Fastidiosi come una mosca. Ma in fin dei conti innocui e perdenti. Una decina di anni fa il tifoso tipo del Manchester United avrebbe risposto così a proposito dei concittadini del City. I vicini chiassosi, noisy neighbours, come li definì Sir Alex Ferguson. Diventato paonazzo nell’estate 2009 quando gli snobbati cugini si presero l’ex Carlos Tévez: «Sono un piccolo club con una piccola mentalità». Eravamo agli albori del sovvertimento. Una lunga ma inesorabile rivoluzione stava per attraversare la Manchester del pallone, quasi fino a ribaltarne i valori. Per capire i rapporti di forza dell’epoca si può partire da un dato. O meglio da un digiuno, quello della sponda Light Blues: tredici anni di fila senza vincere un derby, dal 1989 al novembre del 2002. Una squadra nata povera e disgraziata. Tanto da ispirare a fine anni Novanta l’autore televisivo Colin Shindler e il suo libro “La mia vita rovinata dal Manchester United”. Un catalogo fatto di sventure e memorie di un ebreo ortodosso cresciuto sulle terraces del Maine Road, il vecchio stadio alla periferia sud della città. Era il Manchester City del distretto di Moss Side, uno dei più poveri e malfamati di tutta l’Inghilterra. Oggi è il club dell’Etihad e di quei petrodollari che hanno rivoluzionato il football a Manchester. «Non c’è più la situazione che c’era al mio arrivo, quando la differenza era un po’ come quella tra Barcellona e Espanyol». Le parole sono di Pablo Zabaleta, che ha salutato i Citizens dopo nove stagioni.
Il primo decennio del Duemila ha segnato il definitivo salto di qualità della città: da grigio centro industriale è diventata moderna, dinamica, ricca economicamente ma anche di attrattive. È cresciuta in modo esponenziale con ambizioni grandiose. Fino a sentirsi la vera alternativa settentrionale allo strapotere di Londra. Ora con un pizzico di presunzione da queste parti potrebbero rispondervi: «Chiedete a un londoner come ci si sente ad essere secondi». Sviluppo e capitalismo hanno avuto il loro inevitabile riverbero anche sul calcio, finendo per attirare capitali e investitori dall’estero come accaduto a buona parte delle squadre di massima serie inglese. Lo United ha vissuto la sua sommossa di piazza nell’estate 2005, quando l’americano Malcolm Glazer completò la scalata societaria sborsando la cifra monstre di 790 milioni di sterline. La squadra di Ferguson e dell’allora diciannovenne Rooney aveva appena perso la finale di Fa Cup e si era classificata terza in campionato, a distanza siderale da un Chelsea da poco rilanciato dai miliardi di Abramovich. Dietro lo stemma del club con la scritta Not For Sale, i tifosi dei Red Devils sfilarono fino all’Old Trafford, nell’omonimo distretto della zona sud ovest della città. La paura era quella di «diventare il Merchandise United nelle mani di un tycoon americano» già padrone dei Tampa Bay Buccaneers, franchigia di Nfl della Florida. Il patriarca Malcom è venuto a mancare nel 2014, così tutte le proprietà e gli interessi della famiglia Glazer sono attualmente gestiti dai figli. Lo “strappo” del 2005 ha portato alla nascita dell’FC United, club dilettantistico fondato dai dissidenti in contrasto con la proprietà statunitense. Il “community stadium” dei Red Rebels sorge ora a Moston, nel quadrante settentrionale della città ed è «il simbolo della ribellione ai parassiti americani».
Quello che non ha mai convinto la parte più dura della tifoseria è stata l’operazione di leveraged buyout condotta dallo yankee, che fece leva sui suoi debiti contratti fin lì per scaricarli su una società a quell’epoca sanissima. Le ingenti spese sul calciomercato, anche dopo l’arrivo di Mourinho, hanno placato i toni della rivolta. Anche perché i risultati dal punto di vista economico sembrano aver dato ragione alla famiglia Glazer. I Red Devils continuano a essere un brand planetario molto ambito anche dagli sponsor: Adidas e Chevrolet sono solo due dei quattordici contratti di sponsorizzazione siglati nell’ultimo biennio. Il bilancio della passata stagione si è chiuso in attivo e la società americana è riuscita a raddoppiare il fatturato rispetto al suo arrivo (toccando quota 515 milioni di sterline) nonostante l’ultimo miglior risultato in Champions League risalga alla finale persa contro il Barcellona nel 2011. «I Glazer hanno vinto, ma a che costo?» si chiedeva tempo fa il Guardian, sposando l’umore dei tifosi legati al vecchio stile, che hanno visto il loro stadio svuotarsi della tradizione in favore di fan arrivati da tutto il mondo e disposti a sborsare tanti soldi per un biglietto dello stadio. Non è raro che sulle tribune ci sia ancora qualcuno con al collo la storica sciarpa gialloverde. Quella della prima maglia indossata dallo United nel 1878, quando il club si chiamava ancora Newton Heath ed era figlio dei ferrovieri dell’omonimo quartiere operaio situato a est. Poi il trasloco all’Old Trafford, in un quartiere storicamente appartenente allo United, vicino ai docks e pieno di manovali irlandesi e cattolici.
Nella storia recente del Manchester City, la data chiave è quella del primo settembre 2008, quando i Citizens erano stati promossi in Premier League da sei anni e veleggiavano a metà classifica. Il club passò dalle mani dell’ex primo ministro thailandese Shinawatra a quelle dello sceicco Mansour, dalla portata economica impressionante (1400 miliardi di euro in portafoglio). Non solo la prima squadra, non solo l’obiettivo di arrivare il più avanti possibile in Champions, bensì un progetto a tutto tondo, destinato ad avere un’influenza su l’intero contesto cittadino. Così come spiega Matt Davies, al seguito della squadra per il Manchester Evening News sin dai tempi della Second Division a inizio anni Ottanta: «Basta fermarsi un attimo e osservare per capire il tipo di impatto che ha avuto lo sceicco di Abu Dhabi. Ha scelto un campionato in crescita come la Premier League e una città in fase di sviluppo come Manchester per prendersi una squadra “normale”. Tutto sommato con pochi tifosi e poco clamore attorno. Ma che aveva appena iniziato a godere di uno stadio tutto nuovo, costruito dalle autorità locali assieme a una rete di trasporti adeguata per i Giochi del Commonwealth del 2002. È stato un investimento gigantesco, col quale ha rafforzato la prima squadra a suon di campioni, l’ha dotata delle strutture necessarie e ci ha anche guadagnato spingendo sul marchio Etihad, società aerea del fratellastro con base proprio ad Abu Dhabi. Sono aumentati gli scali, i voli e i passeggeri, anche perché gli Emirati Arabi hanno grossi interessi nel fare concorrenza all’Emirates, la compagnia di Dubai». È una guerra commerciale combattuta a suon di club inglesi, se si pensa che l’attuale sponsor del City è finito sulle maglie dei giocatori e nel nome dello stadio per oltre 110 milioni di euro. Polverizzando il precedente record stabilito guarda caso dall’Arsenal, che aveva fatto la stessa operazione.
L’appellativo di sceicco rimanda soprattutto alle campagne acquisti faraoniche (quasi 500 milioni di euro in meno di dieci anni), ma dietro c’è un investimento di marketing mirato ad innalzare anche l’appeal internazionale verso nuovi tifosi da tutto il mondo. Il centro sportivo, ribattezzato City Football Academy, è diventato un modello di eccellenza: i ragazzi si allenano assieme ai grandi a pochi passi dallo stadio. In poco tempo tutta la struttura è diventata una delle migliori al mondo con tre palestre, un ulteriore impianto da settemila posti e ben sedici campi d’allenamento. Uno dei quali ha la possibilità di regolare l’umidità e la temperatura al suo interno, in vista di eventuali trasferte “siberiane”. Un progetto costato 200 milioni di sterline, che fa il paio con la partnership siglata con Sap, l’azienda leader nel settore delle tecnologie che ora si occupa anche di studiare i dati degli allenamenti e delle prestazioni atletiche dei citizens. Ovviamente il tutto esteso all’intera galassia del City Football Group, una rete di club sotto l’egida del Manchester City che racchiude attualmente le squadre di New York, Melbourne, Yokohama e Montevideo.
Il City all’Old Trafford ha perso una sola volta dalla stagione 2011/12. L’annata in cui è tornato campione d’Inghilterra dopo 44 anni di astinenza. E l’anno prima, sempre con Mancini in panchina, il City tornò a mettere un trofeo in bacheca: quella Fa Cup fermò una carestia che durava dal 1976. Di colpo sparì l’espressione umiliante “tipicamente City”, che indicava le perenni disgrazie di quella metà di Manchester. Il titolo del 2012 sottratto proprio ai Diavoli Rossi arrivò con uno storico gol di Agüero e un coro ironico lanciato dopo quella campagna acquisti sancì che nella Greater Manchester la rivoluzione era completa: «This how it feels to be City, this how it feels to be small. You sign Phil Jones, we sign Kun Agüero». Il testo richiamava una canzone anni Novanta del gruppo inglese Inspiral Carpets.
Del resto la musica in tutti i dintorni del Lancashire è una delle componenti fondamentali, ben prima dell’epoca della Madchester, la cosiddetta scena musicale sviluppatasi in tutta la zona ormai trent’anni fa. All’Old Trafford il giorno dell’addio al calcio di una bandiera come Ryan Giggs fu sparato a tutto volume un brano degli Joy Division, band locale del distretto di Salford. Il titolo riadattato era Giggs Will Tear You Apart. L’alternativa degli altoparlanti dei rossi è This is the One, in omaggio al cantante-tifoso Ian Brown. L’altra metà della città è invece appannaggio di mancuniani doc come i fratelli Gallagher. Però è stato derby pure all’interno degli stessi Oasis visto che l’album d’esordio Definitely Maybe ha in copertina un ex City come Rodney Marsh (vicino al caminetto), ma anche un simbolo dei rivali come George Best. Pare per un compromesso con l’ex chitarrista Paul Arthurs, detto Bonehead. Lo stesso Noel Gallagher ha spinto per rifare il look al logo dai Light Blues, che ha debuttato questa stagione: «Dove si è mai vista un’aquila a Manchester?», si è chiesto Noel, invocando un passo indietro verso la tradizione. La forma è tornata circolare, il veliero ora simboleggia le tratte commerciali del passato e la rosa rossa è quella del Lancashire.
Nei giorni delle partite dello United viene presa d’assalto un’istituzione come il Trafford Pub, situato su Chester Road a pochi passi dallo stadio. Luogo di culto per i ritrovi pre partita, la sua insegna dorata spicca sul rosso acceso degli infissi. Già dall’esterno è possibile ascoltare alcuni dei cori più celebri che ripercorrono i successi e i miti del club. Immancabile anche la stoccata verso i cugini, accusati di tifare un club senza storia e senza anima. Con tanti soldi e uno stadio grande, ma senza l’atmosfera giusta, anzi strapieno solo per le occasioni che contano. Il coro è più o meno questo: «The city is yours, the city is yours… 20.000 empty seats, are you fucking sure!?». Nonostante lo sfottò, le manie di grandezza dello sceicco Mansour hanno portato a un rapido mutamento anche dell’Etihad Stadium, che nell’agosto 2015 ha battezzato la nuova tribuna da settemila posti del settore sud. Un ulteriore allargamento verrà avviato entro quest’anno e un terzo livello sorgerà nel settore nord, portando la capienza a 61 mila spettatori. Ormai tra i due club della Mancunian Republic è una sfida a chi fa meglio, a chi spende per far crescere sempre più non solo il proprio club ma tutta la comunità. Tanto che uno studio della Sheffield Hallam University e di Cambridge Econometrics ha illustrato come l’indotto calcistico generi per la città i benefici economici di un’Olimpiade senza spendere per organizzarla. Addirittura nel 2011, quando in Premier c’era anche il Bolton (club dell’omonimo distretto metropolitano), la regione beneficiò di 330 milioni di sterline.
Con le dovute proporzioni delle diverse epoche, l’impatto della ricchezza che circola ora a Manchester è comparabile con il salto di qualità generato a fine Settecento. L’avvento delle macchine a vapore e i canali presenti in città fecero la fortuna dei cotonifici (da qui l’appellativo di Cottonopoli) e la zona più caratteristica resta ancora quella di Castlefield, attraverso la quale il cotone giungeva agli stabilimenti tessili. I bassifondi industriali erano però fonte di sfruttamento e condizioni di lavoro disumane in un’area tipicamente insalubre, tanto che lo scrittore e umorista Mark Twain disse che avrebbe voluto vivere qui perché «il passaggio da Manchester alla morte sarebbe stato impercettibile». Non è un caso che sempre in questo centro Friedrich Engels scrisse l’infuocato saggio sulla condizione operaia, lanciando una relazione intellettuale con Karl Marx e il tema del capitalismo. Passeggiando per Manchester è facile incontrare ancora oggi il simbolo dell’ape, sposato dalla città perché rappresenta il lavoro e l’operosità che ne hanno tratteggiato le epoche passate. Gli stessi esagoni stilizzati sulla divisa ufficiale dello United richiamano il simbolo proletario di una realtà che ha vissuto una nuova rivoluzione.