Venezia riaffiora

Dopo tre fallimenti, il calcio a Venezia è rinato con l'arrivo di Joe Tacopina, che, a distanza di 15 anni, vuole riportare la squadra in Serie A.

Tra Venezia e il suo stadio c’è di mezzo la città, nella sua irregolare, labirintica bellezza. Per arrivare al Penzo, il secondo stadio più vecchio d’Italia dopo Marassi, il vaporetto attraversa suoni e colori della Laguna, costeggia l’isola della Giudecca e svela in lontananza il campanile di San Marco. Il bateo, come lo chiamano qui, è l’unico mezzo per arrivare allo stadio: riserva un senso di scoperta singolare, in un modo che non potrebbe definirsi che “veneziano”, caratteristico di una città abituata a vivere secondo regole altrove irrealizzabili. Tutto si mescola a Venezia, terra e mare, poesia e malinconia, e il calcio è parte di questa fusione. Roberto Ferrucci, scrittore veneziano, una volta ha detto: «È successo che è salito sul vaporetto dove mi trovavo anche Nicola Marangon, il numero 14 della squadra. È salito con la sua borsa, come fanno i ragazzini, ed è andato a casa. Semplicemente. In nessun’altra città, ho pensato, può accadere una cosa del genere».

Quando arrivo al Penzo, è ancora presto. Manca circa un’ora prima che la partita del Venezia cominci. C’è un’aria di quiete come quando i pescatori calano in acqua le barche, al tramonto. Qui, tra i numerosi pinnacoli che spiccano dall’acqua, il Penzo sembra proprio un’imbarcazione. È attraccata all’isolotto di Sant’Elena, ormai da più di un secolo. Per tutto questo tempo i tifosi veneziani, almeno una volta, hanno distolto il loro sguardo dal campo da gioco. Si sono alzati in piedi, e hanno guardato oltre, oltre gli scaloni polverosi. Da qui la vista non lascia spazio che a un sentimento di struggente consolazione: la Laguna, il campanile della Chiesa di Sant’Elena. La gente, ora, arriva stancamente. I veneziani sono soliti ripetere che è più facile raggiungere il Friuli, o il Bentegodi, piuttosto che il Penzo. Si impiega meno tempo, e alla fine non ci si ritrova in uno stadio vetusto, gelido, scomodo. Venezia, la sua anima calcistica e la sua ambizione, sono intrappolate a Sant’Elena. È un esilio, in un’isola con un nome che evoca esili.

Joe Tacopina ha le idee chiare, e grande entusiasmo. Lo si percepisce subito quando arriva allo stadio. I veneziani ne sono rapiti, ed è un affetto comprensibile per un presidente che ha promesso di riportare il Venezia in Serie A, a 14 anni dall’ultima volta. C’entra anche la sua capacità di comunicatore, di uomo vicino alla squadra: continua a esercitare la sua professione di avvocato a New York, ma da quando è diventato presidente della società, poco più di un anno fa, trascorre a Venezia almeno due settimane al mese, ogni mese. Tacopina saluta, stringe molte mani, si concede più di un selfie. Ha piena dimestichezza. Vuole sapere tutto, non sottovaluta il minimo dettaglio: parla fitto con Giorgio Perinetti, il direttore sportivo, e Filippo Inzaghi, l’allenatore. Parlano di calcio, a lungo.

La gestualità di Inzaghi è furibonda, come se fosse ancora in campo a scattare alle spalle degli avversari. È straordinariamente concentrato, ha occhi su tutto. Dà indicazioni serrate persino durante il riscaldamento della squadra. «È un vincente, un lavoratore instancabile – dice di lui Tacopina –. Mi ha colpito il fatto che conoscesse tutti i giocatori della Lega Pro. Ha creato un gruppo unito che si fa forza a vicenda, la squadra è come una famiglia. Qui ha portato mentalità vincente e anche visibilità, visto che è una persona riconoscibile a livello globale. È l’allenatore con cui vogliamo andare in Serie A».

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Per Joe Tacopina, Venezia è la terza avventura nel calcio italiano dopo Roma e Bologna. Un’esperienza diversa, perché ha rilevato la società in Serie D, riportandola dopo un solo anno in Lega Pro: «Ho scelto Venezia perché ha un potenziale maggiore di altre realtà. La città ha un brand riconosciuto in tutto il mondo. In sei settimane lo store del Venezia ha venduto mille maglie: eppure non siamo né il Real Madrid né la Juve, e non abbiamo giocatori famosi. È merito del nome di Venezia. In qualsiasi altra città avremmo venduto una maglia».

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All’estremità della tribuna principale del Penzo, in prossimità della Curva Sud, c’è un’epigrafe in pietra, con in bassorilievo un leone alato, simbolo della città e della squadra. A fianco sono incisi quattro nomi: Aldo Ballarin, Ezio Loik, Valentino Mazzola, Walter Petron. Hanno un passato comune da calciatori nel Grande Torino (i primi tre sono morti nella tragedia di Superga) e nel Venezia dei primi anni Quaranta. Ovvero, il periodo migliore della storia del club, quello della Coppa Italia vinta nel 1940/41 e del terzo posto in Serie A nel 1941/42. È una testimonianza puntuale della dimensione di stadio-mausoleo del Penzo. «Per come sta andando il calcio oggi, c’è bisogno di un nuovo stadio», dice Paolo Poggi, Responsabile dei Progetti Internazionali del Venezia ed ex giocatore del club, che pure ha sempre visto il Penzo come il «giardino di casa», visto che è nato e cresciuto proprio a Sant’Elena. Poggi mi mostra sul suo smartphone una foto della curva risalente agli anni della Serie A: un muro di oltre 4.000 tifosi assiepati a strapiombo sul campo. È l’ultima istantanea di un calcio che non c’è più: Venezia si è assopita, e quando si è risvegliata ha scoperto che tutt’intorno le cose erano cambiate. Oggi le norme non permetterebbero un afflusso di tifosi del genere, tanto che lo stadio negli ultimi anni ha visto ridursi la propria capienza a 7.400 posti (nel 1966 un Venezia-Milan raccolse 26.000 spettatori all’interno del Penzo, altri tempi). E il rischio di danneggiamenti, come successo a seguito della tromba d’aria nel 2012, è sempre molto alto.

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Tacopina sa che c’è bisogno di un nuovo stadio, è una delle prime preoccupazioni da quando è arrivato a Venezia: «Vogliamo fare qualcosa di unico in Italia: un polo del divertimento, dove ci saranno anche un centro commerciale con 50 negozi e ristoranti. Sarà un’esperienza unica». Uno stadio moderno, che viva sette giorni su sette, sulla terraferma: l’area individuata è quella di Tessera, nei pressi dell’aeroporto. Non c’è ancora un progetto vero e proprio, ma Tacopina ha voluto accanto a sé Matt Rossetti, l’architetto che ha ideato due stadi di Mls: la Red Bulls Arena dei New York Red Bull e il Talen Energy Stadium dei Philadelphia Union. Una delegazione capeggiata dallo stesso presidente ha visitato i due impianti, a cui seguirà un tour tra gli stadi più all’avanguardia d’Europa: prendere quanto esiste di moderno e funzionale per traslarlo nella nuova casa del Venezia. Nel frattempo, la società sta già allacciando contatti con possibili investitori, e lo scorso luglio Tacopina ha svelato che ci sarebbe già una compagnia interessata ad acquisire i naming rights dello stadio.

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Il Penzo era il grande cruccio di Maurizio Zamparini, presidente del Venezia dal 1987 al 2002. Quando rilevò la società, promuovendo la fusione – mai completamente digerita – tra il Venezia e il Mestre, trasferì la squadra al Baracca di Mestre, che fu lo stadio di casa per quattro anni prima del ritorno al Penzo. La risalita dei lagunari fu spedita: dalla Serie C2, in meno di dieci stagioni, il Venezia raggiunse la Serie A. Ma Zamparini non riuscì mai a costruire il nuovo stadio: lui ne aveva in mente uno sul modello di quello di Reggio Emilia, ma per farlo chiese anche permessi per aprire supermercati. Quando capì che non sarebbe stato possibile, lasciò la squadra, appena retrocessa in B, e rilevò il Palermo. Se ne andò in un modo che lo rese inviso per sempre ai veneziani, caricando su un pulmino metà squadra del Venezia e portandola nel ritiro dei siciliani. Quello stesso anno Paolo Poggi accettò di scendere in B pur di dare una mano alla squadra: «Tornai perché c’era bisogno, mancavano i giocatori. E convinsi a far lo stesso alcuni ex compagni, come Calori e Gargo». Da allora, e fino all’arrivo di Tacopina, il Venezia ha attraversato tre fallimenti (2005, 2009, 2015), segno di un’instabilità economica, ancor prima che sportiva, trascorsa tra Serie C e Serie D.

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Oggi il Venezia, inserito nel girone B di Lega Pro insieme a un’altra decaduta come il Parma, è tra le maggiori accreditate alla promozione in Serie B. Nella rosa ci sono giocatori con un passato in Serie A, come Alexandre Geijo, Maurizio Domizzi e Simone Bentivoglio. Quando, lo scorso anno, con la società appena rifondata, Giorgio Perinetti entrò nell’organigramma della società in Serie D, l’umore della piazza cambiò. Stava succedendo davvero qualcosa di nuovo, se un direttore sportivo così di rilievo, con una lunga esperienza tra Roma, Napoli, Juventus, Palermo, Bari, l’uomo che scoprì le capacità di allenatore di Antonio Conte, accettava di far parte del neonato progetto americano. «Sono stato convinto dall’entusiasmo che mi ha trasmesso Tacopina – spiega Perinetti –, ha una grande visione manageriale. Ti chiama, ti dà un compito e te lo lascia eseguire. Senza ingerenze o intromissioni, e non è una cosa scontata nel calcio italiano. E poi nella decisione presa c’entra Venezia, una città unica al mondo, volevo fare qualcosa qui. Per me il calcio è uguale in tutte le categorie. Semmai è più difficile lavorare nel calcio minore, ma è anche più stimolante». La promozione in Lega Pro al primo tentativo indica che si sta procedendo verso la direzione giusta. Perinetti utilizza una parola, “inerzia”: liberarsi dalle secche dei Dilettanti è stato come mettere in moto una macchina e inserire la prima, man mano che si procede si cambia marcia e la guida è più fluida. «Il successo più importante è aver ridato credibilità a un ambiente scottato dai troppi fallimenti. Vedere oltre 4.000 persone allo stadio contro il Bassano è stato un segnale importante, la gente ha capito che stiamo lavorando per costruire qualcosa di concreto».

Ridare lustro alla Venezia calcistica è una necessità per una città intera, che ogni giorno si interroga su se stessa. Venezia è un posto che accumula turisti, oltre 25 milioni l’anno, con tutti i problemi che un’affluenza così massiccia comporta, degrado crescente in primis, e perde veneziani: in 40 anni il centro storico ha visto svanire 40.000 residenti, assestandosi intorno ai circa 60.000 attuali. La gente si è trasferita a Mestre e nei paesi sulla terraferma, dove sono concentrate le attività commerciali, dove non ci sono problemi di acqua alta o di trasporto, dove le piccole attività artigianali resistono, dove è più “facile” vivere. Tra chi è nato e vive ancora qui, dal sestiere di San Marco a quello di Cannaregio, è forte la preoccupazione nel vedere Venezia trasformarsi in un museo a cielo aperto, in un luna park a uso e consumo dei turisti, e nulla più. Ma quando, tra i bar presi d’assalto dai turisti, intravedi un poster di una vecchia formazione del Venezia, o senti parlare della prossima partita della squadra, capisci quanto questa città tenga profondamente alla propria identità. «La ricchezza di questa piazza è l’orgoglio – dice Poggi –. Ricordo la mia ultima stagione da calciatore, nella Prima Divisione di Lega Pro: dovevamo disputare i playout contro la Pro Sesto. Sapevamo che saremmo falliti, che saremmo ripartiti dai Dilettanti. Ma avevamo una squadra di veneziani che ne fecero una questione di orgoglio e diedero tutto, e a Sesto, nell’ultima partita, arrivarono mille tifosi da Venezia. Questa non è una città normale, e chi viene a giocare qua deve capire l’unicità del posto in cui si trova».

 

 

Tratto dal numero 13 di Undici. Fotografie di Alessandro Oliva