Paura e delirio in Premier League

Quando c'è Diego Costa nei paraggi: con 14 gol in 18 partite, l'attaccante del Chelsea è il terrore delle difese inglesi.

Vorrei fare la conoscenza di Gareth McAuley, comprendere la paura di un omone di 191 centimetri in altezza, consolarlo, se serve. Ma, soprattutto, chiedergli: come descriverebbe quel prodigio che sta terrorizzando l’intera Premier League, che sta mettendo in soggezione ogni singolo difensore, l’animale selvaggio fuori dalla gabbia che sbrana greggi indifesi. Il modo in cui Diego Costa si avventa sull’avversario è quanto di più fascinosamente crudele esista nel calcio odierno, un climax di ferocia e battaglie vinte, estasi agonistica folle e violenta come in un’appendice di Revenant. Ma stavolta non si tratta di spacconate da bulletto attira guai, come quando, nel gennaio 2015, calpestò il malcapitato Emre Can, o quando, ancora prima, si prese gioco del difensore dell’Everton Coleman che aveva appena realizzato un’autorete. No, qui si tratta di malvagità purissima, più pericolosa e raggelante: quella di segnare 14 gol in 18 partite di Premier. Aggiungendoci i 5 assist, nessun giocatore tra i top 5 campionati d’Europa ha partecipato a più gol (19).

McAuley è una delle vittime più celebri della violenza famelica dello spagnolo. Succede in una delle partite più complicate – se non quella più complicata in assoluto – della striscia di 13 vittorie consecutive del Chelsea. I Blues giocano in casa contro il West Bromwich, e tutto sarebbe apparecchiato per il meglio se non fosse per un dettaglio di capitale importanza: il Wba si difende con un ordine e una compattezza robotici, e quando può sa anche ripartire. I minuti scorrono e il risultato resta fermo sullo 0-0, finché, a un quarto d’ora dalla fine, un pallone lanciato in avanti, in un modo più vicino alla casualità che ad altro, viene catturato da McAuley. È spostato sull’out destro, guardando dalla direzione d’attacco del Chelsea, e questo pallone è un po’ infingardo, perché rimbalza alto, e nel momento in cui il difensore del Wba lo ammansisce perde un po’ i riferimenti attorno a lui. Quando realizza quale sarebbe la soluzione migliore con cui giocarlo, un’ombra scura e minacciosa si allunga su di lui. McAuley è totalmente, e INCREDIBILMENTE, inerme quando Costa si avventa su di lui. Pallone rubato, corsa verso il centro dell’area di rigore e sinistro secco, teso e angolato, imparabile. Finisce 1-0 per il Chelsea.

 

È una scena che si ripete, ed è successo anche nell’ultima gara vinta dal Chelsea, contro lo Stoke City. Il pallone rimbalza alto nell’area di rigore dello Stoke, con Martins Indi che è in vantaggio di posizione rispetto a Diego Costa. Solo che, per uno straordinario e inspiegabile fenomeno, l’olandese non salta. È davvero terrorizzato dall’arrivo dell’attaccante del Chelsea, che sistema l’avversario in due mosse: prima gli si para con il corpo davanti, dandogli le spalle, facendogli leggere sulla maglietta il nome, come fosse una personalissima Z di Zorro ma esibita prima della stoccata decisiva; poi, dopo un duello corpo a corpo che dura pochi istanti, come se i due fossero su un ring e non su un campo di calcio, Martins Indi soccombe, sopraffatto da una forza che non riesce a contenere, e Diego Costa si prende la libertà di calciare e segnare con un gran sinistro di potenza inaudita.

 

La gara con lo Stoke, a suo modo, l’aveva aperta lui, perché da una sua tremenda azione era scaturito il corner che Cahill avrebbe trasformato in gol dell’1-0. In quest’azione si ammirano la qualità purissima dell’attaccante, che aggancia un pallone proveniente da oltre 60 metri con una facilità disarmante, il modo in cui il difensore viene saltato senza neanche rendersi conto di quello che il suo avversario abbia fatto, la furia di Diego Costa che su quel pallone, pur di non perderlo, si getta letteralmente a capofitto, cercando di controllarlo addirittura di testa da terra (DI TESTA!).

 

Dei 14 gol segnati finora da Diego Costa, solo cinque sono stati ininfluenti. Gli altri hanno sbloccato il risultato, pareggiato la situazione, o hanno deciso una vittoria. Come quello contro il West Bromwich, oppure quello, sei giorni dopo, contro il Crystal Palace. Altro 1-0, altra rete “inventata” dallo spagnolo. È vero che Azpilicueta disegna un cross invitante, ma arriva da metri indietro, senza peso. È Diego Costa a imprimere forza a quel pallone, a dargli un senso compiuto. Ma più che il momento in cui colpisce la sfera, sono gli istanti prima a impressionare. Guardate il movimento dei piedi: sembra un pugile su un ring. È rapido, smaliziato, sa qual è il posto giusto al momento giusto. È lui a indicare ad Azpilicueta dove recapitare il pallone: c’è un momento in cui scappa in avanti, poi per una frazione di secondo frena, fa una specie di movimento a incrociare, e poi salta. È ingabbiato tra due difensori, ma salta lo stesso. Salta solo lui.

 

Eppure, il racconto dell’attaccante più velenoso della Premier League avrebbe potuto prendere sviluppi diversi. In estate Diego Costa ha chiesto ripetutamente di essere ceduto all’Atlético Madrid, stanco del Chelsea e di una stagione negativa. A inizio stagione si era presentato sovrappeso e fuori forma, tanto da segnare appena quattro gol nelle prime venti partite tra campionato e coppe. I rumours londinesi suggerivano un malcelato fastidio dell’attaccante per la città, il meteo, la lingua, e un costante desiderio di tornare in Spagna. Nel frattempo il Chelsea andava a picco in classifica e il rapporto di Diego Costa con l’ambiente peggiorava: gli attriti con Mourinho, la lite con Oscar, sette giornate di squalifica accumulate (sei in Premier, una in Efl Cup). Troppo anche per il più paziente degli allenatori. Sei mesi dopo, in casa Chelsea non si fa altro che parlare di rinnovo del contratto dell’attaccante, per prolungare quello in scadenza 2019. Convincono i gol, le prestazioni, ma anche gli atteggiamenti.

Chelsea-Leicester, ottava giornata della Premier 2016/17. Mancano venti minuti alla fine della partita, il Chelsea sta vincendo 2-0. Costa si gira verso la panchina di Antonio Conte e chiede il cambio. La partita è ormai in ghiaccio e lui non vuole rischiare un’ammonizione: è in diffida, un giallo gli costerebbe la presenza nel turno successivo contro il Manchester United. Conte è impassibile: lo ignora. Costa si imbufalisce, sbraita, se la prende con il tecnico, sputa qualche insulto in spagnolo. Continua ad agitarsi, a un certo punto smette pure di guardare verso Conte: quello che segue è pura e semplice isteria, perdita del controllo. La peggiore situazione per un calciatore che deve evitare sanzioni. Invece, Costa chiude la partita immacolato, e così sarà anche nelle successive dieci gare. La sua striscia di partite senza cartellini più lunga dal 2010/11.

Qualcosa, da lì, è scattato in Costa. Se ne sono accorti anche i compagni di squadra: «Sta incanalando la rabbia nel modo giusto. È un giocatore più intelligente ora», dice Gary Cahill. Quello screzio durante la partita contro il Leicester è stato l’ultimo episodio di intemperanza di Diego Costa. Conte ha rischiato: sapeva che quel piccolo incidente avrebbe potuto provocare uno strappo nel rapporto con il suo giocatore. Ma ha avuto ragione: si è imposto e ha lanciato un messaggio importante, e cioè che il gruppo viene prima del singolo. Questa l’esegesi del tecnico dopo la partita: «Decido io. Sono io che ho la responsabilità in ogni situazione. Perciò è anche una mia decisione se sostituire o no un giocatore. Se posso, lascio Costa in campo fino alla fine della partita».

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Da allora, il rapporto tra i due è eccellente. Costa + Conte non è più solo un’addizione buona per i titoloni sui tabloid, che si nutrono della duplice furia incandescente di allenatore e giocatore. Sin dalla prima di campionato, vinta contro il West Ham all’ultimo istante proprio con un gol dello spagnolo: l’esultanza rabbiosa di Costa e la corsa sfrenata di Conte ad abbracciare il pubblico. È stato un segnale, ma è stato con il passare dei mesi che il feeling tra i due ha avuto l’accelerata giusta. Conte non teme di dispensare elogi per il suo numero 19: «Ha grande personalità e trasmette passione in campo, e noi abbiamo bisogno di passione in ogni momento di una gara». Né di accordargli permessi speciali: come il giorno libero in più concessogli a Natale o la birra post partita. Che non fosse l’ennesima trovata eccentrica di Costa, lo ha precisato proprio il tecnico italiano: «Entro un’ora dalla fine del match, è ottima per la reidratazione».

Il Diego Costa 2016/17 ne ha bisogno, perché corre di più: almeno mezzo chilometro in partita in più rispetto allo scorso anno, con la media di 63,8 sprint a partita contro i 58,8 di dodici mesi fa. Esempio: nel match vinto contro l’Everton, non è tanto la rete del 3-0 (una delle poche ininfluenti, come già visto) la nota di merito, quanto il confronto vinto a distanza con Lukaku: 77 sprint contro i 24 del belga, un lavoro ai fianchi della difesa avversaria che ha agevolato il compito dei compagni di squadra (il Chelsea ha vinto 5-0). Sono aumentate persino le azioni difensive, almeno 2 a gara quest’anno. Semplicemente muovendosi, in un modo intelligente, collaborativo, combattivo, Costa tiene in soggezione un’intera difesa. Come ha detto l’ex attaccante Ian Wright, «è un giocatore che si insinua nella testa dei difensori ancor prima di entrare in campo».

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Questo non succede solo contro difensori di West Bromwich e Stoke City, ma anche quando il livello degli avversari si innalza. Se la prima svolta del Chelsea di Conte è coincisa con il cambio di modulo, la seconda può essere individuata nel successo contro il Manchester City. Conte aveva perso i confronti diretti con Klopp e Wenger, e stava soccombendo anche contro Guardiola. Per un’ora all’Etihad Stadium i Blues sono stati in balia dei Citizens, confusi, impacciati, a rischio batosta. Poi, all’improvviso, la gara è cambiata perché è stato Diego Costa a cambiarla. Prima con il gol del pareggio, la cui dinamica stessa mostra quanto il Chelsea stesse soffrendo: il giro palla è pigro, rallentato, quasi per concedersi una sosta dagli attacchi del City. Fàbregas premia lo scatto di Diego Costa, ma il pallone è leggibile per la difesa, con Otamendi che sembra poterlo agevolmente allontanare. Ma la cosa più straordinaria è quando Costa mette a terra la sfera: il difensore argentino lo marca da vicino, eppure non riesce ad avvicinarsi neanche minimamente al pallone, come se un muro lo dividesse dallo spagnolo. L’attaccante del Chelsea, con grande freddezza, batte Bravo.

 

Dieci minuti dopo, il sorpasso è compiuto, con Costa stavolta nelle vesti di assistman. Il malcapitato è ancora Otamendi, e qui si capisce perfettamente quanto detto sopra: all’attaccante del Chelsea basta il movimento per mandare in tilt le difese avversarie. Diego Costa, infatti, elude l’argentino senza nemmeno toccare il pallone, ma semplicemente venendo incontro al suggerimento verticale di Hazard. Poi lascia scorrere la palla, come un matador che fa volteggiare una muleta nei confronti del toro. L’unico tocco è, di fatto, l’assist: un passaggio rasoterra preciso e dosato con la giusta forza per Willian, che scatta alle spalle della difesa del City e con due tocchi segna il gol del 2-1.

 
C’è, poi, un’ultima cosa, sommamente importante. Per la prima volta da quando è in Inghilterra, Diego Costa sembra felice. Non che le passate due stagioni al Chelsea, di cui la prima culminata con la vittoria della Premier, avessero rappresentato un fallimento. Ma lui faceva aleggiare intorno a sé sempre una distanza, un’incomunicabilità di fondo. Come se ci fosse sempre qualcosa fuori posto a dargli fastidio, o peggio, che fosse proprio lui a sentirsi fuori posto. Questa stagione ha riportato nell’universo Costa la parola linearità: un ordine che è di campo, dove la squadra finalmente gioca per lui e all’occorrenza – non è un male, a volte – dipende da lui, ma che è anche di vita. Tanto da riverberarsi sull’esterno, con i tifosi che in lui vedono l’erede ideale di Didier Drogba (anzi: Costa ha impiegato meno partite dell’ivoriano per raggiungere i 50 gol con il Chelsea, 97 a 112). È questo che ha restituito l’immagine di attaccante devastante che eravamo abituati a vedere nella sua esperienza madrilena, ed è questo che ha fatto del Chelsea qualcosa di più di una squadra solida: una squadra spietata.