a funzionalizzare la propria generosità, perfino migliorare nella qualità delle giocate. Ad oggi, per intensità, senso del gol e capacità di partecipazione al gioco, Belotti va considerato come una delle migliori punte a livello europeo. Il Gallo è un uomo d’area bravo a giocare spalle alla porta, a fare gol sporchi e colpire di testa, ma al contempo un attaccante fortissimo nelle ripartenze, dotato di una progressione a tratti sconcertante e non lento nello stretto, che calcia benissimo con entrambi i piedi anche dalla distanza (in questa stagione, su 51 conclusioni totali, il 60% delle volte ha centrato la porta, una percentuale superiore a quella di Dzeko, Icardi e Higuaìn), ed è in grado di assecondare i movimenti dei compagni con passaggi spesso complessi. In più è infaticabile nell’infastidire il primo possesso avversario e nel guidare il pressing alto della squadra. Il suo 2016 è terminato con un paio di azioni di prepotenza uranica in cui ha dimostrato di poter portarsi a spasso da solo la difesa della Juventus. Insomma, più che assomigliare a stelle del passato (Vialli, Graziani, Shevchenko, Vieri), Belotti sembra essere uno di quei giocatori capaci di plasmare, se proseguirà con questi ritmi di crescita, un nuovo prototipo di attaccante. (Fabrizio Spinelli)

 

Luka Modrić

Al minuto 4.24 del video che raccoglie tutti i palloni giocati da Luka Modrić durante l’ultimo Clásico, ci sono due azioni consecutive senza stacchi di montaggio. Un racconto minimalista del senso di Luka Modrić per il Real Madrid, ma anche per il calcio in generale. C’è un cross di Sergi Roberto ribattuto da Modrić in fallo laterale. Dopo la rimessa con le mani Rakitić mette in mezzo; respinta di Sergio Ramos e palla che rimbalza in area di rigore. Modrić è in vantaggio su Sergi Roberto, entrambi sprintano per anticipare la giocata. Il croato arriva prima, e supera l’avversario con un dolcissimo pallonetto, una parabola con il fuoco perfettamente perpendicolare alla testa del terzino catalano. Il pallone rimbalza davanti a Isco, che controlla e fa ripartire il contropiede. In 20 secondi scarsi, c’è la gestione del tutto: posizionamento difensivo, lettura del gioco, tocco di palla, capacità di trovare il compagno. C’è Luka Modrić, centrocampista in senso assoluto e moderno. Centrocampista completo.

Qualche mese fa, Sid Lowe scrive su Espnfc: «Pochi calciatori sono determinanti come Modrić, che fa praticamente tutto e sempre nei momenti giusti. Sembra perennemente in controllo: è uno stato mentale e fisico». Difficile descrivere meglio un calciatore che, nella Liga 2015/2016, ha una pass accuracy vicinissima al 91% e una media di 2 key passes a partita. E che, accanto a questi numeri, mette insieme pure 4,4 eventi difensivi per match. Difficile descrivere meglio la dimensione di Modrić in relazione alla sua squadra, nel ruolo da protagonista assoluto che Zidane gli ha cucito addosso. Posizione, compiti e prestazioni del 31enne croato sono una rivoluzione che anticipa di venti metri la fantasia e la costruzione del gioco offensivo, arretra l’estetica senza rinunciare all’essenzialità del regista e alla necessità del pivote. E ti fa vincere la Champions League anche se Ronaldo è a mezzo servizio. Per tutti questi significati, il 2016 è l’anno di Modrić. È l’anno in cui ci siamo accorti che Modrić può aver riscritto la definizione del centrocampista. È l’anno in cui ci siamo accorti che Modrić può essere un’occasione offerta dalla storia per modificare il gioco, per sempre. Mikal Gilmore scrisse la stessa cosa di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, primo disco “psichedelico” dei Beatles. Lui, ovviamente, parlava di musica. Il 33 giri fu pubblicato nel 1967. Per la rivista Rolling Stone, oggi, è il miglior album della storia della musica. (Alfonso Fasano)

Dimitri Payet

È il 10 giugno del 2016 e allo Stade de France c’è la Romania di Stanciu e Stancu che sta rovinando il sogno di gloria del popolo francese. C’è un unico giocatore che sta effettivamente spostando gli equilibri emozionali del tifo francese: è Dimitri Payet, che di primo nome fa Florent, ma nessuno se ne ricorda. È lui che ha regalato l’assist a Giroud, è lui che rientra costantemente da destro verso l’interno del campo per creare i pericoli alla porta di Tatarusanu. All’89′ minuto lo stadio esplode insieme al sinistro di Dimitri, il grido Allez les bleus si fa intenso e riverbera nell’ovale d’acciaio e cemento. Quando esce dal campo sta piangendo, con lui anche alcuni dei tifosi che mi sono intorno.

Dimitri Payet è il mio personaggio dell’anno perché fino ai 29 anni è stato uno dei tanti, un nome nascosto dalla miriade di altri calciatori talentuosi che infestano le linee di trequarti di mezzo mondo. Payet ha compiuto 29 anni lo scorso 29 marzo, lo stesso giorno in cui, entrato al 62′ per sostituire Griezmann in una gara amichevole senza pretese, segna una punizione che detona alle spalle di Kricjuk – un povero portiere che almeno può vantarsi di essere nato in una città che porta il nome di Palmiro Togliatti. Il francese ha dimostrato in questo 2016 di poter spostare gli equilibri, di poter decidere da solo le gare che disputa: basta un assist, un passaggio, un tocco delicato con entrambi i piedi carico di innata magia. In carriera ha già avuto a che fare con quel totem della panchina che porta il nome del Loco Bielsa e questo potrebbe essere già abbastanza. Ora che gli anni stanno per diventare 30, sembra arrivato il momento per Florent Dimitri di intraprendere un viaggio più grande, espandere il proprio gioco in una zona di Londra diversa, forse: ci basta che continui a impattare il pallone con delicatezza e rabbia, facendo esplodere le lacrime che in fondo non sono altro che gioia in forma pura. (Oscar Cini)

N’Golo Kanté

N’Golo Kanté è il calciatore del 2016 non solo perché la sua ascesa è intrinseca a quella delle squadre in cui ha giocato – dal Leicester campione d’Inghilterra al Chelsea di Conte 1° in Premier, passando per l’Europeo sfuggito in finale, da titolare nemmeno tre mesi dopo la prima convocazione – ma anche perché è l’uomo che ha reso banale un’affermazione inattesa e repentina, trasformando la novità in certezza e lo stupore in normalità. Basterebbe questo per giustificare la mia scelta. Ma c’è di più. C’è l’essenza di Kanté, racchiusa in una corsa da soldato, in un tackle, in un passaggio semplice: una routine ripetuta infinite volte. N’Golo gioca per recuperare il pallone perché lo considera un dono da condividere con i compagni, il club, i tifosi: altruismo sincero perché spontaneo. Di più. Kanté non è solo un incontrista che infrange le azioni altrui, è anche colui che subito le riavvia alimentando il ciclo continuo del gioco, il tutto che scorre. Agisce durante la “transizione” – tra l’azione offensiva e quella difensiva, e viceversa -, una fase del gioco fugace ma decisiva perché lì si trasforma un’iniziativa subita in una effettuata, la sofferenza in potenziale gioia. Dopo aver recuperato il pallone e consegnato ai compagni Kanté esce di scena, in un atto di onestà verso le sue qualità: la presa di coscienza di un uomo che ha costruito un suo piccolo, personale mondo nell’infinito universo del football. Una minuscola scatola a cui il calcio è tornato a bussare quest’anno, come se lì ritrovasse le sue origini pure, il senso del gioco, dello spirito di squadra e del sacrificio, in un’emozione condivisa e silenziosa. In Kanté del 2016 abitano le migliori intenzioni di questo sport: il mio, il vostro, il nostro. (Claudio Savelli)

Antoine Griezmann

Il pomeriggio del 10 luglio ero al parco, nel diciassettesimo arrondissement di Parigi, ed era pieno di bambini con la maglia di Griezmann. Si percepiva solo ottimismo; ricordo di aver visto un uomo salutare gli amici dicendo «ci vediamo più tardi per festeggiare». Le copertine dei giornali sportivi a giugno erano tutte per Pogba, i primi entusiasmi per Payet, ma presto è diventato l’Europeo di Antoine Griezmann, che ha tolto Deschamps dall’imbarazzo contro l’Albania, guidato la rimonta contro l’Irlanda, piegato la Germania. L’attaccante cresciuto calcisticamente in Spagna, che beve mate e si sente a metà uruguaiano, è stato il simbolo di una Francia che, pur perdendo la finale, finalmente si è fatta voler bene dai propri tifosi.

Con la maglia dell’Atlético, Griezmann ha eliminato due tra le favorite alla vittoria della Champions League, inchiodando il Barcellona al Calderón e mantenendo la freddezza davanti a Neuer all’Allianz. È tornato sul dischetto nella sequenza finale a Milano, segnando il suo rigore, dopo averne sbagliato uno, pesantissimo, durante la partita. In meno di un mese, ha avuto al collo due volte la medaglia degli sconfitti. Bisogna ammetterlo, è stato l’anno di Griezmann: per i suoi gol, per la sua velocità, per aver dimostrato di essere molto più che un esterno. Per la sua freddezza in area di rigore, e per il suo lato umano che l’ha fatta venir meno nei momenti chiave. Miglior giocatore della Liga, Top 11 della Champions League, Top 11 Euro 2016, capocannoniere di Euro 2016, miglior giocatore di Euro 2016. Eppure, non è bastato. (Elena Chiara Mitrani)

Sergio Ramos

Sono convinto che un giorno si farà chiarezza sulla questione. Sergio Ramos è uno dei difensori più forti, e decisivi, di tutti i tempi. Gli fa difetto la simpatia, ma questa non è una scusante valida per non inserirlo nel novero dei dieci centrali che hanno cambiato il calcio. Ho visto assegnare un Pallone d’Oro a un difensore per molto meno. Don Fabio Capello, che di difensori se ne intende, avendo allenato gente come Baresi e Costacurta, ha definito “zona Ramos” quel lasso temporale tra il minuto 89 e il minuto 90, spesso con il Real sotto di un gol. Ricordare Lisbona è superfluo. Quello è un colpo di testa che sposta l’asse gravitazionale del calcio europeo. È lAncien Régime che si aggrappa sulle spalle di un adone che rende vana ogni velleità colchonera. Una bella storia, ma a Ramos le favole non interessano. È capitato ancora, qualche settimana fa, a Barcellona, in una partita che Suárez, Messi e Neymar avrebbero potuto chiudere prima del solito cabezón dell’andaluso più castigliano di Spagna.

Nella sua biografia, Corazón, carácter y pasión, Sergio pone l’accento su cuore, personalità e passione. E, credetemi, è fin troppo umile. Ramos partecipa alla manovra nello stesso modo in cui vi partecipa un attaccante, è sempre coinvolto nella manovra, vive ogni situazione della partita, ogni zona, in maniera mentalmente e fisicamente attiva. È uno dei difensori più forti del mondo, ma soprattutto, e non per grazia ricevuta, uno dei più vincenti dell’intera storia del calcio. Eppure c’è chi lo ricorda per aver fatto cadere la Coppa del Re da un bus scoperto, per aver tirato un rigore in curva in una semifinale di Champions o per qualche cartellino di troppo. E invece, nella stagione dei suoi 30 anni, ha dimostrato ancora una volta di essere un giocatore straordinario. (Cristiano Carriero)