Il minimalista

Joachim Löw è diverso da tutti gli altri allenatori: emotivo ma composto, silenzioso, sorridente. E vincente come pochi altri.

L’esplorazione della cartografia emotiva di Joachim Löw è un viaggio breve, non particolarmente vario, e basta una ricerca mirata su Youtube per rendersene conto. La sua gamma di esultanze possibili sta tutta nell’intervallo minimo tra il sorriso che si scioglie nell’abbraccio con il suo staff, appena dopo aver vinto la Coppa del mondo, e le piccole urla di soddisfazione che scandiscono le sette reti della partita più incredibile della storia del calcio, allo stadio Mineirão di Belo Horizonte. C’è un video molto suggestivo che racconta quei momenti, è uno split screen che inquadra la panchina di Löw, quella di Scolari e gli spalti riempiti da gente colorata di verde e oro. Lo spettro delle sensazioni è completo: i tifosi della Seleção piangono già dopo il secondo gol della Mannschaft, Felipão è praticamente immobile, mentre una tensione non eccessiva, ma costante e sempre uguale, sembra non abbandonare mai il ct tedesco, perfino al gol di Schürrle, il settimo della serata. Esiste un montaggio identico, per forma e contenuti, anche per i rigori di Italia-Germania a Euro 2016. La stessa piattezza caratterizza le reazioni di Joachim Löw anche quando perde: al termine di Spagna-Germania 1-0, semifinale del Mondiale sudafricano del 2010, stringe la mano a Del Bosque e ha lo sguardo perso nel vuoto, sembra incapace di pensare o andare oltre, di fare altro.

Anche la strategia comunicativa di Löw è essenziale, basica, minimalista. Le sue interviste e conferenze stampa sono lineari, prive di acuti rilevanti, le risposte sembrano essere preconfezionate e ordinate per blocchi; le domande scomode o inattese vengono solitamente bypassate con un richiamo dialettico al topos principale della sua avventura da commissario tecnico: l’idea, il progetto, che vengono prima di tutto. In un’analisi della prossemica di Löw pubblicata dal settimanale economico Wirtschaftswoche, un esperto di linguaggio del corpo spiega che il ct tedesco, quando risponde ai giornalisti, «vive un continuo dialogo interiore, ed è evidente come cerchi di rimanere professionale e di nascondere la sua emotività». Già nel 2010, Usa Today scriveva che «nonostante il suo lavoro sia uno dei più esposti dal punto di vista mediatico, Löw ha volutamente scelto di mantenere un profilo basso, quasi fuori posto nel calcio di oggi».

L’intero articolo ruota intorno alla contraddizione tra questa sua immagine pubblica e la fermezza mostrata nei rapporti con alcuni calciatori durante la prima parte della sua avventura da commissario tecnico: un litigio con Ballack – costretto a scusarsi pubblicamente per tornare in Nazionale –, le esclusioni definitive di Frings e Kurányi per motivi disciplinari. C’è anche un episodio di campo negativo, una squalifica per proteste durante Euro 2008 (Löw non guidò la squadra dalla panchina nel match contro il Portogallo, ai quarti di finale), ma è un caso praticamente unico, e quindi marginale, in questo racconto.

Nel football postmoderno, Joachim Löw e il suo stile sono un vero e proprio caso narrativo. Nonostante una presenza mediatica ridotta, per caratteristiche naturali del ruolo di ct e per una precisa autodefinizione, il tecnico di Schönau im Schwarzwald – piccola comunità del Baden praticamente a metà tra il confine francese e Friburgo – ha costruito una carriera in grado di riscrivere completamente la percezione dell’allenatore della Nazionale, inteso come istituzione. Il suo contributo alla storia del gioco è enorme, lo leggi nei commenti dagli analisti internazionali e nei risultati del suo periodo alla guida della Mannschaft: Löw è al sesto posto nella classifica dei migliori allenatori in attività stilata da L’Equipe, in quella annuale di FourFourTwo è alla posizione numero dodici (era 11esimo nell’edizione 2016), ed è il primo tecnico di una rappresentativa a comparire in queste graduatorie; è l’unico ct di Euro 2012 ancora in carica, e solo un totem come Tabárez in Uruguay ha un’esperienza così longeva alla guida di una selezione di prima fascia; è il terzo Bundestrainer di sempre per durata del mandato, lo precedono solo altri due campioni del mondo, Herberger e Schön – che però abitavano un’era calcistica decisamente diversa; la Germania di Löw è sempre arrivata almeno in semifinale, in ogni torneo cui ha preso parte – tre Europei, due Mondiali e una Confederations Cup; contro il Camerun, esattamente dieci giorni fa, Jogi (il suo soprannome storico) ha toccato quota 100 vittorie in partite del calendario Fifa.

Australia v Germany: Group B - FIFA Confederations Cup Russia 2017

Nonostante la grandezza assoluta, questo portfolio di trofei e riconoscimenti passa in secondo piano rispetto alla vera rivoluzione tecnica di Löw, che ha avuto la forza di modificare completamente il concetto stesso di squadra nazionale. La sua Germania è un progetto in continuo avanzamento, in campo e nei significati, e rappresenta ancora oggi il centro di gravità e l’espressione più brillante e vincente del cambio di filosofia che ha letteralmente trasformato il movimento tedesco. Nel 2006, Klinsmann scelse Löw come assistente per avere accanto «un grande stratega, un vero allenatore». Grazie alla predisposizione e alla funzionalità del contesto, il discorso tattico iniziato un decennio fa non si è più esaurito, anzi si è rinnovato continuamente, fino a influenzare la cultura tedesca del gioco: il modello di formazione calcistica implementato in Germania nei primi anni Duemila, ormai assorbito da giocatori e allenatori al tempo della transizione tra Klinsmann e Löw, ha permesso al nuovo ct di basare la strutturazione ciclica della Nazionale su un sistema simile a quello di un club.

Da un decennio a questa parte, infatti, i giovani talenti tedeschi arrivano al calcio professionistico al termine di un processo didattico strutturato e condiviso, basato su uno sviluppo scientifico del talento. Löw è stato e continua a essere l’esecutore finale di questa filiera, tra estetica del gioco, successi e rinnovamento: la Germania ha vinto la Confederations Cup 2017 con una rosa dall’età media bassissima (22,8 anni), e nel frattempo il ct «ha potuto costruire l’esperienza delle sue seconde linee in vista di Russia 2018 senza rinunciare a quella chimica della lealtà che ha sempre caratterizzato il rapporto di lavoro con i suo calciatori» (Gabriele Marcotti, Espn).

La narrazione di Löw è un puzzle circolare, fabbricato intorno a una personalità duplice, calcisticamente innovativa ma lontana dalla sovraesposizione mediatica o dalle esasperazioni dialettiche o ideologiche che sembrano dover necessariamente appartenere ai grandi allenatori di oggi. Per raccontare l’allenatore e il personaggio in maniera compiuta, si finisce sempre per parlare del suo carattere, del suo profilo psicologico: in un articolo pubblicato su FourFourTwo, ad esempio, viene ricordato il mancato prolungamento del suo contratto al tempo dell’esperienza a Stoccarda. Siamo sul finire degli anni Novanta, molto prima della rivoluzione del calcio tedesco: «Il presidente del club guardava con sospetto il campo di allenamento, perché i calciatori ridevano, si sentivano coinvolti. Löw sembrava troppo gentile, troppo affabile». Poco dopo, c’è una dichiarazione più recente di Günter Netzer, che elogia proprio questo tipo di spirito: «Joachim ha la sua pace, la sua calma, la sua libertà, e tutto questo aiuta molto la squadra. Ha anche dimostrato che alcune critiche alla sua gestione, che lo dipingevano come un ct troppo tenero, erano sbagliate: la fedeltà incrollabile nei confronti di certi giocatori, indipendentemente dalla loro condizione – Miro Klose, Lukas Podolski o Sami Khedira, per esempio –, è stata premiata dai risultati e ha permesso alla Nazionale di diventare un gruppo affiatato, una vera e propria squadra».

Germany v France - Semi Final: UEFA Euro 2016

Probabilmente, la portata rivoluzionaria del nuovo ordine costituito da Löw è legata proprio a questo cambio di visione, di lettura, rispetto al ruolo del selezionatore. Che diventa tecnico in senso assoluto ed è in grado di costruire e dirigere un progetto tattico e relazionale, insieme. Concentrandosi sul campo, sul gioco, rifiutando le esasperazioni e le durezze caratteriali immotivata. Sempre Marcotti ha scritto di lui: «Potrebbe non sembrare umano, talvolta, ma vi posso assicurare che sotto quella chioma di capelli corvini ci sono carne, e sangue, e intensità. La sua umanità sta nel rapporto che ha creato con la sua squadra che ha costruito con i suoi calciatori».

Il calcio di Joachim Löw ha questo punto di partenza, e segue un certo percorso, il suo percorso, per arrivare alle vittorie, ai successi più grandi. In un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, ha detto: «La mia missione è di far progredire la squadra nazionale, e quello del selezionatore è un lavoro divertente. Ma nel mio cuore resto un allenatore, se c’è una sola cosa che cambierei della mia situazione attuale è il contatto troppo sporadico con i miei giocatori». Evidentemente, l’emotività che sembra mancare a Löw, allenatore umano, è proprio tutta qui.

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