Capire Pastore

Uno dei più grandi talenti al mondo si accende solo a intermittenza: cosa ha frenato la carriera dell'argentino, fino alla mancata affermazione al Psg.

Non è dato sapere quante volte Maurizio Zamparini abbia pianto in vita sua. Di una, però, ne abbiamo notizia da Walter Sabatini, all’epoca direttore sportivo del Palermo, recentemente intervistato da Repubblica: «Pastore arrivò in ritiro in montagna, direttamente dall’aeroporto. Il presidente Zamparini mi chiese di farlo giocare cinque minuti. Pastore, anche se stanco, fece una giocata straordinaria: stop e tunnel. Io dovevo andare in bagno, mi diressi nello spogliatoio, trovai Zamparini che piangeva dall’emozione davanti al bel gesto di Pastore. Si complimentò anche con me, l’unica volta». Memorie di un tempo (e di una squadra) lontano, quando le lacrime erano di gioia e ammirazione per il manifestarsi di un talento purissimo e non di dolore in previsione di un futuro con più ombre che luci. E, proprio come un critico che si commuove di fronte ad un’opera d’arte, anche il più vulcanico dei presidenti, durante quel ritiro estivo a Bad Kleinkirchheim, ha dovuto fare i conti con il suo lato umano. Quello che, come accadrà poi per Cavani e Dybala, lo spingerà ad effigiare Pastore in quadro da tenere appeso in salotto, in memoria dei momenti in cui ha potuto godere della bellezza effimera ed intrinseca di un gol, di un assist, di una singola giocata. Perché, in fondo, “El Flaco” è la personificazione del concetto stesso di bellezza non sacrificabile sull’altare dell’efficacia: mutevole, etereo, sfuggente ad ogni logica razionale. Da Buenos Aires a Parigi passando per la Sicilia, il fil rouge è sempre quello: partenza lenta, esplosione folgorante, calo inspiegabile, ritorno di fiamma che fa da preludio all’addio. E, in mezzo, gli infortuni, le discese ardite e le risalite, i numeri di maglia cambiati alla ricerca di un “io” preciso contenuto nel simbolismo aritmetico.

L’esplosione del Flaco ai tempi dell’Huracán

Quello che arriva dall’Huracán (di cui, con Defederico e Bolatti, era il profeta del calcio ultra-offensivo di Angel Cappa) nell’estate del 2009, è un ragazzino smagrito che, oltre ad un torneo di Clausura malamente perso all’ultima giornata in un polemico testa a testa con il Vélez, porta in dote una serie di paragoni pesanti: c’è chi in lui rivede il primo Kakà per la levità con cui si muove in campo dopo il primo controllo e per la capacità di giocare (e pensare) sempre in verticale; ad altri, invece, ricorda Francescoli e Riquelme per quel suo modo di essere enganche tipicamente sudamericano, accarezzando morbidamente la palla di suola/esterno per poi tagliare improvvisamente la difesa in due con un passaggio sul taglio dell’attaccante alle spalle del marcatore.

Dopo un necessario periodo di apprendistato tattico, dove comunque non mancano notevoli distillati del suo talento, Pastore si rivela finalmente per quello che è: un trequartista nell’accezione più moderna del termine, in grado di ovviare al naturale ritmo compassato del suo gioco con una capacità di lettura delle singole situazioni che si affina partita dopo partita. Nella sua seconda (e ultima) stagione in Sicilia, da leader tecnico della squadra più giovane della Serie A 2010/11 (24.2 anni di media), diventa il vero e proprio regista offensivo dell’undici rosanero, quello dal quale tutti i palloni devono necessariamente passare per poter sviluppare compiutamente l’azione negli ultimi trenta metri. Il copione è sempre lo stesso: ricezione (non importa se spalle alla porta) sulla trequarti, primo controllo a superare il diretto avversario e accelerazione improvvisa tra le due linee a mandare fuori giri le altrui rotazioni difensive, prima del tocco sull’attacco della profondità da parte del centravanti di riferimento, messo il più delle volte solo davanti al portiere.

La crescita è esponenziale anche dal punto di vista realizzativo. In Italia, oltre a confermare le sue ottime doti balistiche (evidenti fin dai tempi dell’Huracán, soprattutto in occasione di un memorabile 4-0 al River Plate) e la capacità di concludere a rete dopo essersi destreggiato nello stretto, Pastore impara come sfruttare a proprio vantaggio l’attacco del lato debole quando l’azione si sviluppa sugli esterni e l’uno-due, tanto in ampiezza quanto in profondità, con la prima punta (Hernández) o l’altro trequartista (Ilicic/Miccoli). Il giorno della tripletta al Catania, in quella che, a detta del diretto interessato, resta «la partita che ricordo di più della mia carriera», è la migliore spiegazione possibile del passaggio dai tre gol della prima stagione ai 13 della seconda (due nel cammino che porterà il Palermo a giocarsi la finale di Coppa Italia contro l’Inter):

Tripletta al Catania

Più che normale, quindi, che l’estate successiva porti con sé attese e ambizioni diverse da quelle che avevano caratterizzato il suo percorso in rosanero. Rivelando, però, anche il problema della tenuta mentale: se le aspettative e la cifra sborsata dal Paris Saint-Germain per assicurarselo (43 milioni di euro, all’epoca il giocatore più pagato nella storia della Ligue 1) sono da top player, la capacità di resistere alle pressioni e di non veder condizionate le proprie prestazioni dai giudizi altrui, molto di meno. Se si dovesse scegliere una parola per descrivere l’esperienza di Pastore al Psg, questa sarebbe “discontinuità”. È infatti difficile trovare un calciatore capace di catalizzare l’attenzione di media e tifoseria in maniera altrettanto altalenante. Le prestazioni del “Flaco” hanno oscillato fin da subito tra picchi di assoluta eccellenza e momenti di altrettanto assoluto spaesamento: con la sfortuna che ci ha messo del suo, tormentandolo con tanti (troppi) infortuni muscolari, che hanno minato alla base la continuità delle prestazioni.

Eppure, tutto era iniziato per il meglio: nella primissima partita con la maglia del Psg, preliminari di Europa League giocati contro i lussemburghesi del FC Differdange, Pastore rifila due tunnel al suo marcatore e regala due assist ai compagni: viene così già etichettato come il nuovo mago di una squadra che finalmente è pronta per rilanciarsi. Poco più di un mese dopo, l’argentino prima è decisivo a Brest e poi realizza una doppietta contro il Montpellier, confermando il suo momento positivo. A dicembre So Foot lo mette in copertina e tutta la Francia calcistica si toglie il cappello davanti alle qualità del neoacquisto parigino, che chiude la stagione con 33 presenze e 13 gol, record di reti a cui non si avvicinerà mai più. Giocando, soprattutto dopo l’avvento di Carlo Ancelotti, subentrato a Kombuaré il 30 dicembre, da trequartista puro, privo di particolari incombenze tattiche in fase di non possesso e con ampia libertà d’azione nell’attacco dell’ultimo terzo di campo in verticale:

Il meglio della stagione 2011/12, la prima in Francia

I problemi iniziano a sorgere quando a  Parigi sbarcano contemporaneamente Ibrahimovic e Verratti. E se il secondo dovrebbe costituire insieme a Pastore l’asse creativo del gioco parigino (condizionale d’obbligo visto che, stando a una recente statistica di So Foot, i due non giocano una partita insieme da titolari dal gennaio 2016), il primo finisce per rubargli spazio sul terreno di gioco. All’argentino piace giocare da numero 10 classico, ma la presenza in campo dello svedese rende la cosa «complicata», almeno secondo un’intervista rilasciata dallo stesso Pastore a L’Équipe nel 2013: «Perché è più avanti, ma a volte si sgancia dai tre di centrocampo. Spesso il coach mi domanda di andare ad occupare il posto di trequartista, ma finiamo per pestarci i piedi. Quindi cerco di posizionarmi in campo a seconda della sua posizione». Si tratta del primo di una lunga serie di equivoci tattici che, anche negli anni a venire, finiranno con il condizionare le prestazioni del “Flaco” (la seconda stagione è un disastro: 23 presenze e una rete in campionato e la miseria di 32 occasioni create) oltre a contribuire alla creazione della fama di quello che «si sceglie le partite in cui brillare», che non lo abbandonerà più. Casi lampanti di questa definizione sono le sua prestazioni monstre contro il Barcellona al Camp Nou nel marzo 2013 e contro il Chelsea l’anno successivo, a fronte di diverse prestazioni evanescenti contro le “piccole” di Ligue 1. Il pubblico inizia a dividersi: dopo l’investimento fatto per portarlo a Parigi e dopo l’antipasto gustoso dei primi mesi, gli appassionati non capiscono come uno così possa inanellare una serie di partite appena sufficienti e non riuscire a fare sempre la differenza nonostante il suo immenso talento.

Qui, ad esempio, semina tre avversari e va in rete: il capolavoro al Chelsea visto dallo stadio

Ormai è evidente che Pastore giochi per quello che i parigini chiamano “le kiff”: il momento di piacere. Il suo appartenere a quell’élite di giocatori dotati di una tecnicità e di un talento atemporale non lo salvano però dai giudizi severi di chi lo accusa di scarsa efficacia. L’arrivo di Blanc nel 2013/14 e l’inserimento in rosa di Cavani compromettono ulteriormente la sua situazione: con il 4-3-3, Pastore finisce in panchina, sopraffatto dallo stato di forma del centrocampo a tre formato da Verratti-Motta-Matuidi. Questa formazione più offensiva del Psg stimola gli avversari a difendere avanzando il baricentro e opporre un pressing serrato: e sotto pressione il numero 27 parigino finisce spesso per perdere palla ed innervosirsi, oltre a non mostrarsi esattamente efficiente nei necessari ripieghi difensivi. Il modulo ideale per Pastore sarebbe il canonico 4-3-1-2, che lo vedrebbe impiegato come trequartista dietro Cavani e Ibra. Uno schema che, però, la squadra sembra non poter reggere: di fatto, Blanc si rifiuta di insistere e disegnare il Psg intorno alle caratteristiche dell’argentino. Inizia, quindi, il momento più difficile della carriera parigina di Pastore, che va a segno molto meno (appena 12 gol nelle tre stagioni sotto la guida dell’ex capitano della Nazionale francese) e va incontro al suo calvario di infortuni dal 2015/16, stagione in cui gioca soltanto 28 partite su tutte le competizioni. L’argentino solo a sprazzi tira fuori la testa dall’acqua, per esempio contro il Lione, dove appare totalmente spaesato per 30 minuti ma poi aiuta la squadra a conquistare due rigori grazie ai suoi illuminanti passaggi in profondità, o contro il Nizza, dove risolve la partita con una doppietta:

Nel Psg di oggi, Pastore è un’incognita. Le premesse erano ottime: la partenza di Ibra a riequilibrare i rapporti di forza in spogliatoio e sul campo, la numero 10 sulle spalle e l’apparente desiderio di Emery di trasformarlo in ciò che Banega era nel suo Siviglia. Persino un gol nel Thropee des Champions, il primo dell’era Emery. E poi, però, i soliti fantasmi sono tornati (appena 10 presenze in campionato, nessun gol e tre assist, di cui due nel 2-1 contro il Lione), aggravati da una serie di infortuni che, alla vigilia della doppia sfida contro il Barcellona, hanno fatto dichiarare a Emery che «la situazione di Pastore è motivo di preoccupazione per tutta la squadra».

A perdonargli la sua incostanza restano gli amanti del gesto tecnico, di quella bellezza capace di far battere le mani anche agli avversari. Pastore non sarà mai un mostro nelle statistiche, né avrà mai l’ubiquità e la fisicità spesso richieste ad un centrocampista moderno, ma si inserisce nel solco dei registi argentini in grado di  cambiare una partita a prescindere agli schemi. «Per me, oggi, il migliore al mondo, il giocatore più entusiasmante, è Javier Pastore», ha dichiarato nel 2015 Eric Cantona. «Perché? Ho guardato due partite solo per vederlo giocare, per vederlo fare i passaggi. Il calcio è un gioco di interazione, è una delle ragioni della sua popolarità, e Pastore riesce sempre a fare cose sorprendenti. Non segnando gol eccezionali, ma grazie ai suoi passaggi. È un giocatore molto creativo, il più creativo al giorno d’oggi. Ecco perché penso che sia il migliore al mondo. Amo i giocatori così».