Il tempo inquieto di Ivan Perisic

Da Spalato a Milano, una carriera fatta di strappi e pause, come il suo modo di giocare.

Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione.
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere

La grande ossessione e, insieme, la grande ferita degli esseri umani è il tempo. Per millenni ci siamo sforzati di capirlo, controllarlo e plasmarlo. Abbiamo cercato e continuiamo a cercare la chiave per possederlo e comprenderlo, perché questo ci permetterebbe di mettere la mani sull’altra grande ossessione, l’altra grande ferita: la morte. Nel tentativo di comprenderlo, abbiamo organizzato il tempo in secondi, minuti, giorni e anni, guidati dall’illusione di poterlo rendere in tangibile, di poterlo portare al polso o inchiodarlo a un muro o tenerlo stretto tra le mani. Non soddisfatti del tutto da questi tentativi di oggettivazione del tempo, abbiamo immaginato delle forme: linee rette che corrono verso l’infinito, cerchi piatti o serpenti che si mordono la coda, spirali attorcigliate strette strette.

Per un calciatore, il tempo è la dimensione fondamentale per la carriera: stagione dopo stagione, campionato dopo campionato, maglia dopo maglia. Se volessimo fermarci e metterci a osservare la carriera di Ivan Perisic per comprenderne la forma, ci accorgeremmo che somiglia a una linea retta che procede per strappi e pause che le imprimono una spinta alternata verso il futuro. Vista così, la carriera di Perisic è, in qualche modo,  un riflesso del suo stile di gioco.

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Quando è un ragazzino, Perisic ha un soprannome: gli amici lo chiamano Koka (“pollaio”, in croato) perché Ivan dà una mano al padre nella fattoria poco fuori da Omis, una cittadina sulla costa. Quel soprannome non lo segue alle govanili dell’Hajduk Spalato, ma è una sorta di anticipazione di quello che sarà il primo strappo sulla linea del tempo della carriera. L’estate del 2006 sembra il momento del grande salto per Ivan. Nel precampionato in Slovenia ha impressionato mister Zoran Vulic, sui giornali si discute se possa essere l’erede della stella Niko Kranjcar o, addirittura, affiancarlo nell’undici titolare. Come da copione, si parla anche dell’interessamento di alcuni club europei. Nulla di straordinario, è la classica sceneggiatura per un ragazzino di talento. C’è poco da perdere: se le cose andranno bene, avranno prodotto un grande guadagno a fronte di un investimento piccolo; e se le cose andranno male, pazienza, si abbandonerà quello che si credeva fosse un crack per cercarne subito un altro. Nell’estate del 2006 Perisic ha 17 anni e quello di cui nessuno, né i dirigenti dell’Hajduk, né i giornalisti, sembra preoccuparsi è che Ivan non ha ancora firmato un contratto professionistico. Se ne accorgono i dirigenti del Sochaux, che mandano un jet privato a Spalato per prelevarlo. All’Hajduk non la prendono benissimo, ma Ivan si rifiuta di firmare il contratto: è già in Francia con sua madre e sua sorella. Alla fine i due club trovano un accordo che mette fine alla disputa: il Sochaux versa all’Hajduk 360.000 euro, una cifra inferiore rispetto a quella che i croati percepiranno nove anni dopo grazie al “solidarity fund scheme” (che premia il club in cui il calciatore è cresciuto) per il trasferimento dal Wolfsburg all’Inter.

Eccola la prima accelerazione nel tempo di Ivan Perisic. E la spiegazione razionale a questo strappo imprevedibile arriverà solo otto anni dopo, durante la Coppa del Mondo del 2014, dopo Camerun -Croazia e dopo quello che il Guardian ha definito «Perisic’s wonderfully Gareth Bale-esque goal».

In un’intervista alla Slobodna Dalmacija Ante Perisic, il padre di Ivan, racconta di essere stato la causa del trasferimento repentino al Sochaux: la fattoria di famiglia rischiava la bancarotta e a lui servivano soldi per rimettere in sesto le finanze familiari. «Lasciare l’Hajduk per il Sochaux era la cosa migliore: volevo che la mia famiglia stesse lontana dalla mia sofferenza», dice Ante, che, dopo il trasferimento del figlio, era rimasto a Omis per risollevare le sorti della fattoria.

Il problema è che in Francia Ivan non gioca. Così nell’inverno del 2009 va in prestito al Roeselare, un modesto club belga. Qualche mese dopo non supera un provino con l’Herta Berlino e viene acquistato dal Club Brugge. Altra accelerazione: nella stagione 2010/11 segna 22 gol e diventa capocannoniere della Jupiler League.

L’enigma su che giocatore sia Perisic sembra aver trovato una soluzione. In Belgio gioca prima da ala a piede invertito e da trequartista, poi da seconda punta. E presto arriva la terza accelerazione nel tempo della sua carriera: nell’estate del 2011 passa al Borussia Dortmund di Jürgen Klopp. Con i gialloneri vince subito la Bundesliga e la Coppa di Germania. Ma è discontinuo: Klopp lo schiera ala sinistra e gli affida anche compiti difensivi a cui Ivan non è troppo abituato. Nel 2012 le cose si complicano a causa dell’arrivo di Marco Reus. Klopp preferisce il tedesco e Perisic finisce tra le riserve con un atteggiamento drastico: «Ogni volta che sto in panchina, mi sembra di morire».

Ivan si lamenta dello scarso impiego con la stampa e Klopp non la prende bene: «Lagnarsi in pubblico è un comportamento infantile; se un calciatore professionista non gioca, dovrebbe stare zitto e allenarsi con impegno e intensità, non lamentarsi con i giornalisti». Inizia così la quarta accelerazione nel tempo della carriera di Perisic: durante la sessione invernale viene ceduto al Wolfsburg, dove trova una specie di mentore, Ivica Olic. Con il connazionale forma un tandem letale: continua a essere schierato a sinistra in un 4-2-3-1, ma i movimenti di una prima punta come Olic aprono spazi in cui Perisic può affondare e segnare i dieci gol della stagione 2013/14. Nella stagione successiva, l’arrivo di Bas Dost, un riferimento offensivo molto più statico rispetto a Olic, modifica il gioco di Perisic: e lui torna a essere più ala, crossa molto di più e segna la metà dei gol della stagione precedente.

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Nell’estate del 2015 arriva un’altra spinta in avanti per la carriera di Ivan Perisic: l’Inter lo acquista dal Wolfsburg per una cifra che si avvicina ai 20 milioni di euro. L’unico problema è che l’Inter in cui arriva il croato è bloccata nelle sabbie mobili della mediocrità post-triplete. È una squadra spaesata, tatticamente sballottata da un allenatore all’altro. Non la situazione in cui fare il salto di qualità, diciamo. Eppure nei due anni nerazzurri la crescita di Perisic è evidente. Il suo gioco si è arricchito di una certa attenzione alla fase difensiva (qualcosa che, forse, era mancato in Germania). Per sua stessa ammissione, in Bundesliga ha goduto di ampi spazi in cui il suo stile fatto di inserimenti, accelerazioni, tagli in profondità ha potuto esplodere ed essere devastante; è stato in Serie A che ha dovuto confrontarsi con un gioco più tattico che tende a chiudere gli spazi.

Il suo marchio di fabbrica, il doppio passo, si è ridotto a un’essenziale brutalità: non la morbidezza e la grazia di un Ronaldo (per rimanere a un precedente illustre in maglia nerazzurra) ma la forza e l’esplosività sostenute da una fisico che, stagione dopo stagione, si è irrobustito. In quelle frazioni di tempo che corrispondono a novanta minuti, Perisic sembra aver imparato a plasmare il tempo e piegarlo alla propria volontà. C’è un movimento, più di tutti, più delle accelerazioni sulla fascia e degli inserimenti in area di rigore, con cui il croato riesce in questa impresa. È una giocata apparentemente poco spettacolare, ma che testimonia una qualità innata, quasi istintuale, di Perisic. È quella che io chiamo la triangolazione fantasma: Ivan fa un velo e scatta e aggredisce lo spazio dettando subito il passaggio del compagno, che lo serve di prima.

In questo modo Perisic fa saltare un battito nel ritmo della partita, crea un’aritmia che produce, a sua volta, spazi e superiorità numerica. È uno strappo che sembra un riflesso di quegli strappi che hanno mandato avanti il tempo e la carriera di Perisic fino a questo momento. Che è un momento in cui il tempo sembra essersi fermato. Davanti, il bivio del mercato, da scegliere bene, per dare un’altra accelerazione.

 

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