La rincorsa di Aru

Cosa deve fare Fabio Aru, nelle difficili tappe che rimangono, per riuscire a battere Froome e Bardet e vincere il suo primo Tour?

Ha detto bene Beppe Martinelli, il direttore sportivo dell’Astana, con la solita saggezza di chi ne ha viste troppe: «Froome deve vincere il suo quarto Tour de France. Bardet è francese, e prima o poi un francese dovrà rivincerlo questo benedetto Tour. E Fabio, beh Fabio si è trovato in mezzo a questa storia». Dopo aver superato le fucilate di Foix, con gli avversari che lo attaccavano dappertutto, e aver perso la maglia gialla per colpa di un errore di posizione nella tappa di Rodez, con l’ultima settimana alle porte è lecito chiedersi: Aru può vincere davvero questo Tour de France? Ritrovarsi in mezzo a questa storia, come dice Martinelli, non è facile. Non è più un atto di coraggio. Quello Aru l’ha già esaurito andando a prendere la maglia gialla, rispondendo agli attacchi degli avversari e conservando quel briciolo di vantaggio dal secondo in classifica, l’inglese Froome, per almeno un paio di tappe. Poi la maglia l’ha dovuta cedere, ma nel grande disegno di questo Tour – disegno fatto apposta per Bardet – ci può stare. Ora, però, è una questione di improvvisazione.

Non ha più compagni, solo avversari. Fabio Aru è, in tutti i sensi possibili, un uomo solo all’inseguimento di un sogno. Con il ritiro del suo amico Cataldo e di Fuglsang (che meriterebbe un’ode a parte sulla cognizione del dolore), gli unici due davvero in grado di scortare Aru in salita, l’impresa di vincere questo Tour si è fatta ancora più ardua, persino più epica. Lui sorride, davanti alle telecamere non si scompone più di tanto. Dopo la tappa di Foix: «Sono contento. Un’altra tappa è andata. C’è stato molto stress, mi hanno attaccato tante volte, tutto il giorno, da tutte le parti. Ho pensato a mantenere la calma, la concentrazione». Dopo quella di Rodez: «Peccato aver perso la maglia. Dài, adesso guardiamo avanti». E ogni volta è sempre lo stesso disco. «Vediamo cosa succede domani». «Bene così, sono contento». «Parigi è più vicina». «Bella tappa». Aru è una maschera, è diverso dagli altri corridori di questo Tour de France. Qualcuno mostra sofferenza, altri un inguaribile senso di sollievo. Per qualcuno l’arrivo è la fine di un’agonia. Per Aru no, e questo destabilizza ancora di più un plotone che ancora non ha trovato un vero e proprio padrone: i vantaggi sono davvero esigui.

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Non si ricordava da anni (dal 1951 per essere precisi) una classifica così corta. E allora? Può essere la volta di Aru? Nel 2015, alla vigilia del suo secondo Giro d’Italia, lo intervistai per il Corriere dello Sport-Stadio. Aveva già fatto un podio l’anno prima (terzo), ma quel Giro lo avrebbe reso ancora più forte agli occhi dei fan, degli addetti ai lavori, degli avversari (tant’è che pochi mesi dopo avrebbe vinto la Vuelta). «Per vincere il Giro», mi disse, «ho fatto test di resistenza e migliorato l’aerodinamicità della posizione». È vero che nel ciclismo moderno tutti lavorano sui dettagli, ma per Fabio la meccanica del lavoro è una componente maniacale. Lui è uno che programma ogni cosa, e lo fa quasi ossessivamente, diligentemente. Nulla è lasciato al caso. Infatti ha migliorato in salita, a cronometro, e persino i risultati in volata sono cambiati. Pensare che all’inizio, mi raccontò una volta Olivano Locatelli, il direttore sportivo che lo portò alla Palazzago, Aru spaccava le biciclette perché non ci sapeva andare: «Il primo anno distrusse quattordici leve destre del cambio. Quattordici. Non so se mi spiego».

Questo genere di programmazione ha proiettato Aru in una dimensione autorevole, in cui il talento trova il giusto equilibrio con il lavoro. E se questo gli è servito sin qui per vincere una Vuelta e per impattare questo Tour de France con grande sicurezza, da adesso in poi servirà altro. Ora quel che serve è la fantasia, l’improvvisazione, il colpo di scena. A un certo punto Marco Pantani afferrava la bandana, la gettava sull’asfalto e partiva, lasciando di stucco tutti quanti. Lo stesso Vincenzo Nibali ha qualcosa del prestigiatore su due ruote: un colpo, e sparisce in salita. Ora Fabio deve uscire dagli schemi, sorprendere. È l’ultimo, grande passaggio nella metamorfosi di Aru: trovare il guizzo estemporaneo, poco programmatico, provare il colpo a effetto. «Mancano sei tappe, due abbastanza dure», ha detto. Croix de Fer, Galibier e Telegraphe mercoledì. Izoard giovedì. Terreni buoni per fare magie.

Le Tour de France 2017 - Stage Fifteen

 

Piccola analisi del Tour che resta

Dimitri Fofonov, uno dei direttori sportivi dell’Astana, dopo l’arrivo di Foix l’ha detto chiaramente: «Può darsi che noi lasciamo fare agli altri. Se l’Ag2r vuole vincere dovrà fare qualcosa». Anche perché le occasioni per Aru di attaccare saranno pochissime, da qui a Parigi. È un Tour molto strano, con pochi arrivi in salita e soprattutto con molte discese. E adesso che il corridore dell’Astana è rimasto pure solo, con una squadra ridotta all’osso e priva di compagni adatti a tirargli le volate, l’impresa di arrivare in giallo a Parigi appare ancora più complicata. L’Equipe, in un editoriale pubblicato sul sito ufficiale, ha ipotizzato «un’alleanza tra squadre», l’unico stratagemma per provare a resistere a quella che si annuncia una settimana di agguati e imboscate.

Gli ultimi tre giorni, poi, non sono adatti agli scalatori, e questo complica ulteriormente le cose. Dicono che questo Tour sia stato disegnato apposta per Bardet, «prima o poi un francese lo dovrà rivincere» come dice Martinelli. Se Fabio vuole vincere, fortuna a parte, dovrà attaccare nei punti giusti. E difendersi come ha fatto a Foix nel suo primo giorno in maglia gialla. Dopo l’ultimo giorno di riposo e una tappa mista, mercoledì il sardo avrà l’opportunità di attaccare.

La 17ª tappa, da La Mure a Serre Chevalier, è anche la penultima occasione per gli scalatori di guadagnare tempo in classifica. Non c’è un metro di piano. Si sale per la prima volta oltre i 2000 metri sulla Croix de Fer, si scala il Telegraphe e si torna in quota (2.642 metri) sul Galibier. Ovviamente finisce in discesa verso il traguardo, tutto a beneficio di Bardet. Servirà coraggio. Serviranno testa e gambe. Con un pizzico di fortuna, Aru potrebbe avere la chance giusta per tentare un attacco, o almeno restare incollato agli altri uomini di classifica.

Il giorno dopo, ultimo arrivo in salita della Grande Boucle sul leggendario Izoard: si torna oltre i 2000 metri e la seconda parte è davvero durissima. Pendenze feroci, difficile immaginare qualcosa di peggio. L’habitat giusto, insomma, per far germogliare la leggenda. Per prendere il largo bisognerà attaccare molto presto. E se a questo punto Aru avrà ancora la maglia gialla sulle spalle, e magari con un vantaggio di almeno un minuto su Froome, allora il sardo potrà pensare di affrontare la crono di sabato con più di qualche possibilità.