C’erano una volta le cosiddette coppie gol: York e Cole, Mancini e Vialli, Raúl e Morientes. Nomi del passato, piuttosto che del presente: l’eccezione, consacrata da una stagione a suon di gol, è quella di Sebastian Driussi e Lucas Alario del River Plate. Insieme hanno segnato più della metà dei gol di tutta la squadra in campionato (29 su 51): contando anche gli assist, sull’80 per cento delle segnature c’è il loro zampino. Non sono stati da meno in Coppa Libertadores: 6 timbri alla fase a gironi per qualificare i Millonarios con due giornate d’anticipo. Immediato è stato l’interessamento dei maggiori club europei, tanto che Driussi è già stato preso dai russi dello Zenit per la prossima stagione: la nuova squadra di Roberto Mancini ha pagato la clausola rescissoria di 15 milioni di euro.
Alle spalle di Alario e Driussi, rispettivamente classe 1992 e 1996, ci sono storie del tutto diverse. Difficilmente si sarebbero incontrati se non fosse stato per il fiuto e la testardaggine di un monumento come Marcelo Gallardo, attuale allenatore del River Plate. Nel giugno 2015 Driussi vive momenti difficili, oltre che una stagione da comprimario. Fatica a trovare la giusta posizione in campo e in tutte le competizioni mette assieme appena una quindicina di presenze. La situazione si complica dopo quell’attacco con spray urticante da parte dei tifosi del Boca Juniors, nel tristemente famoso ritorno degli ottavi di Libertadores. Viene ricoverato con dei sintomi da meningite e perde il suo vero obiettivo, il Mondiale Under 20 in Nuova Zelanda. Nello stesso mese, Gallardo scommette un milione di euro su Alario, scoperto nelle serie inferiori del calcio argentino, al Colón di Santa Fe. Deve sostituire Teófilo Gutiérrez: alla vigilia della semifinale contro il Guaranì El Muñeco lo prende in disparte, lo vuole titolare, gli chiede se è pronto. Alario risponde con poche convincenti parole: «Ci sono, mi hai chiamato per questo». Contro i brasiliani El Pipa mette lo zampino nei due gol all’andata e va a segno al ritorno. Si ripete in finale contro il Tigres: i Millonarios alzano la loro terza Libertadores della storia dopo quasi dieci anni di astinenza.
Marcelo Gallardo è il trait d’union del destino dei nuovi gemelli del gol. Destina a Driussi il ruolo di seconda punta, ma gli chiede di diventare spietato sotto porta: quest’anno Driussi (17 gol) ha lottato con Benedetto per la classifica cannonieri in Primera Divisón, così come il River ha cercato di contendere il titolo al Boca fino all’ultimo. Il segreto lo ha spiegato lo stesso Driussi prima di fare le valigie per la sua prima avventura fuori dall’Argentina: «Ciò che mi ha insegnato Gallardo mi ha fatto davvero crescere. Mi ha martellato sui movimenti. Soprattutto quelli senza palla, per sfruttare al meglio gli spazi. Infine mi ha messo davanti alla tv per mostrarmi i gol e l’astuzia di Suárez e Lewandowski. Gli sarò grato per sempre». Il 4-2-2-2 alla brasiliana è stato cucito su misura per quel tandem davanti, l’armonia è diventata intesa vincente.
Da prima punta, Alario ha le giuste caratteristiche fisiche del numero 9. Un killer instinct abbinato a una buona tecnica che torna utile quando c’è da lavorare per la squadra, nel dialogare tra le linee e proporsi costantemente. Sintomatico della rivoluzione riuscita, è il primo dei tre gol che i due confezionano contro il Vélez ad inizio campionato. Alario si sgancia, libera l’area per ricevere al limite e calciare dai venti metri. Il portiere non fa nemmeno in tempo a ribattere che Driussi si avventa sulla palla e la spedisce in rete. Un tap in del numero 11, costruito in questo modo, sarebbe stato quasi impensabile nelle stagioni passate. Altrettanto significativo è il vantaggio siglato in trasferta contro il Patronato, con Alario che a inizio azione libera l’area portando via il difensore. Il resto lo fa Driussi, un misto di classe e freddezza dopo aver disorientato tre avversari.
Non è un caso che i movimenti siano diventati la chiave di volta nell’esplosione di Alario e Driussi. Un argentino come Menotti ha basato il calcio su spazio, tempo ed engaño: bisogna muoversi nel modo appropriato, fingere di voler sfruttare una situazione e poi piazzare l’inganno, andando dalla parte opposta. Quei movimenti che hanno esaltato il tandem del River, che Stefano Borghi, voce di Fox Sports, aveva già visto tempo fa: «Bisogna tornare al Mundialito Under 17 di quattro anni fa in Spagna. Vinse il River con un gol di Driussi in finale, all’epoca sfoggiavano tutta l’argenteria della generazione 1996. Gente come Batalla, Mammana, Martinez Quarta e in attacco Boyé col 9 e Driussi col 10. Questi ultimi due facevano proprio quel tipo di movimenti che abbiamo ammirato con Gallardo. Driussi partiva da seconda punta ma diventava l’epicentro dell’attacco e Boyé gli svariava attorno. La Joya è una seconda punta, ha un fisico resistente e un’ottima stoccata anche da fuori. Fa tanti movimenti diversi, in un sistema del genere si trova benissimo, specie se gli affianchi un compagno dal profilo completo come Alario, che è efficacissimo nel giocare con la squadra». Borghi rifiuta ogni tipo di paragone tra giocatori, «perchè ognuno ha una storia a sé», ma non ha dubbi sul fatto che entrambi gli attaccanti del River siano pronti per il calcio europeo: «L’unico punto di domanda riguarda l’ambientamento, io resto dell’idea che ragazzi così talentuosi vanno aspettati. Pensate a Dybala, per due anni a Palermo hanno pensato che avessero strapagato un pacco inutile e che addirittura in Lega Pro ci sarebbero stati calciatori più forti di lui. Guardate dove è arrivato nel frattempo. Quanto a questi due, Alario mi entusiasma. È bello da vedere e segna quando conta, tanto che in poco tempo è diventato un simbolo del club. Invece Driussi ha dimostrato personalità nei momenti difficili e nel tempo è riuscito ad adattarsi a tutto».
Forse il gol più bello in carriera di Driussi, al Sudamericano Under 17, dove fu capocannoniere
Lucas Alario da bambino preferiva il Boca e giocava per il Colón, la squadra che si tifa in famiglia. Ha sempre avuto una forte convinzione interiore che lo ha portato anche in Nazionale nel settembre 2016: Sampaoli l’ha appena riconfermato e pochi giorni fa ha segnato il suo primo gol con l’Albiceleste, contro Singapore. Leo Farinella, direttore del quotidiano sportivo Olé a Buenos Aires, dice: «Su Alario ricordo che appena arrivato c’era tanta curiosità nei suoi confronti perché aveva giocato solo su palcoscenici di secondo piano. È risultato decisivo fin da subito perché ha un grande carattere. Anche fuori dal campo, come dimostra la scelta di prendersi il numero 13 che in Argentina rappresenta la malasorte. Invece ricordo che in occasione del Mondiale per club del 2015, dopo aver segnato il gol decisivo in semifinale al Sanfrecce Hiroshima, gli venne chiesto con chi avrebbe voluto scambiare la maglia tra le stelle del Barcellona. Rispose che il suo vero obiettivo era tornare a casa con la coppa. È uno forte anche mentalmente, se inizia a diventare continuo come Higuaín o Agüero sarà anche lui tra i grandi».
Sebastian Driussi invece ha fatto tutta la trafila delle giovanili con la celebre banda rossa trasversale sul petto. A pescarlo a San Justo, dipartimento de La Matanza a Buenos Aires, fu Bruno Quinteros, primo vero allenatore. Lo portò al Predo Ezeiza, centro sportivo del River, a soli 9 anni, dopo averlo notato con la maglia del Brisas del Sur di Mataderos. A 11 anni fece scalpore il suo primo stipendio quasi pari a 35 mila euro. Di lui, Leo Farinella dice: «Deve migliorare solo il colpo di testa e l’elevazione. È stato esaltante vederlo giocare perché il modo di praticare calcio di Gallardo è andato a suo beneficio. Viene quasi da ridere se si pensa che qualcuno voleva darlo in prestito all’Huracán o al Vélez Sarsfield». Secondo Stefano Borghi, «se proprio bisogna fare degli accostamenti direi che Driussi rispetto a Dybala è molto più attaccante. Lo juventino è un metronomo offensivo e anche fisicamente ci sono delle differenze tra i due. Piuttosto sia Alario sia Driussi sono delle vere e proprie creature di Gallardo, il tecnico ha innalzato di tanto le loro convinzioni. Mi ricorda molto il lavoro che ha fatto Capello con Ibrahimovic, quando lo spronava ad allenarsi di più, a convincerlo che poteva migliorarsi ancora».