Hanno più di mezzo secolo, eppure le figurine Panini non sono cambiate molto, sapendo coniugare le novità con una tradizione diventata brand.
Se proviamo a visualizzare le immagini di un’infanzia serena, cosa vediamo? Giocattoli ancora impacchettati, piatti caldi in inverno che fumano mentre un odore corposo abbraccia i mobili della cucina. Nelle piccole madeleine che si dischiudono lentamente appare la forma rettangolare di una figurina, ognuno ne ha una, precisa, sicura, unica. Il più delle volte è l’ultima arrivata, quella che ci ha permesso di completare il nostro primo album. Quando Panini entra nelle nostre vite lo fa sempre, o quasi, in un momento di euforia che si dischiude allo strappo di una bustina di carta.
Panini è oggi un business globale, che vive senza aver perso l’impronta che i fratelli Giuseppe, Umberto, Franco e Benito gli avevano dato. Le pareti dell’azienda sono rimaste uguali, con quello stile anni ’60 che gli conferisce il gusto della tradizione. Unico vezzo che ci si concede è il cambio di colore delle pareti esterne: «Ogni quattro anni, come per i Mondiali», confida Antonio Allegra, market director per l’Italia. Entriamo in una stanza con un grande tavolo ovale al centro, tutto intorno è un dischiudersi di memorabilia, immagini storiche, lavoro di ieri e di domani. Si va dalle idee di Giuseppe in fatto di distribuzione, al genio meccanico di Umberto a cui si deve la creazione di alcune delle macchine che ancora oggi vibrano nella pancia della fabbrica.
Un fatto di complementarietà: «Parliamo di un business che parte nel 1945 con un’edicola in corso Duomo a Modena, divenuta poi un’agenzia di distribuzione giornali. Nel ’60 i Panini lanciano una collezione per conto terzi dell’editore Nannina di Milano, comprano dei resi, li re-imbustano e li mettono sul mercato. È li che capiscono che c’è un business». L’anno seguente nasce il primo album dei calciatori Panini. Dai quattro fratelli a un’azienda da 450 dipendenti solo in Italia (un migliaio in tutto il mondo), dalla prima figurina di Bruno Bolchi in maglia Inter fino alla crescita globale, passando per uno snodo cruciale: la prima collezione interamente composta da figurine autoadesive, nella stagione 1972/73.
Gli anni ’70 sono quelli in cui l’azienda diventa internazionale, nasce il primo album multilingue – quello di Messico ‘70 –, aprono le filiali estere in Europa. Sono gli anni della sperimentazione, ma i fratelli Panini invecchiano, e per tutelare l’azienda decidono di vendere, agli inglesi, mentre si dedicano a nuove attività. Il marchio oggi è una vera multinazionale, un brand che nell’anno dei Mondiali supera i 700 milioni di euro di fatturato, «poco più di mezzo miliardo invece quando non ci sono grandi eventi, diciamo un rischio calcolato a cui ovviamo con collezioni “road to”». Ma per arrivare ai risultati odierni l’azienda è passata anche per periodi complessi. Nel 1988 viene ceduta al Gruppo Maxwell che impone una serie di cambiamenti gestionali, «con un manager australiano, fin troppo avanti, fissato con la diversificazione e i prodotti per adulti». Con la scomparsa misteriosa di Maxwell e l’arrivo di De Agostini c’è la svolta: «Dal 1992 al 1994 entra il 90% dell’attuale management. L’azienda comincia immediatamente a tornare in utile, c’era una base sana e un marchio ancora fortissimo su cui lavorare». Nel 1994 la Panini viene acquistata dal Marvel Entertainment Group: il management resta lo stesso, italiano e coeso, mentre si aprono nuove strade, i primi comics e nuovi orizzonti sportivi: «Quelli che vanno dal ’94 al ’99 sono i cosiddetti “anni americani”, anni divertenti dove Panini riesce a diventare distributore delle card Nba in Europa, lavorando anche sui fumetti». Poi il ritorno in Italia con Merloni e il passaggio definitivo agli attuali manager, nel 1999.
La filiera Panini è cortissima: tra un operaio in linea e l’Ad ci sono soltanto 5 livelli gerarchici. L’intelaiatura vive di pochi step intermedi. Un’azienda glocal: «Oggi Panini è presente in 120 paesi: dalla Spagna alla Francia fino a Messico e Stati Uniti. I manager vengono regolarmente a Modena per dei meeting, almeno 3 volte all’anno». I manager si scambiano idee e spunti, non è solo Panini Italia a dettare la linea, ma lo sviluppo dell’azienda nasce dal confronto. Sui grandi fenomeni si agisce in maniera globale mentre i direttori locali possono decidere singolarmente, come ha fatto Allegra per le Olimpiadi: «Ho deciso di realizzare l’album delle Olimpiadi, cosa che non avevamo mai fatto in Italia in questa forma. Abbiamo contattato il Coni e poi il Cio e abbiamo concluso un accordo diretto. Questo è il potere locale».
La Liga, mi dice Allegra, è per noi il campionato che funziona di più a livello internazionale, vuoi per questioni di broadcasting, vuoi per capacità di vendersi, vuoi per il legame con il mondo sudamericano che pure incide in maniera importante sui proventi dell’azienda: «Il Sud America è un ottimo mercato per l’autoadesivo. Per noi il Sud America è molto rilevante, così come gli Stati Uniti dal momento in cui abbiamo ottenuto una licenza esclusiva dalla Nba e aperto una filiale. È stata un’emozione, ad esempio, vedere servizi in cui c’era gente che scambiava adesivi dei Mondiali in un luogo in cui la passione calcistica non è radicata come da noi». Mentre a livello locale, la raccolta di figurine “Calciatori” italiana rimane comunque la top seller del gruppo.
E il futuro? A guardare gli sviluppi del calcio è normale che Panini punti l’Asia, dove alcuni esperimenti sono già stati fatti, «in Cina ad esempio, ma in un sobborgo da 2 milioni di abitanti, con proporzioni completamente differenti», o al Giappone dove la mitologia intorno a Roberto Baggio ha portato qualche anno fa alla creazione di una linea prodotti premium «perché volevano un prodotto originale italiano, con adesivi in giapponese applicati solo in un secondo momento». Altrettanto interessante ma ancora più difficile come terreno è l’India, difficilissima. «Per la struttura in caste e per le barriere in ingresso a livello editoriale». Sembra tutto semplice, un marchio solido, un nome che infonde sicurezza, ma dietro c’è un lavoro costante e articolato: «Pensate al Mondiale, teoricamente l’aspetto più semplice. 32 squadre su cui muoversi, noi stiamo già acquisendo i diritti da almeno un anno e mezzo per il 2018. Contattiamo tra le 60 e le 70 squadre. Si fanno delle scommesse. Negozi un contratto che ha un fisso e un’opzione: un extra per la qualificazione. Sulle altre si fanno degli studi statistici: un tempo c’era “il tabellone”, aggiornato a penna con tutte le percentuali scritte a matita, oggi c’è sempre la squadra che dobbiamo comprare all’ultimo minuto». Le cifre? Sono segrete, ma si capisce che gli ordini di grandezza sono importanti e variano a seconda dell’importanza delle Nazionali.
Quando chiedo ad Allegra qual è il segreto per cui Panini ancora oggi unisce generazioni così distanti come i trentenni un po’ nostalgici e i bambini, sorride, scarta tre bustine, le strappa e le annusa. Fa fare lo stesso a me: «La risposta che mi sono dato è mimabile. Un bambino di 7/8 anni può spendere in figurine le prime paghette. È un fatto di indipendenza, di affermazione dell’io. Sceglie da solo cosa comprare, non deve chiedere il permesso. Poi tocchi la bustina e ogni passaggio è un’emozione fatta di odori, che stimola i sensi. Strappi, apri, e provi piacere».
Mentre ci spostiamo verso il ventre della fabbrica scorgo sulle pareti le immagini del passato, è un evolversi del tempo che provoca piacere, non paura. Quel puzzle di facce ti lascia intendere che sei cresciuto e sei diventato adulto. Quando infine chiedo ad Allegra qual è l’aspetto più importante del loro lavoro mi risponde: «Innovare, ma farlo senza tradire 56 anni di storia. Devi stupirli ma rimanendo fedele alla collezione di eroi che tutti abbiamo amato». Me lo confida mentre guardiamo il primo album mai stampato: con le figurine ancora in cartone. Mi fermo a guardare “la nera dell’Udinese”, un piccolo pezzo di carta ancor più raro di un “semplice” Pizzaballa.