“Mago Merlino” ha portato un club neopromosso ad essere due volte nominato migliore squadra del mondo Iffhs. “Re Mida” ha generato in 16 anni plusvalenze per centinaia di milioni di euro. “La Pietra Filosofale” ha ingaggiato circa duecento giocatori, giocato 16 finali e vinto 9 titoli di cui 6 europei (2 Coppa Uefa, una Supercoppa e tre Europa League di fila). Non ci sono tanti giocatori che possono portare soprannomi così impegnativi, ma esiste un solo dirigente sportivo che se li è meritati tutti: Ramón Rodriguez Verdejo, detto Monchi, di professione architetto del miracolo del Siviglia e oggi obiettivo di mercato dei club di mezza Europa (Roma in testa) nemmeno fosse il più promettente dei centravanti. Ma chi è davvero questo genio gestionale, talmente richiesto da avere una clausola rescissoria di 5,5 milioni di euro? Da dove spunta, come è diventato questo essere mitologico di cui in Italia si comincia a parlare solo ora che sembra a un passo da Trigoria?
Il viaggio di Monchi inizia in Andalusia 48 anni fa. Nasce e cresce tra i cantieri di San Fernando, sobborgo operaio di Cadice. «Come tutti sognavo di diventare calciatore, non dirigente», racconta. Così gioca a pallone per strada, coi ragazzi più grandi. Che infatti lo sbattono subito in porta. Tra i pali si ferma e comincia a giochicchiare nel San Fernando. Lo notano in tanti, lo chiama il Real Madrid, ma al terzo giorno di provino la pazienza è già esaurita: ci sono gli studi di legge (diventerà avvocato, ma senza esercitare), la sua squadra si gioca la promozione, la Casa Blanca non si decide e lui se ne torna al Sud. Dove lo notano gli osservatori del Siviglia. Paradossalmente per quello che diventerà uno stregone del calciomercato, quello sarà l’unico cambio di maglia della sua carriera.
Dall’88 al ’99 è il dodicesimo uomo al Ramón Sánchez-Pizjuán. Poche apparizioni da titolare, un infortunio nel giorno del debutto in Primera e molto tempo per introiettare le manie di controllo di allenatori come Carlos Bilardo e Luis Aragonés e per diventare il più sevillista dei non sivigliani. Sono anni mediocri per il club, che non vince nulla dalla Copa del Generalísimo del ’48. Eppure da Siviglia passano campioni come Davor Suker, Rinat Dassaev, Diego Pablo Simeone e perfino Diego Armando Maradona. Ecco, Monchi diventa famoso soprattutto per questo: da portiere di riserva, spesso si allena col Pibe (che gli regalerà pure un orologio Cartier, «così non devi più girare con quel Rolex falso comprato per due pesetas a Ibiza…»); su TV3, nel programma Al Ataque, Sergi Mas ne fa una parodia spietata, dipingendolo come giullare personale di Diego. Si trova ancora in rete e non è particolarmente benevola. Monchi ci resta male. La sua fame di successo affonda le radici in questa caricatura dal forte accento andaluso.
Una parodia di Monchi che non gli rende giustizia.
Dopo aver rischiato il crac nel ’95, nel ’97 il Siviglia scivola davvero in Segunda División e finisce contestato. Monchi si becca pure dei punti di sutura per una monetina in testa. Ma due stagioni dopo è protagonista della promozione. Missione compiuta, il rispetto del figlio Alejandro è riconquistato e nel ’99, a soli 31 anni e con una spalla dolorante, Monchi si toglie i guantoni. Gli infilano subito una cravatta, però: delegato di campo, accompagnatore, factotum. Ma non portafortuna, perché si torna subito in Segunda. E così inizia la sua seconda, carismatica vita.
«Non c’erano nemmeno i soldi per i palloni e il presidente (Roberto Alés Garcia, ndr) mi chiede di fare il direttore sportivo e per di più con stipendio dimezzato: poteva chiedermi di tagliare il prato o di dipingere gli spalti e sarebbe stato lo stesso, me ne intendevo di gestione come di giardinaggio e pittura», ricorda. Ma Monchi accetta e impara alla svelta. Vende i giocatori buoni come Marchena e ne prende una dozzina tra i poco conosciuti e i totalmente anonimi. Il primo acquisto è il portiere Notario del Grenada, dalla Segunda B, non esattamente un craque. La tifoseria è disperata, tutti temono un’ulteriore retrocessione. Invece «le disgrazie uniscono le buone famiglie» e nel 2001 si torna in Primera. Il primo passo di quella che diventerà la sua filosofia professionale: «Siamo il Siviglia, siamo in rovina e dobbiamo tornare ad essere grandi: l’unica speranza è vendere per continuare a crescere». Sedici anni dopo, il Siviglia non ha ancora smesso di farlo.
Da compagno di squadra a dirigente il passo non è breve, ma crea un legame forte con i calciatori. Monchi diventa il tredicesimo uomo dello spogliatoio e si occupa sia della cantera sia dello scouting. Non c’è bisogno di molte frasi per trarre un bilancio della sua gestione, bastano nomi e numeri. Per esempio dalle giovanili arrivano Jesús Navas (venduto per 20 milioni al Manchester City), Sergio Ramos (al Real Madrid a 19 anni per 27 milioni), José Antonio Reyes (all’Arsenal per 30 milioni), Alberto Moreno (al Liverpool per 18). Mentre dalle infinite vie del calciomercato internazionale arrivano semi-sconosciuti che diventano campioni. Impossibile fare un elenco esaustivo, si va da Negredo a Luís Fabiano, da Kanouté a Poulsen, da Fazio a Keita, da Kondogbia a Medel, Aleix Vidal, Gameiro, Júlio Baptista, N’Zonzi, Vitolo.
Ma qualche capolavoro merita di essere esaminato a parte. Dani Alves, per esempio, arrivato per 550mila euro da Bahia e rivenduto a 36 milioni al Barça come Ivan Rakitic (pescato allo Schalke per soli 2,5 milioni). Oppure Carlos Bacca, comprato dal Bruges a 7 milioni e rivenduto al Milan a 30. O ancora Krychowiak, preso a 5,5 milioni dallo Stade de Reims e ceduto in estate al Psg a quasi 34. Senza contare i colpi saltati all’ultimo come Van Persie, De Jong o Marcelo. Elenchi stucchevoli? Può darsi, ma spiegano bene la strategia di fondo: «Non cerchiamo stelle, non ce le possiamo permettere. Prendiamo giocatori da squadre e campionati di secondo piano che abbiano fame di crescere. In quest’ottica, non esistono cattivi acquisti ma solo cattivi rendimenti. Gli unici acquisti cattivi sono quelli fatti a casaccio, tirando una monetina», dice Monchi.
E le cessioni? Come non affezionarsi, come non cedere alle pressioni della tifoseria che non vuole separarsi dai propri eroi? Semplice, non dando modo ai tifosi di rimpiangerli. L’intera gestione di Monchi è stata caratterizzata da puntuali, inevitabili cessioni a caro prezzo dei pezzi più pregiati della rosa: «Il mio mestiere non è vendere cartellini e fare soldi, ma reinvestire ogni anno per ottenere risultati. Il mio mestiere è generare plusvalenze per permetterci di stare a livelli superiori alle nostre possibilità economiche». Una volta messa in chiaro la realpolitik, nessuno pretende dichiarazioni d’amore eterno, nessuno si illude e gli addii non sono più un trauma. Parte Sergio Ramos e arriva Dragutinovic, parte Banega e arriva Nasri, parte Bacca e arriva Gameiro, e così via, in un ordine naturale delle cose dove le porte girevoli dello spogliatoio sono un dato mai messo in discussione. Arrivano carneadi, diventano idoli, vincono qualcosa e poi se ne vanno lasciando il club un po’ più ricco e un po’ più titolato. Di fatto il Rinascimento del Siviglia ha avuto più di venti allenatori, infiniti protagonisti e neppure un insostituibile. Anzi, uno solo: Monchi, l’ex portiere di riserva.
Nello specifico, il «modello» di Monchi è stato studiato perfino nelle università. Alla base di tutto c’è uno stakanovismo molto poco iberico, una conoscenza perfetta del francese e buona di inglese e italiano, un master a Londra e giornate lavorative di 13 ore nell’”officina”, come chiama scherzosamente il suo ufficio. Due collaboratori fidati – Óscar Arias e Miguel Ángel Gómez – guidano un network di osservatori che si dividono le zone e i campionati di competenza. Ex calciatori, ex allenatori, psicologi e preparatori atletici visionano e scandagliano le leghe, accumulano dati tecnico-tattici, caratteriali e fisici e dividono i giocatori in 5 categorie: A da prendere subito, B molto interessanti, e così via fino alla categoria E per i calciatori che avrebbero fatto meglio a dedicarsi agli studi. Ogni mese la commissione si riunisce con i “best 11” di ogni campionato, ruolo per ruolo. A dicembre si costruiscono i profili dei giocatori di spicco in base alle esigenze e si crea una tabella dei sogni, un file con 250 potenziali obiettivi. In base alle richieste dell’allenatore (piede preferito, velocità, caratteristiche, ecc.) si trova una decina di nomi e poi iniziano le contrattazioni, «che non sono molto diverse da quando cerchi un’auto e alla fine capita che ti devi accontentare di una Seat Leon», ironizza Monchi.
Il mago di Siviglia.
Certo, ai tempi di Aragones e Bilardo i tecnici avevano molta più voce in capitolo, prendevano solo uomini che conoscevano e di cui si fidavano. Oggi, nell’era dei database in cui puoi trovare su Youtube tutta la carriera di un’ala slovacca, gli osservatori sono un’arma in più. Che però bisogna saper usare: «In Inghilterra hanno i software più costosi e precisi, strutture all’avanguardia, profiling infallibile. Però quando bisogna comprare un giocatore le società non seguono i consigli e acquistano spesso senza criterio» spiega Monchi. Colpa della ricchezza, che permette di investire su calciatori già affermati e che spinge a comprare figurine senza magari aver seguito la carriera e le statistiche dei giocatori.
Quello che però non bisogna fare è pensare di poter ridurre il lavoro di Monchi e del suo team alla sterile data analysis, perché «il dettaglio decisivo è sempre quello che non si vede». Altro che Moneyball e matematica, il mercato è un po’ incantesimo, un po’ magia, un po’ tocco di Re Mida. I numeri non spiegano tutto, altrimenti Arouna Koné avrebbe segnato più dei 2 gol in 41 presenze e il timido Rakitic sarebbe scappato a gambe levate dalla solare ed estroversa Siviglia, di certo non si sarebbe trovato moglie in Andalusia.
Eppure gli impressionanti successi e la vera idolatria di cui è oggetto a Siviglia sembrano aver divorato Monchi: «Il ds sta mangiando l’uomo», ha confidato il dirigente, ormai per tutti diventato il «Leon de San Fernando». D’altronde già nel 2006 aveva firmato per l’Almeria per stare più vicino alla moglie in cura per depressione. Questione di destino, però: nei supplementari della semifinale di Uefa contro lo Schalke 04 Antonio Puerta – il terzino che morirà di attacco cardiaco in campo pochi mesi dopo – di esterno sinistro catapultò il Siviglia alla finale di Eindhoven. Il 4-0 al Middlesbrough diede il via a uno straordinario ciclo, Monchi rimase e il resto è un detto ormai comune dalle parti del Nervión: «Las fiestas de siempre? Semana Santa, Feria y final del Sevilla».
Oggi però quella voglia di andarsene torna a far capolino. Contano – ma non bastano – le centinaia di messaggi e preghiere di rimanere dei tifosi ogni qualvolta gli scappa un post malinconico come la recente citazione di Mark Twain: «Tra vent’anni sarai più infastidito dalle cose che non hai fatto che da quelle che hai fatto. Perciò molla gli ormeggi, esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele. Esplora. Sogna. Scopri». Monchi ha voglia di cambiare, non respira più. Ci aveva provato in estate, quando i giornali lo davano vicino al Psg allenato dall’ex sevillista Unai Emery. Ci sta pensando tutt’ora, anche se il presidente José Castro Carmona continua a minacciare di fargli pagare la penale milionaria in caso di addio anticipato rispetto al contratto in scadenza nel 2020.
La finale di Coppa Uefa del 2006 contro il Middlesbrough
Non è questione di soldi, non lo è mai stata, altrimenti avrebbe detto sì a Barcellona e Real quando entrambe si erano presentate alla sua porta: «Spiegavo le ragioni del mio no e mi guardavano come un marziano», dice. Il fatto è che il suo modo di lavorare impone indipendenza assoluta e una certa forma mentis difficilmente compatibile con club dai bilanci sardanapaleschi e dalle dirigenze ingombranti, che spesso conducono campagne acquisti “elettorali” per imbonire la piazza. Il modello Siviglia, il “suo” modello, è diverso, fatto di scoperte e rischi più che di urla e polvere di stelle. Difficilmente sarà esportabile, ma in quest’ottica la Roma potrebbe essere una destinazione più affine a Monchi rispetto al Psg degli sceicchi.
Lui, culturista tardivo che ogni mattina alle 7 trova in palestra la sua via per scaricare lo stress e che vive attaccato al telefonino nonostante lo chiami ancora “el delantero” – l’attaccante – perché sempre “cerca la rete”, è oggi al bivio. Sentimentale e incline alle lacrime (ancora ricorda quando Bilardo gli fece mancare il raddoppio di stipendio per una sola presenza e lo abbracciò per chiedergli scusa, pagando poi il bonus di tasca sua), in grado di commuoversi quando ricorda Sergio Ramos ragazzino, deve decidere se rimanere nella sua casa, quella per cui ha vissuto tutta la vita e per cui ancora posta tweet come «non voglio una sfida più grande perché per me niente è più grande del Siviglia»; oppure mollare gli ormeggi per evitare di finire asfissiato dall’abbraccio di un ambiente unico ma che tarpa le ali e la curiosità e a cui forse ha già dato tutto.
Deciderà con saggezza, Monchi. Forse avrà sguinzagliato osservatori nel futuro per consigliargli la strada giusta. Oppure sceglierà ad occhi chiusi, come quando Puerta segnò contro lo Schalke e cambiò la vita di tutto un club. Seguirà un vecchio detto fatalista andaluso: “siempre que anochece, amanece y siempre que lluve, escampa”. Tutte le volte che fa notte, poi albeggia e tutte le volte che piove, cadono fulmini. Inutile fasciarsi la testa, ogni cosa che deciderà, Monchi farà bene. E quando sarà il tempo di andarsene, forse anche il suo addio non sarà più un trauma per il club. I tifosi gli dedicheranno dei cori, lo copriranno di affetto e di buena suerte e magari – questo sì – ritireranno la sua scrivania, il cassero da cui Monchi ha pilotato la caravella prodigiosa del Sevilla Fc.