L’utilizzo delle fasce in Serie A

E, più precisamente, degli esterni: come la loro posizione aggregativa diventa l'ago della bilancia in molte delle squadre del nostro campionato.

Gegenpressing e zona mista, recupero alto del pallone e post-modernità. Nella Serie A che guarda al futuro e riscopre le evoluzioni liquide del 4-3-3, l’ala non è più solo il ruolo dei creativi e della solitudine. Diventa una posizione associativa, aggregativa, cambia umore e quartiere, occupa spazi diversi con compiti via via più integrati nella visione di squadra. Nella molteplicità di interpretazioni, è questa la vera costante del campionato: solo Fiorentina, Napoli e Chievo sviluppano più del 30% degli attacchi attraverso il corridoio centrale.

Utilizzo fasce Serie A
Fonte Whoscored

All’estremo opposto, è Gasperini il più radicale nell’occupazione delle fasce. Kurtic e Gómez danno forma a un 3-4-2-1 mobile, diventato anche un 4-3-3 o un 3-4-1-2 nel capolavoro tattico contro il Napoli di Sarri, che però non perde mai i capisaldi della sua identità. Già dall’uscita bassa del pallone, è subito chiaro come i difensori cerchino l’appoggio laterale. La varietà delle configurazioni serve proprio a mantenere un uomo in più nella prima fase di costruzione del gioco e a consentire la creazione di combinazioni a tre o a quattro che moltiplicano le linee di passaggio sulle corsie. È la continua ricerca della superiorità numerica sulle fasce attraverso lo svuotamento del centro del campo la chiave del successo di una squadra che risulta quarta per cross tentati (24, di cui soli 6 a buon fine, di media a partita) e massimizza il lavoro nei corridoi interni di Gómez. Il Papu arretra, si accentra, offre una sponda sicura e apre spazi per l’inserimento da dietro. È un ingranaggio sottile che però consente di occupare il campo senza mai perdere equilibrio nelle due fasi. La conseguenza è evidente: l’ultimo rapporto del Cies di fine dicembre rivela che solo Juve e Roma hanno concesso meno tiri dall’interno dell’area dell’Atalanta.

La vittoria dell’Atalanta contro il Napoli

Simile nel risultato, differente nell’applicazione la ricerca delle corsie del Torino di Mihajlovic, altra squadra insieme ai bergamaschi ad attaccare dal centro solo nel 24% dei casi. Spicca, però, il 43% delle azioni offensive che partono dall’out di destra: nessuna squadra insiste con tale frequenza in un solo versante. È il risultato della peculiare occupazione degli spazi dei granata, quindicesima squadra per numero di passaggi medi a partita (425,3).  «Non mi piace quando si parla del Torino come una squadra che lotta e basta», ha detto Mihajlovic, «il Toro è una squadra che lotta, gioca e crea, sposa bene l’atteggiamento e la qualità». Merito di Ljajic e Iago Falque, che in diversi casi si trovano a combinare sullo stesso lato. I movimenti del serbo, che tende più naturalmente a occupare il centro del campo quando non ha particolari compiti di copertura, ne fanno una sorta di ibrido fra un’ala e un trequartista. Così Mihajlovic, che li fa giocare sul lato debole proprio perché cerchino la conclusione (2,9 a partita per il serbo), moltiplica le possibilità offensive con i tagli fuori da pivot di Belotti (1,9 passaggi chiave di media), determinante non solo con i 14 gol e i 3,3 tiri a partita (record di squadra). Nel 2-2 contro il Milan è lui che va a chiudere sui difensori e impedisce a Locatelli una facile ricezione del pallone.

Il pareggio tra Torino e Milan

Una partita, questa, che Montella ha ripreso grazie al jolly Suso, che ha sfruttato il punto debole nella struttura granata. Lo spagnolo, valorizzato da Gasperini l’anno scorso al Genoa, è un’ibridazione ancora più estrema tra un’ala nel senso classico del ruolo e un trequartista. All’Almeria, lo spagnolo tirava sì quasi 2 volte a partita, ma contribuiva di più alla fase difensiva, era poco coinvolto nel gioco (15 passaggi di media) e non così determinante in fase offensiva (solo 3 gol segnati e meno di un’occasione creata a partita). Gasperini lo fa evolvere in un giocatore più puramente d’attacco. A parità di conclusioni, crea il doppio delle chances da rete, verticalizza e segna con costanza e riduce la quota di contrasti vinti e di palloni intercettati. È pronto per l’ultima evoluzione. Con Montella può essere libero di agire, conclude 2,8 volte a partita (1,9 al Genoa) e supera i 30 passaggi di media a partita, con una spiccata vocazione alla verticalizzazione. Proprio la sua centralità nello sviluppo della manovra sull’asse con Abate, la ricerca dell’ampiezza sulla destra, ha creato le condizioni per la vittoria di ottobre sulla Juventus.

Suso in azione

Altrettanto interessante, soprattutto in quest’ultimo mese per l’assenza di Salah, è la via evolutiva della Roma di Spalletti. Dove prima brillava Bruno Conti, ultima vera incarnazione italiana dell’ala destra poetica, ora agisce Perotti, l’epigono della visione spallettiana 2.0. Una squadra che non ricerca più, come nelle prime giornate, la verticalizzazione estrema attraverso le sponde di Dzeko, ma avvia l’azione concentrando densità nella zona centrale, con i cervelli De Rossi e Strootman unici a superare i 50 passaggi di media a partita, per poi ribaltare il gioco sull’esterno. Un gioco che richiede intelligenza tattica, capacità di vedere gli spazi dove ancora non ci sono e senso della posizione per non sbilanciare l’assetto complessivo in fase di copertura. Perotti, che partecipa al gioco con oltre 36 tocchi di media, ha creato 30 occasioni, più di due a partita, e concluso 27 volte in stagione (2,08 ogni 90′), 21 dall’interno dell’area. I 15 palloni intercettati, poi, rappresentano un plus non da poco in una squadra che non difende troppo aggressivamente, ma è comunque la terza in Serie A per palloni intercettati.

Alcune delle azioni stagionali di Perotti

L’ala, ormai, non è più quel ruolo antico figlio del sistema, del WM di Chapman, il ruolo di Garrincha e del 4-2-4 che gli ungheresi hanno insegnato al Brasile. In Italia, gli eredi del catenaccio prima e della zona scientifica di Sacchi poi hanno sacrificato le ali, trasformate via via in esterni alti o a tutto campo, secondo un’articolazione di disciplina tattica lontana dagli slanci creativi di un Jair o di un Meroni. Con Zeman, nell’ultima versione di successo del profeta del 4-3-3, si è plasmato forse l’ultimo talento che ancora ricorda quel modo antico di essere ala, Lorenzo Insigne. Non è un caso se il Napoli manovriero da 629 passaggi di media, che sfrutta il centro più di tutte in Serie A, porta il 39% delle azioni d’attacco da sinistra. Insigne rappresenta l’icona dell’ala moderna. Più attaccante che centrocampista, corre forse meno dei grandi interpreti del passato, è tutto scatti e allunghi e si trasforma in una sorta di trequartista aggiunto. È un giocatore che associa, che aggrega i compagni e ne determina i movimenti. Ha imparato a partire più dietro, è il secondo in A dopo Ilicic per tiri da fuori, e a muoversi diversamente da quando non c’è Higuaín ad aprirgli gli spazi davanti. Ha trovato una sintesi affascinante fra il romanticismo del calcio che fu e la massimizzazione dell’utile nell’applicazione di movimenti semplici in cui il noi di squadra travalica l’io della soddisfazione personale. È forse questa l’unicità che tiene insieme lo sviluppo di un modo di essere, che diventa modo di giocare, nella molteplicità delle interpretazioni possibili.