Perdendo l’amichevole con la Francia Espoirs, nel novembre scorso, l’Inghilterra Under 21 ha chiuso la sua striscia di 15 partite utili, una serie costruita a cavallo tra la gestione di Gareth Southgate e quella del nuovo tecnico Aidy Boothroyd. La sintesi su Youtube del match, finito 3-2 in favore dei transalpini, si apre con il bellissimo gol di Watmore, un diabolico pallonetto scoccato appena fuori area. La partita è ricca di gesti tecnici di buon livello, e l’estetica viene garantita pure dalle splendide punizioni realizzate dall’inglese Baker e dal francese Dembélé.
Proprio in questa sfida a distanza tra i due specialisti dei calci piazzati, al di là della singola giocata, si legge una grande differenza. Quella tra un movimento giovanile in salute e un sistema che vive un periodo interlocutorio, ben oltre gli effimeri risultati che l’Under 21 coglie solo nei turni di qualificazione. Non è un caso che la prima selezione giovanile inglese non superi il primo turno del campionato europeo di categoria dall’edizione 2009. In questo senso, come detto, la “sfida” tra Baker e Dembélé è esplicativa: Lewis Baker, 22 anni da compiere il prossimo 25 aprile, ha giocato un totale di tre minuti con il club in cui è cresciuto, il Chelsea, prima di un prestito biennale al Vitesse Arnhem, in Olanda (esperienza tuttora in corso); Dembélé, invece, è stato lanciato in prima squadra dal Rennes nella scorsa stagione, e conta 61 partite tra Ligue 1, Bundesliga, coppe nazionali ed europee con i rossoneri bretoni e il Borussia Dortmund – che l’ha acquistato nell’estate 2016. Compirà 20 anni tra poco più di due mesi.
È possibile espandere il concetto a tutti i calciatori in campo: l’undici titolare della Francia Under 21, senza considerare le cifre di Dembélé, può vantare un totale di 427 partite giocate tra campionati nazionali di prima divisione, coppe nazionali ed europee; la quota dell’Inghilterra, escluso Baker, raggiunge le 236 presenze. Sono numeri indicativi, che in qualche modo ci raccontano la reale forza giovanile del movimento inglese, al di là dei wonderkid – di cui parleremo dopo. A questi dati si aggiungono quelli dell’ultimo rapporto CIES, che ha conteggiato il numero di calciatori partecipanti alla Champions cresciuti nei club ancora in corsa nella massima competizione continentale. L’Arsenal è quarto, con 8 giocatori formati nel proprio vivaio. Solo quattro di questi sono nati sul suolo britannico: Walcott, Gibbs, Ramsey e Matland-Niles. Leicester City e Manchester City sono rispettivamente penultimo e ultimo, a pari merito con Juventus e Napoli: due graduated players per le Foxes, uno solo per i Citizens.
Inghilterra U21-Italia U21, Europpei di categoria 2015. Gli azzurrini vincono per 3-1
C’è un’ampia letteratura sulla questione giovanile del calcio inglese. Una delle letture più severe che è possibile trovare in rete è quella di David Conn del Guardian, che all’indomani dell’eliminazione della nazionale di Hodgson da Euro 2016 spiega come l’Inghilterra abbia «la nazionale che si merita», semplicemente. Il pezzo critica l’intero sistema, ma spiega una parte del problema della formazione attraverso la scarsa considerazione dei grandi club per i giocatori nati in Inghilterra: «C’è la mancanza di una visione, di esperienza e di manager competenti. In questo momento, il numero di calciatori inglesi in Premier League è pari al 30% del totale». Il dato, di per sé, non sarebbe neanche troppo allarmante: la percentuale di stranieri in Bundesliga è del 50%; in Spagna è leggermente più bassa (45%) mentre in Italia è decisamente più alta (57%). La Premier va oltre, certo, ma è praticamente inevitabile che sia una lega importatrice di talento straniero: la sua capacità d’attrazione, economica e narrativa, non ha eguali in nessun altro torneo europeo.
La vera criticità riguarda le Academy: secondo le liste di Tranfermarkt, i 24 club che giocano la Premier League 2 – il massimo campionato della piramide giovanile – hanno organici composti per il 40% da calciatori stranieri. Al netto dei “britannici” (scozzesi, irlandesi, nordirlandesi e gallesi sono considerati formalmente stranieri da Transfermarkt, ndr) scopriamo che le rose sono integrate da 95 ragazzi nati al di fuori del Regno Unito. Un numero pari al 22% del totale. I paesi più rappresentati sono la Svezia (8 calciatori), la Spagna (8) e gli Stati Uniti (7). Al quarto posto, sorprendentemente, la Finlandia (5). Anche il nostro campionato Primavera è molto esterofilo, eppure la media è nettamente più bassa: 42 squadre iscritte ai tre gironi e una legione straniera è di poco superiore al 17%.
La politica di reclutamento all’estero è trasversale, non riguarda solo i club con scuole calcio affiliate in tutto il mondo e uno staff internazionale di scouting. L’Under 23 del Wolverhampton, per esempio, conta lo stesso numero di stranieri di quella del Liverpool (4), eppure confrontiamo un club di Championship con uno sport brand noto a livello globale. Non si tratta, quindi, solo di ampie reti di ricerca o di grandi possibilità di investimento: dietro questa tendenza c’è anche una precisa preferenza da parte dei manager delle Academy, una scelta orientata alle diverse qualità e alla maggiore professionalità degli aspiranti calciatori stranieri rispetto ai giovani inglesi. Queste considerazioni sono state espresse da alcuni formatori e dirigenti dei settori giovanili di Premier League, e sono raccolte – in forma anonima – in un saggio di sociologia dello sport di Richard Elliott e Gavin Weedon (Foreign players in the English Premier Academy League: ‘Feet-drain’ or ‘feet-exchange). Secondo gli operatori del settore, i calciatori stranieri che vengono integrati nelle Academy «sono generalmente più bravi dal punto di vista tecnico»; oppure «hanno un’etica del lavoro più forte, più radicata, rispetto ai nostri ragazzi».
Le conseguenze di questa particolare situazione sono un po’ come la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: da una parte c’è stato il tentativo, da parte dei giovani inglesi, di «alzare l’asticella e migliorare il proprio livello tecnico in modo da mettersi al passo con i loro compagni provenienti da altri paesi»; dall’altra, il progressivo aumento di calciatori importati non può che ridurre gli spazi per i prodotti indigeni. In questo modo, la crescita del movimento si fa meno organica e armonica, più legata a dei casi isolati piuttosto che alla formazione di un gruppo di talenti. I casi isolati sono quelli di Rashford, Alli, Kane, Barkley, Stones, Sterling: rappresentanti di una new generation di precoci fuoriclasse arrivati subito ai palcoscenici più importanti, nonostante la mancanza di una sovrastruttura e di una reale coscienza di costruzione giovanile.
Tutti i gol in carriera di Marcus Rashford, aggiornati a gennaio. Compirà 20 anni il prossimo 31 ottobre.
L’Inghilterra è stata la nazionale più giovane dell’intero lotto di partecipanti a Euro 2016. L’organico costruito da Hodgson aveva un’età media di 25,8 anni. Al secondo posto la Germania (25,9). Il paradosso riguarda la narrazione intorno ai due sistemi di formazione: quello tedesco viene considerato all’avanguardia, il migliore d’Europa se non del mondo; quello inglese, invece, viene accusato di «non essere orientato realmente al futuro, ma solo al conseguimento di risultati tecnici ed economici immediati». Questa quote è di Richard Grootscholten, direttore del settore giovanile dello Sparta Rotterdam – il club che ha cresciuto Memphis Depay e Kevin Strootman. Il contesto da cui è estrapolata la frase è un’intervista-confronto di Espnfc con Kevin Sheedy, tecnico dell’Academy dell’Everton. Nella stessa intervista, Grootscholten dà una lettura del rapporto tra i settori giovanili e la Premier League: «Se la squadra ha bisogno di un’ala sinistra, hai due possibilità: sviluppare un giocatore nel settore giovanile o comprane uno per 40 milioni di sterline. Al momento, i club inglesi hanno abbastanza soldi per scegliere la seconda opzione. Questo, però, blocca il percorso verso la prima squadra per una giovane stella che magari si stava avvicinando a una svolta».
La percezione è questa, ed è molto vicina alla realtà dei fatti. Lo dicono i dati, lo raccontano le statistiche: solo 13 under 23 britannici hanno giocato più della metà dei minuti disponibili in Premier. Tra questi, tre giocano nello stesso club in cui sono cresciuti (Pickford del Sunderland, Barkley all’Everton e Kane nel Totthenam). La deduzione logica è semplice: i wonderkid del calcio inglese, quelli che ce la fanno, sono realmente dei wonderkid. Altrimenti, non potrebbero avere spazio in un torneo come la Premier. Sono dei giovani campioni, fuoriclasse in divenire. Il frutto di una selezione naturale spietata. Gemme di talento che non si possono ignorare, per motivazioni tecniche ma pure – e soprattutto – economiche. E che finiscono subito nel mirino dei club più ricchi. Tra gli altri dieci prodotti locali delle Academy protagonisti in Premier ci sono Sterling, Stones, Chambers: calciatori che hanno cambiato squadra a seguito di trasferimenti milionari. Prima li abbiamo chiamati casi isolati, ora possiamo definirli come eccellenze di un sistema non strutturato. Regali della sorte, esperienze random.
Ovviamente, parlare di sola casualità vuol dire forzare molto la chiave narrativa. Non è un caso che Rashford sia un prodotto del Man United, che Kane sia cresciuto nel Tottenham o che Chambers si sia formato nel Southampton. Esistono dei luoghi privilegiati, delle vere e proprie comfort zone in cui si origina e si modella il talento. Un’indagine del Mirror, aggiornata a gennaio 2017, individua le Academy più “produttive” della Premier League: in testa c’è il Manchester United, con 29 giocatori sparsi nei 20 club del massimo campionato. Dopo i Red Devils, nella graduatoria del Mirror, ci sono proprio Southampton e Tottenham: 16 calciatori per le Academy di Spurs e Saints, che al momento sono quelle che godono della migliore narrazione. Nel caso del Southampton, parliamo di una (meritata) autocelebrazione: un settore giovanile in grado di sfornare talenti del livello di Bale, Walcott, Oxlade-Chamberlain, Chambers, Shaw, Lallana non può che scrivere, nelle pagine del proprio sito, di sentirsi «one of the leading academies in the Uk». Il riconoscimento al lavoro del Tottenham sta nei risultati delle ultime due stagioni, nel rendimento dei vari Harry Kane, Danny Rose, Kyle Walker, ma anche nelle previsioni sul futuro vecchie di due anni: a febbraio 2015, il Daily Mail scrive che il settore giovanile degli Spurs «potrebbe presto ereditare il titolo di Accademia storicamente riconosciuto al West Ham». L’ultimo risultato significativo è quello dell’Arsenal, che ha prodotto 15 calciatori attualmente in un club di Premier League. Il dato dei Gunners è importante perché 11 di questi hanno effettivamente giocato nella squadra di Wenger.
Le 22 reti stagionali realizzate finora da Harry Kane. 24 anni a Luglio.
Un’analisi meno superficiale di questi dati, però, riconduce al discorso precedente sulla relazione tra settori giovanili e crescita e lancio reale dei talenti locali. Dei 29 calciatori cresciuti nel Manchester United, solo quattro giocano con la squadra di José Mourinho: Pogba, Lingard, Rashford e Fosu-Mensah. Ovvero due inglesi, un olandese (Fosu-Mensah) e un caso borderline come quello di Pogba, scovato nel 2009 dal Le Havre, perso a costo zero nel 2012 e poi riacquistato nel 2016. Gli 11 giocatori dell’Academy schierati da Wenger all’Arsenal provengono da quattro nazioni diverse, e cinque dei sei inglesi (Willock, Akpom, Maitland-Niles, Gibbs, e Wilshere, poi ceduto in prestito al Bournemouth) sommano un utilizzo inferiore a 1700′ di gioco. Di questi, 1121 fanno riferimento al solo Gibbs. L’altro inglese è Theo Walcott, acquistato a 17 anni dopo tutta la trafila giovanile nel Southampton. Quindi solo formalmente è un homegrowned players dell’Arsenal, rappresenta un caso similare a quello di Pogba.
Nello stesso pezzo del Mirror sulle Academy c’è una precisazione statistica sul minutaggio: il 25% del tempo di gioco della Premier League appartiene a calciatori cresciuti nei settori giovanili dei 20 club del campionato, mentre addirittura il 56% è appannaggio di giocatori formatisi lontano dalla Gran Bretagna. Il restante 19% è “riservato” ai prodotti delle Academy di club minori. È il caso dell’altro grande wonderkid del calcio inglese, Dele Alli. Ovvero, «the best young midfield since Paul Gascoigne» secondo Alex Ferguson. Alli è cresciuto nelle giovanili del Milton Keynes Dons, è stato acquistato dal Tottenham al termine del terzo campionato in League One e si è subito imposto nella squadra di Pochettino come nella nazionale di Hodgson. Se vogliamo, la sua esplosione è a metà tra la descrizione della favola di provincia e un’esplicazione della miopia interna dei club di Premier. E del loro modo di fare scouting, e di intendere il calcio giovanile.
La critica nei confronti di questa politica gestionale è profonda, radicata, arriva dallo stesso sistema mediatico inglese. In un pezzo sul Guardian, Barney Ronay parte dalla storia di Zach Fagan – 12 anni nelle giovanili dell’Arsenal, ora gioca in sesta serie, nel Welling United – per descrivere il sistema delle Academy: «La cessione, scaldare la panchina o tappare i buchi: questo è il destino di un graduated player in Premier League. I club del massimo campionato non si aspettano realmente di costruire un organico con questi giocatori. Né tantomeno aspirano a farlo. L’Academy è una sorta di esercizio, un investimento in termini economici e di impegno che diventa necessario solo nel caso in cui un giocatore su un milione salta fuori. Un unico genio riscatta l’intero processo di formazione, non importa quante altre pietre preziose finiscano per essere semplicemente parte di una filiera».
Highlights 2016/2014 di Dele Alli. Compirà 21 anni il prossimo 11 aprile.
Il regolamento della Premier League in materia di homegrown players è stato introdotto nel 2011, e prevede che ogni club debba registrare un minimo otto calciatori cresciuti nei vivai inglesi (almeno tre anni di formazione prima di compierne 21). Non ci sono limitazioni per quanto riguarda la nazionalità, e questo è un motivo di forte critica, preventiva e successiva, nei confronti del provvedimento adottato dalla Football Associations. Nel pezzo di Barney Ronay, ad esempio, si spiega che queste disposizioni hanno portato alla chiusura di molte Academy di club minori, che non riuscivano a rientrare degli investimenti fatti senza la possibilità reale di fare mercato con le società più importanti. Anche le cifre altissime pagate dal Manchester City per Sterling e Stones (62 e 55 milioni, fonte Trnasfermarkt) sono una conseguenza di questa regola, della necessità di acquistare calciatori cresciuti in Inghilterra.
Una veloce ricerca in rete ci riporta ad un altro articolo del Guardian, scritto durante il Mondiale 2010, in cui Jamie Jackson spiega come il calcio inglese debba prendere spunto dal modello tedesco per riformare il proprio sistema giovanile. Per farlo, utilizza le dichiarazioni di Christian Seifert, allora (e ancora oggi) CEO della Bundesliga: «La grande differenza tra il nostro codice e la Regola del “6+5” della Fifa sta nella creazione di confini geografici. Per la Fifa, basta che i calciatori siano cresciuti nel club. Un esempio è Cesc Fàbregas: si è formato nelle giovanili dell’Arsenal, ma è spagnolo. In Germania, le nostre accademie devono avere 12 calciatori, in ciascuna squadra, in grado di giocare per la nazionale tedesca». Non è proprio un caso che, tra tanti, sia citato proprio il centrocampista catalano.
La homegrown players Rule è stata inserita nell’Elite Player Performance Plan, un programma onnicomprensivo sul calcio giovanile inglese che si caratterizza – dicitura tratta dal sito della Football Associations – «per un approccio basato sullo sviluppo del calciatore, fin dalla più tenera età». Secondo l’ex chairman della FA, Greg Dyke, i provvedimenti previsti in questo piano non sono e non sarebbero bastati per assicurare una reale possibilità di costruzione e lancio dei prodotti giovanili in prima squadra. In un articolo scritto di proprio pugno e pubblicato sul Guardian nel 2015, Dyke ha spiegato la sua volontà di modificare i requisiti per “riconoscere” i giocatori cresciuti nei settori giovanili: «La definizione esistente di homegrown players rappresenta una scappatoia: la nostra intenzione è che i futuri prodotti allevati nei nostri vivai dovranno aver giocato tre stagioni con club inglesi. Prima, però, di compiere 18 anni. Anche per ottemperare alle regole della Fifa sui trasferimenti, le Academy dovranno necessariamente puntare su calciatori davvero nostrani. In questo modo, è auspicabile che entro il 2020 la rosa dei club di Premier possa essere composta non più da 8, ma da 12 giocatori cresciuti nei settori giovanili inglesi».
La Premier, però, ha rigettato subito, o quasi, questa proposta. Richard Scudamore, boss della Lega, nell’agosto del 2015 ha affermato che la FA «non può entrare nel regolamento del campionato, anche perché la Fifa l’avrebbe già sanzionato se non fosse stato conforme alle direttive internazionali». Il problema è essenzialmente legato al fattore economico: «Siamo d’accordo sul fatto che lo sviluppo dei giovani calciatori inglesi debba essere una priorità, ma non condividiamo determinati parametri. Anche perché i club di Premier hanno già investito 340 milioni di sterline in progetti legati alle Academy e quindi resisteranno a qualsiasi quota artificiale che potrebbe ridurre la loro competitività».
Il nuovo presidente della Fa, Greg Clarke, non si è ancora esposto su un’eventuale modifica della homegrown players Rule. Il futuro, quindi, non dovrebbe discostarsi molto dal presente: la Premier League, al di là di effimeri casi-Sterling, casi-Alli o casi-Kane, è destinata a rivolgere gran parte del proprio investimento nel talento al di fuori dei confini britannici. Com’è successo negli ultimi anni, e basta un giro su internet per rendersi conto di un risultato molto diverso tra la narrazione preventiva e la realtà dei fatti. La “20 players to watch” del Guardian anno 2008 è un album di successi abbozzati, talenti scomparsi, promesse disattese. Solo Henderson e Wilshere, tra i migliori adolescenti di allora, sono stati convocati per Euro 2016; accanto a loro, una buona carriera per Wellbeck, Moses e Drinkwater, ma anche calciatori scomparsi come Baxter, Delfouneso, Hoyte, o crack mancati come Delph. Non cambia molto la situazione guardando alla lista di potenziali talenti stilata dall’Independent nel 2011: ci sono Sterling e Oxlade-Chamberlain, ma anche William Keane, Steven Caulker, Nathaniel Chalobah. In pochi ce l’hanno fatta, in pochi ce la faranno. L’ultima lista in cui ci siamo imbattuti è quella stilata dal Guardian nell’estate del 2016: Gray, Pennington, Holding, Oxford, Pickford, Chalobah, Gibson, Ojo, Onomah e Reed. Solo Gibson e Pickford hanno superato i mille minuti di gioco. Forse è ancora presto per dirlo, ma la sensazione è che il destino sia segnato, quello di sempre: qualche gemma, e gli altri a far parte della filiera. It’s the Premier Way, è il sintomo di un sistema giovanile che vive un momento interlocutorio se non negativo. Tranne qualche caso, bellissimo e isolato.