La nuova vecchia casa del Torino

Ricordi del Filadelfia, luogo di culto del popolo granata, depositario della storia e del significato di una squadra dall'epica indelebile.

Sono nato a Torino nel bel mezzo degli anni di piombo, anni in cui era abbastanza frequente trovarsi di fronte un posto di blocco, un mitra puntato e una richiesta di documenti. A Torino andava in scena il radicale cambiamento della società italiana. La città che fu prima capitale italiana, la città dei Savoia, era diventata il simbolo dell’industrializzazione che la famiglia Agnelli portava avanti dai primi del Novecento con la Fiat. Fredda, grigia e ingessata, in quegli anni, Torino vive all’ombra della più grande fabbrica automobilistica italiana e dal suo indotto composto da centinaia di boite (in piemontese piccole officine, aziende) che gli gravitano attorno. Il Pci vince le elezioni del 1975 e governerà la città per un decennio: dove poteva esistere contrapposizione così estrema, se non nella città simbolo del capitalismo italiano? Il 16 maggio del 1976, un anno e mezzo dopo la mia nascita e ventisette anni dopo la tragedia di Superga, il Toro si laurea per la settima volta campione d’Italia.

A causa della giovanissima età non ho ricordi tangibili di quegli anni d’oro, ma mio padre ancora oggi racconta storie e aneddoti legati a quell’ultimo scudetto. Uno dei suoi preferiti è quello legato al libero, Caporale, acquistato nello scetticismo generale dal Bologna, che divenne uno dei protagonisti di quella squadra. Lo chiamavano Caporalbauer per via della somiglianza, del ruolo s’intende, con il Kaiser Franz. Quello scudetto sembrò a molti la quadratura del cerchio, la storia che riprendeva il suo corso, il filo che si riannodava, un romantico abbraccio tra quella squadra e il Grande Torino date le tante analogie sulla costruzione di quelle due squadre vincenti. Nel campionato successivo i granata sfiorano lo storico bis. Lo scudetto 1977 è ancora oggi ricordato come il testa a testa più famoso della storia del calcio italiano: finirà 51 punti a 50 a favore dei rivali cittadini, con tanti saluti ai biglietti dello spareggio già stampati e divenuti cimelio per collezionisti.

Nella gigantesca area che prende il nome di Lingotto, appoggiato alla ferrovia, sorge lo stabilimento Fiat di via Nizza. Dall’altra parte dei binari, c’è Borgo Filadelfia con i Mercati Generali: è una zona molto operosa, dove si trasferisce, da Modena a Torino, mio nonno, tuta blu Fiat per oltre quarant’anni. Nel quadrivio tra via Filadelfia, via Giordano Bruno, via Spano e via Tunisi, sorge lo stadio Filadelfia, il mitico impianto in cui giocava il Grande Torino, il tempio degli Invincibili, la più grande squadra italiana di tutti i tempi, quella che perirà nel tragico incidente aereo sulla collina di Superga al ritorno dall’amichevole contro il Benfica, voluta fortemente da Ferreira, capitano dei lusitani:«Vorrei organizzare qualcosa di speciale. Vorrei affrontare la squadra più forte del Mondo».

Papà, che è nato poco prima della fine della guerra, racconta che lui, come tanti altri ragazzini degli anni Quaranta, al Fila ci ha trascorso l’infanzia. Si giocava a pallone nell’antistadio o nel campo secondario, si guardavano gli allenamenti della prima squadra mentre gli anziani che avevano visto giocare il Grande Torino frequentavano l’impianto sette giorni su sette. I gagnu (i ragazzini) come mio padre cercavano di accompagnarsi a qualche abbonato per entrare gratis: i più scaltri le tentavano tutte, alcuni aiutavano i custodi, qualcuno provava a impietosire i bigliettai, altri si reinventavano posteggiatori per rimanere dentro lo stadio prima dell’inizio della partita.

Le tribune erano di legno e gli spalti, in stile inglese, erano talmente vicini all’erba che sembrava di poter toccare con mano i campioni che, in casa, non perdevano neanche una partita. Lo stadio era stato costruito nel 1926 con suggestivi mattoni rossi, bassorilievi Art decò. Il Fila, per me che abitavo all’estremo opposto della città, era qualcosa di distante, misterioso, mitico. Il Fila era un segreto che potevo solo immaginare attraverso i racconti di papà e le foto che trovavo nei volumi impilati sulla libreria del salotto.

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La mia prima volta al Fila fu nella primavera del 1982. Mio padre, in uno dei rari permessi lavorativi, mi accompagnò ad assistere a un allenamento. Quel Toro da battaglia, allenato da Massimo Giacomini, era lontano dalle posizioni di vertice e si dibatteva nel mare nostrum della Serie A con la tenacia e lo spirito di una squadra operaia, ormai orfana del fosforo di Pecci, dei guizzi di Claudio Sala, dei gol e della generosità di Graziani, dei balzi felini di Castellini. Quell’annata che stava volgendo al termine, determinerà anche la fine dell’era Pianelli, storico presidente dello scudetto del 1976, e vedrà l’addio al Toro di una delle più grandi bandiere del dopo Superga, Paolo Pulici.

Nel cortile antistante alle tribune, come se il tempo si fosse fermato, alcuni ragazzini giocavano a pallone: il Fila sembrava l’oratorio del paese e non il centro sportivo di una squadra professionistica di Serie A. Si respirava aria familiare, genuina. Uscirono dagli spogliatoi Danova e Zaccarelli che con il suo baffo impeccabile e i modi gentili, scambiò quattro chiacchiere con i tifosi e firmò qualche autografo. Alla spicciolata mi passarono davanti agli occhi tutti i prodotti di quel filone aureo che era il vivaio granata: Dossena, Giacomo Ferri, Francini e Pulici.

Ogni tifoso del Toro ha un personale ricordo del Fila. Al Fila c’era profumo di legno, di erba fresca, era il luogo in cui la Storia aveva il suo posto, un luogo dove i racconti dei più anziani che ti parlavano di Capitan Valentino e della tromba di Bolmida servivano ad accendere la tua immaginazione, mantenere vivo il ricordo e tramandarne la leggenda. Ecco cosa era il Fila: un luogo magico dove ripercorrere e rivivere le orme di un vero e proprio mito. C’erano quelli che ti dicevano “Io li avevo visti” e, mentre parlavano, facevano roteare la mano come a dire “tanta roba”, quelli che si commuovevano ad ascoltare i racconti e che non riuscivano a trattenere le lacrime.

Mi è sempre piaciuto andare al Fila, e ricordo con piacere i lunghi viaggi a bordo del tram numero 10, che sferragliava da nord, dove abitavo, a sud: undici chilometri attraverso la città, passando davanti al Gran Caffè Stadium, dove papà acquistava i biglietti delle partite, per  arrivare allo Stadio Comunale, proprio di fronte alla Curva Maratona. Si scendeva all’incrocio con corso Sebastopoli e si raggiungeva il Filadelfia, dopo una breve passeggiata di circa dieci minuti. Parecchi anni fa, di ritorno dallo stadio, su quel solito tram, incontravo spesso il signor Aldo. Si chiacchierava del presente ma soprattutto del passato. Aldo si aiutava con un bastone e d’inverno indossava sempre un bel paltò color blu scuro.

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Il Signor Aldo i ragazzi del Grande Torino li aveva visti e il suo preferito era Maroso, il terzino sinistro. «Ma signor Aldo? Ma Capitan Valentino? E Gabetto?», gli chiesi una volta. Mi rispose che il Cit (il piccolino) era il più elegante e soprattutto non sprecava mai un pallone: «L’ai nen mai vedulu campé via un balôn». (Non l’ho mai visto buttare via un pallone).

Un giorno, mentre mi raccontava del Grande Torino e della sua prima volta al Fila, gli si incrinò la voce, tirò fuori un fazzoletto per asciugarsi gli occhi umidi e disse: «Non credo che mi sia rimasto molto da vivere. Uno certe cose inizia a pensarle, sa (mi dava del lei). Ho 86 anni, quanto posso stare al mondo? 4-5 anni? Se va bene e ho fortuna, dieci…Però, guardi, stia sicuro che la prima cosa che faccio quando vado lassù è andare a cercare Capitan Valentino per abbracciarlo forte. Magari un giorno mi faccio portare al Fila, perché il Fila lassù c’è, e vado a godermi un’altra volta quello spettacolo».

Filadelfia! Ma chi sarà ‘l vilan
a ciamelu ‘n camp? Jera ne cuna
‘d speranse, ‘d vita, ‘d rinasensa,
jera sugnè, criè, jera la luna,
jera la strà dla nostra chersensa.

Filadelfia! Ma chi sarà il villano
che avrà il coraggio di definirlo “un campo”? Era una culla
di speranze, di vita, di rinascita,
era sognare, gridare, era la Luna, era la strada della nostra crescita.

Giovanni Arpino, “Me Grand Turin”

Al Fila ci andai anche per amore di una ragazza. Erano i primi anni Novanta e la ragazza dell’epoca voleva una foto del sottoscritto insieme ad Enrico Annoni, uno dei giocatori di quel Toro che aveva recuperato forza e valori perduti: era il Toro di Amsterdam e di Mondonico, Lentini, Casagrande, Martin Vazquez e Scifo. L’amore della ragazza finì presto e la foto non so proprio che fine abbia fatto. Le cose per il Toro stavano cambiando in peggio. Il declino della squadra, segnato da gestioni fallimentari, divenne inarrestabile. Gli anni di purgatorio in Serie B si susseguirono e le delusioni si moltiplicarono, gli acquirenti millantati e i proprietari cialtroni si alternavano in un lungo elenco di disgrazie.

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Il Filadelfia, se possibile, se la passava anche peggio: fu così che lo storico impianto venne parzialmente demolito. Gli avvoltoi che aleggiavano sull’area furono serviti. Pochi raccoglievano il grido di dolore dei tifosi granata e, nel frattempo una serie infinita di piani regolatori dilatavano a dismisura i tempi d’intervento: era ormai troppo tardi quando le ruspe arrivarono al Filadelfia. A un certo punto smisi di credere alla ricostruzione del Filadelfia tanto che, in controtendenza con molti altri tifosi granata, mi convinsi che fosse inutile lottare per ottenere qualcosa che non sarebbe mai stato nemmeno lontanamente simile all’originale. Il Fila era stato volutamente dimenticato da tutti e una nuova versione non sarebbe servita a nulla, se non ad aumentare il rammarico per quello che poteva essere e non sarebbe mai stato.

Ma nell’ottobre del 2015, dopo anni e innumerevoli lungaggini burocratiche, la Fondazione Stadio Filadelfia ha vinto la sua battaglia e un mattino ci siamo ritrovati, in più di diecimila, increduli ma felici, a calpestare l’erba umida e fangosa del nostro vecchio stadio. La ricostruzione del Filadelfia era un passaggio fondamentale per riprendere il nostro viaggio. Il Filadelfia dovrà accompagnare i ragazzi, dovrà tornare a essere il cuore pulsante di un quartiere storico: il Fila dovrà tornare a svolgere una funzione sociale, soprattutto. Spiegare ai nuovi giovani cos’era il Torino, a chi è giusto ispirarsi. Essere una scuola non solo per i giocatori, ma per le nuove generazioni di tifosi.

 

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