Lo spleen di Pepito Rossi

Gli infortuni, la fugace risurrezione fiorentina, il rilancio mancato in Spagna: a 30 anni, Giuseppe Rossi è in debito verso la sua carriera?

Un ragazzo con la testa sulle spalle, un figlio diligente, un compagno affettuoso e fedele. Amante dei bambini ma non ancora padre (poco importa), talento smisurato ma non ancora campione (e questo importa eccome). Un’eventuale discussione sulla fenomenologia di Giuseppe Rossi potrebbe prendere il via da questa manciata di parole e dilungarsi per ore di causa in causa, ma la struttura ridotta all’osso non muterebbe di una virgola. Parlarne senza dare al tono di voce un robusto tocco di malinconia è una sfida decisamente ardua, sostengono gli amanti dell’eufemismo, e lo è da ormai oltre cinque anni; ovvero da quando il ginocchio ha fatto crac per la prima volta. Il primo atto del calvario vero e proprio, datato ottobre 2011: Real Madrid-Villarreal finì 3-0, ma per Pepito la sconfitta più grave non fu quella sul campo. Out per quasi seicento giorni, sbalzato di sala operatoria in sala operatoria e costretto a mesi interminabili di fisioterapie, poi i primi raggi di luce con il trasferimento in Italia e la presentazione al Franchi di Firenze, con un sorriso a trentadue denti stampato in volto e quel curioso 49 sulle spalle. Il resto della storia è arcinota: la partenza col botto nell’estate 2013, la grave ricaduta a gennaio e il desolante zero alla voce presenze in viola della stagione successiva.

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Tra etichette e bolle anti-critiche

È assai probabile che in Italia sia ancora ben nitido il ricordo della tripletta con cui Pepito guidò la Fiorentina (allora di Montella) alla storica rimonta contro la Juventus, ma è altrettanto plausibile che chi segue la Serie A da lontano, o semplicemente lo fa senza particolare interesse, sia pervaso da altre sensazioni pensando alla sua carriera ed in particolare agli eventi da cui è stata segnata. Ed è così che per l’opinione pubblica Rossi incarna ormai un binomio che prevede l’etichetta di “quello infortunato” e “quello sfortunato” ben più frequentemente rispetto ad altre come “quello rapido” o “quello estroso”. La situazione è limpida, e ripercorrendone i precedenti da un punto di vista evenemenziale non si può che constatare una netta tendenza verso il basso della sua parabola: prima l’ascesa tra Parma, Manchester United e Villarreal, poi un primo pericolante segnale di cedimento seguito dal rinascimento fiorentino, infine il nodo che viene al pettine accompagnato da una quantità industriale di malasorte.

La rete del 4-2 contro la Juventus, la terza di Pepito

La stagione passata, sotto la guida di un Paulo Sousa poco comprensivo e con altre gatte da pelare, ha rappresentato l’apice di un disagio vissuto e sofferto a causa della condizione di malato perenne. Erano mesi in cui non riusciva a trovare spazio pur essendo in condizione di esigerlo; mesi che a Firenze chi gli ha voluto davvero bene ricorda con più di una punta di amarezza. Il primo, inevitabile passaggio in Spagna – avvenuto a gennaio 2016 – è servito relativamente al suo processo di riabilitazione: Rossi ha iniziato a riprendere fiducia nei propri mezzi e ha segnato pure qualche rete, ma l’essersi calato in una realtà tanto insolita per le sue abitudini (il Levante ultimo in classifica) non ha giovato al recupero mentale vero e proprio. Piuttosto, dal momento in cui sin dalle prime settimane è stato trattato come una sorte di salvatore della patria e di conseguenza immerso nella classica bolla anti-critiche, sarebbe più corretto parlare di un rallentamento del processo. Per non parlare del fatto che a fine stagione su 33 presenze totali la media dei minuti giocati per gara era pari ad appena 56, che in parole povere significa tante sostituzioni subite ed altrettanti spezzoni di cinque minuti concessi. Di fatto una stagione impiegata a metà e ricca di punti interrogativi, ma che nonostante tutto si proponeva come proemio di un futuro ben più roseo a partire dalla successiva.

ACF Fiorentina v Bologna FC - Serie A

Delusioni in serie

Che Sousa potesse serenamente fare a meno di lui lo si era già abbondantemente intuito nei mesi precedenti, ed è per questo motivo che l’atteggiamento manifestato da Pepito durante l’estate parve ancora più anomalo, o quantomeno curioso: nonostante le carte fossero già state scoperte, provò a persuadere il proprio tecnico fino agli sgoccioli della scorsa sessione estiva di mercato, mettendo insieme fra l’altro una decina di minuti scarsi in occasione dell’esordio in Serie A della Fiorentina allo Juventus Stadium. Era il 20 agosto, ed esattamente otto giorni dopo Rossi si trasferiva in Spagna per la terza volta nella sua carriera, dopo il passaggio al Villarreal dell’estate 2007 e quello al Levante di pochi mesi prima. Ad accogliere a braccia aperte (e rigorosamente in prestito) l’italo-americano era il Celta Vigo di Eduardo Berizzo, che nelle due stagioni precedenti aveva dato continuità ad una politica di stabilità in termini di risultati: nono posto con Luis Enrique nell’annata 2013/14, rispettivamente ottavo e sesto nelle seguenti. Circostanze alla mano il contesto pareva l’ideale per ritrovare la forma di un tempo: non opprimente quanto quello fiorentino, che dal suo Pepito si sarebbe indubbiamente aspettato faville fin da subito, ma neanche remissivo ai livelli della Levante in cui aveva vissuto tra il gennaio e il giugno dello stesso anno.

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Quello che sta accadendo oggi è invece l’opposto: il Celta è ancora una volta perfettamente in linea con il rendimento delle ultime stagioni (e anzi, considerando il più che soddisfacente cammino europeo si sta decisamente spingendo oltre le proprie aspettative), mentre Pepito vive una fase di ridimensionamento costante da cui non riesce a slegarsi. È vero, il suo livello di professionalità tocca picchi più alti giorno dopo giorno: eppure, quando andiamo a scrutare il suo minutaggio, questo risulta addirittura inferiore in prospettiva a quello di un anno fa, nonostante il numero delle partite giocate sia sensibilmente aumentato. La motivazione prettamente matematica potrebbe suonare come un controsenso, eppure è molto semplice: Rossi gioca più partite, ma la fiducia nei suoi confronti è ridotta. Che tradotto sta ad indicare un reale miglioramento delle condizioni fisiche (non ha mai saltato una gara per infortunio), e allo stesso tempo una diminuzione drastica del suo tendere alla centralità del progetto.

Al centro, sempre

Quello dell’egocentrismo, pur involontario e in ogni caso limitato al terreno di gioco, è un tema caldissimo quando parliamo di Rossi. Ovunque abbia giocato dai 20 anni in poi (il riferimento è perlopiù a Villarreal e Fiorentina, ma può tranquillamente estendersi ai mesi di Levante), Pepito è stato l’icona della squadra, il giocatore simbolo e di gran lunga il più esaltato anche di fianco ad elementi che in sua assenza sono stati a loro volta tra i più adorati in assoluto tra le tifoserie. Un esempio lampante è in questo senso quello di Borja Valero, con cui Rossi ha condiviso una fetta enorme della propria vita calcistica. Partiamo dal presupposto che, già da un punto di vista strettamente tecnico, l’interpretazione rossiana del ruolo di 9 e mezzo, costruito sulla rapidità, sul tocco corto e per conseguenza sull’uno-due, ed esaltato da doti balistiche fuori dal comune, è già di per sé una efficientissima calamita attira-innamoramenti. Se all’interno di questo contesto inseriamo altri due dettagli non da poco, però, ecco che da calamita diventa una vera e propria trappola. Innanzitutto Rossi è (era) un calciatore decisivo, ovvero “in grado di decidere” nei limiti del possibile quando un’azione debba nascere, svilupparsi e concludersi in un modo piuttosto che in un altro. La tripletta del 20 ottobre 2013 in un Fiorentina-Juventus poi divenuto celebre ne è l’esempio più emblematico.

La stagione 2010/11, la migliore in carriera con 32 gol stagionali

Estendendo questo concetto al campo, esso si evolve nella capacità di portare punti alla propria squadra attraverso reti segnate o assist vincenti serviti. Nel dettaglio: 25 in 36 gare con il Villarreal (stagione 2010/11), e addirittura 16 in 21 con la Fiorentina (stagione 2013/14): un’incisività spaventosa, che suggerisce quanto la sua leadership tecnica lo porti a costituire un punto di riferimento anche e soprattutto per i compagni. Date per consolidate le prime due (abilità superiori alla media e indice di influenza elevato), fuori dal campo Pepito è simpatico, e anche questo ha contribuito all’idea di centralità nelle squadre in cui ha militato. Ha sempre avuto rapporti più o meno cordiali con tutti i compagni, e lo stesso è sempre valso anche per i suoi allenatori fino a quando non ha incrociato la strada di Sousa. Per non parlare delle città che lo hanno ospitato, attraverso le quali è diventato un vero e proprio cittadino del mondo. In linea di massima non sembra particolarmente espansivo (ed in effetti non lo è), eppure è proprio un aspetto del suo carattere strettamente legato alla comunicatività che lo ha portato al centro, sempre.

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È davvero il tramonto?

Adesso centrale non lo è più: tra l’imperioso Guidetti (ben più adatto per recitare il ruolo di 9 nel 4-2-3-1 del Celta) e l’abbondanza di esterni e mezzepunte di cui Berizzo può disporre, un Rossi normalizzato dalle proprie vicissitudini non riesce a distinguersi, e quella in corso rischia di tramutarsi nell’ennesima stagione a metà. Per la prima volta nella sua carriera non è più al centro del progetto, forse non lo è neppure mai stato, e per un calciatore che sull’egocentrismo involontario ha costruito le proprie fortune la logica prevederebbe una crisi d’identità dietro l’angolo. Il difficile sta nell’accorgersi di quanto questa proceda velocemente, e nel capire se Pepito abbia ancora qualche chance per evitarla. La sua vicenda passa sottotraccia da un anno abbondante, sintomo di una collettività che del suo recupero ha iniziato ad interessarsi con minore intensità, e questo è un altro indizio piuttosto eloquente. Ciò che preoccupa maggiormente però, riflettendo sul progressivo regredire del suo appeal, non è tanto il fatto che a trent’anni compiuti non sia ancora riuscito a tornare a galla, quanto il fatto che non siano più problemi di natura fisica ad impedirglielo.