Nel 1977, mentre gioca nei Cosmos di New York e gli statunitensi cercano di appassionarsi a quello sport che chiamano soccer, Edson Arantés do Nascimento Pelé, ormai a fine carriera, si lascia andare a una profezia: «Entro il 2000 una Nazionale africana vincerà il Mondiale». Lo scenario internazionale sembra favorevole alla profezia: la decolonizzazione è arrivata fin nell’Africa sub-sahariana e ha donato i suoi ultimi fiori, germogliati all’indomani della Rivoluzione dei garofani in Portogallo. Angola e Mozambico sono indipendenti proprio dal 1975, e quando Pelé parla la strada pare essere in discesa.
Politicamente e calcisticamente la storia ci ha raccontato altro: mentre l’economia è diventata una nuova forma di controllo occidentale e orientale, il calcio non è del tutto riuscito ad affrancarsi dai residui di un colonialismo sportivo. Le sole nazionali della Nigeria e del Camerun, prima del fatidico 2000, si sono aggiudicate due Olimpiadi e qualche Mondiale Under 17, ma mai sono arrivate neanche tra le prime quattro della massima competizione internazionale. Mai come oggi il traguardo posto da Pelé sembra lontano: l’Africa ha abbandonato quella che sembrava la sua natura di fine anni Novanta, omologandosi al resto del mondo. Questa Coppa d’Africa del 2017 ne ha dato un’ulteriore prova. Perché?
Influenza europea
Le vittorie olimpiche della Nigeria e del Camerun, nel 1996 e nel 2000, sono caratterizzate da due aspetti dominanti: lo spettacolo e l’imprevedibilità. Nonostante due generazioni di forza assoluta, la loro qualità principale risiede nel proporre un calcio con poca attesa tattica ed estremamente aggressivo nell’arco dei 90 minuti. La semifinale e la finale della Nigeria del ’96 sono un esempio perfetto: in panchina c’è Jo Bonfrère, un allenatore che nel passato ha collezionato esperienze sulla panchina dello Mvv di Maastrichr, del Kfc Verbroedering Geel e della Nazionale femminile nigeriana. In campo c’è il meglio del calcio africano: Kanu, West, Babayaro, Babangida, Okocha, Ikpeba, Okechukwu, Oliseh. Le aquile vincono in semifinale per 4-3 contro il Brasile di Ronaldo, rimontando dal 1-3 al 78° minuto; vincono poi la finale, ancora in rimonta con il risultato di 3-2 con un goal al novantesimo, contro l’Argentina stavolta di Zanetti, Almeyda e Crespo. L’idea di Bonfrère è quella di non stravolgere le principali caratteristiche della squadra, canalizzandone la potenza in funzione del risultato. Quello che è mancato in questa Coppa d’Africa.
Il cammino della Nigeria verso l’oro nel 1996
Si è affermato, da qualche tempo e da qualche parte, il concetto che il calcio africano debba aprirsi al mondo europeo per competere ad alti livelli e vincere. Questo ha presupposto una graduale perdita di identità che sembra aver toccato il culmine proprio in questa edizione di Coppa d’Africa. Dodici allenatori su sedici non sono africani: lo zoccolo duro è costituito dai francesi, da sempre quelli più calati nella realtà africana espressa in campo (vedi Claude Le Roy o il suo successore Hervé Renard). La media goal per partita di 1,62, quindi 52 reti in 32 incontri, raccontano di una povertà di spettacolo concentrata in pochissime squadre. Analizziamo due fallimenti, uno per gioco espresso, l’altro invece che coniuga al poco gioco esso la mancanza di un risultato vagamente accettabile.
Ghana
Il Ghana, pur arrivando quarto, ha deluso e soprattutto annoiato. Stupiscono in particolare le 4 reti in 6 partite, pensando alla potenza offensiva di una squadra capace di schierare i fratelli Ayew, Asamoah Gyan e Atsu su tutti. Non ha saputo rispettare neppure l’adagio, ormai affermatosi a legge in Africa, del “vince chi subisce meno”.
La sconfitta contro il Camerun in semifinale è l’espressione di questo fallimento; Hugo Broos, allenatore camerunese, ha compreso la semplicità del gioco di Avram Grant e ha posto delle facili contromisure: «Il Ghana si basa sui passaggi verticali, di solito dai due centrocampisti o dai due difensori centrali», ma i Lions Indomptables non glielo hanno permesso con facilità ed ecco risolta la partita. Il lavoro di Zoua, Moukandjo, Bassogog e Tambe sui portatori palla arretrati e sui mediani Acquah e Wakaso non ha concesso lo spazio necessario ai ghanesi per servire le tre punte con passaggi sulla figura e non nello spazio. Ne sono venuti fuori più calci lunghi, più fuorigioco e lo stesso numero di azioni pericolose del Camerun, nonostante questi ultimi abbiano tenuto di gran lunga meno il pallone.
Highlights
Algeria
Leekens, belga, ha ripercorso involontariamente la strada di Wilmots a Euro 2016. La migliore squadra per singoli si è dimostrata una delle peggiori per gioco espresso. Ha agito da conservatore, non è riuscito a tenere insieme un gruppo infatti parso sfilacciato fin dalla prima partita, si è affidato totalmente alle giocate di un singolo,:Ryad Mahrez. Ha ricalcato uno stile tutto europeo che, come lui stesso ha ammesso, era basato su un difficile equilibrio dato dal segnare almeno un goal e non subire mai. Con la qualità offensiva a disposizione la sua è sembrata una mossa remissiva, pagata già nella prima partita, contro uno Zimbabwe a dir poco in difficoltà; il fallimento per materializzarsi aveva bisogno di pochi fattori: bastava che qualcuno dei top player algerini non fosse per tutti i 270 minuti al 100% e la squadra avrebbe salutato con anticipo la competizione. Così è stato: Mahrez e Slimani, nonostante i 4 goal segnati, non hanno spostato l’ago della bilancia dei match o, se lo hanno fatto, non sono stati supportati; in difesa lo stesso Goulham, sulla carta il più esperto, è incappato in errori tragicomici.
La partita contro la Tunisia ha mostrato due squadre a due velocità: Henryk Kasperczak, con un materiale umano molto inferiore al collega belga, ha puntato su un gioco molto verticale e di movimento. Al contrario l’Algeria ha ceduto il possesso del pallone, come anche la possibilità di rendersi realmente pericolosi. Questa spedizione ha mostrato il parziale fallimento del calcio europeo applicato al sistema africano, nel momento in cui questo va a sostituirsi completamente all’esperienza continentale. Perché sacrificare le proprie qualità sull’altare di un calcio identico in ogni luogo?
In medio stat virtus
Il caso del Camerun è l’esempio che il calcio europeo e quello africano, se shakerati bene in un giusto mix, possono dare risultati. I camerunesi sono alti nelle classifiche di diverse statistiche molto differenti tra di loro: al primo posto per reti segnate (11), secondi per tiri (75 di cui 25 in porta), primi per falli (138, oltre 30 più del Marocco, secondo con due partite in meno) e per cartellini gialli (addirittura 12). Una complementarietà tra un calcio estremamente fisico e uno spettacolare: il Camerun è stato contemporaneamente la velocità verticale di Bassogog, di gran lunga il miglior giocatore della competizione, e la fisicità rude di Ngadeu. C’è poi il bonus di una qualità generalizzata e alternata di giocatori pronti ad accendersi in ogni momento, come Aboubakar, senza la quale staremmo probabilmente lodando la solidità dell’Egitto di Cúper. Invece, la follia che portò il Camerun a conquistarsi la finale al novantesimo contro il Cile alle Olimpiadi del 2000 si è ripetuta con un’altra rimonta; gli egiziani avevano interpretato la finale come si confà a queste occasioni, con un calcio lento, pochi rischi e qualche puntata offensiva. L’aggressività camerunese, mossa dal goal di Elneny, ha scompaginato il secondo tempo con un campo che si è allungato a dismisura e una distanza chilometrica tra difesa e mediana egiziani che ha favorito il gioco dei tre trequartisti del Camerun. La vittoria della Nazionale di Broos, tuttavia, non segna del tutto un punto a favore del calcio africano, e ci sono più motivi a confermare questa tesi.
Il Camerun non solo non era la squadra più forte delle 16, ma non era neanche la selezione reale dei migliori calciatori camerunesi. Gli otto rifiuti al momento delle convocazioni, se da una parte hanno aiutato Broos a compattare il gruppo, dall’altra danno il polso di una deriva europea dei calciatori africani: in molti hanno preferito mantenere il posto nei club anziché disputare una competizione continentale con la maglia della propria Nazionale. Riusciamo a immaginare Coman o De Bruyne dire no a Deschamps e Wilmots all’Europeo del 2016 per non rischiare di scalare in negativo nelle gerarchie del Bayern e del City? No, e il fatto che calciatori affermati come Matip o Choupo-Moting abbiano chiesto o costretto Broos a non convocarli, rischia di allontanare il Camerun, come in generale il calcio africano, di molti anni da una vittoria fuori dai confini continentali. A oggi ne consegue che pensare a una Nazionale africana sul tetto del mondo risulti più difficile di quanto non fosse nel ’77, ai tempi di Pelé, o alla fine degli anni ’90.
Speranze
Come al solito, naturalmente, non tutto è da buttare. Oltre alle mille storie che il calcio africano sa raccontare, qualcosa di buono dal punto di vista tattico e di impostazione di gioco si è visto. Un recupero del passato che può dare speranze future all’intero movimento.
Burkina Faso
Ennesimo buon risultato per i burkinabé, con un allenatore, Paulo Duarte, completamente calato nel mondo africano. Il portoghese ha saputo sfruttare al massimo un concetto comune nel calcio, che sia Africa o Oceania, ovvero il collettivo: bisogna unire il gruppo, dare a esso la consapevolezza dei suoi limiti e le armi per poterli superare. Il Burkina Faso ha fatto proprio questo: ha corso più di tutti e ha calciato nello specchio della porta più degli altri (30 volte, più anche del Camerun); un calcio propositivo, come dimostrano i molti offside per partita, e aggressivo, necessario a sopperire alla mancanza di concretezza o esperienza a grandi livelli da parte dei singoli. Portare tanti uomini nell’area avversaria per confrontarsi con squadre chiuse negli ultimi 20 metri.
I goal sono arrivati, ma ne servivano ancora di più per compiere il definito salto di qualità; di fatto il limite dei burkinabé è stato solamente il rigore fallito da Bertrand Traoré.
Repubblica Democratica del Congo
Qui non c’è solo un gruppo unito e sfacciato, ma una progettualità che riesce nell’obiettivo di rendere efficace il sistema di gioco messo in campo. Nelle convocazioni Florent Ibengé, congolese di Kinshasa, ha pescato nel campionato nazionale tra Mazembre e Vita Club ragazzi giovani e meno giovani, aggiungendoli a un gruppo selezionato dopo un minuzioso lavoro di scouting. I Leopardi hanno sofferto negli ultimi anni la diaspora di molti talenti che di fronte alla scelta tra Belgio e Congo, hanno optato per i primi: «È logico», ha detto Ibengé in un’intervista, «che se un giocatore belga-congolese viene chiamato dal Belgio, lui scelga loro. Ma c’è un’intera generazione di giocatori che non avranno quella chance. Perché noi non possiamo scegliere loro?».
Ha provato addirittura a scippare qualche talento tenuto da parte ai tempi di Wilmots, come Tielemans, fallendo. Con questa semplice idea Ibengé ha creato un gruppo che, probabilmente, potremo rivedere anche al Mondiale del 2018, senza replicare la figura della sua antenata nel 1974. Molti dei calciatori convocati per questa Coppa d’Africa hanno giocato nelle Nazionali giovanili di Francia (Youssouf Mulumbu, Neeskens Kebano, Remi Mulumba e Fabrice Nsakala), Olanda (Jordon Botaka) e Inghilterra (Benik Afobe, non convocato stavolta ma tornerà utile), ma poi sono stati messi da parte. Il Congo ha rappresentato la loro opportunità.
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