La nuova vita di Matías Almeyda

Dalla depressione a una promettente carriera da allenatore in Sud America, dove, dal River al Chivas, ha sempre guadagnato stima e risultati.

Un leone sdraiato a terra, privo di forze e completamente passivo. Alla visione del disegno con cui veniva ritratto da sua figlia Sofía, Matías Jesús Almeyda inizia a trovare le forze per rinascere. Il leone era sprofondato nel buio della depressione: fermo su una poltrona, con il solo desiderio di chiudere gli occhi, arriva anche ad alzare un po’ troppo il gomito e, combinando l’alcol con gli antidepressivi, una sera deve intervenire l’ambulanza. Non è il primo e nemmeno l’ultimo ex calciatore che, di fronte all’inattività, fatica ad accettare la fine di un’epoca: «Smetti di giocare, smetti di sognare», ha spiegato Almeyda nella sua autobiografia del 2012. Il percorso terapeutico e la vicinanza della famiglia, uniti al ritorno al suo amato River Plate, lo aiutano a tornare quello di sempre, a ritrovare la grinta che lo contraddistingueva da calciatore.

Da pochi giorni è stato eletto miglior allenatore del campionato messicano, dopo essersi laureato campione nazionale con il Chivas Guadalajara e ponendo fine a un digiuno durato 11 anni: un’onta per uno dei club più titolati del Paese. Il presidente Jorge Vergara ha cambiato ben 16 allenatori prima di trovare quello giusto. E pensare che all’inizio l’arrivo di Almeyda sulla panchina del Sacro Gregge non viene salutato con tutto l’entusiasmo del caso: «I primi tempi furono difficili perché arrivò in città quando era ancora in carica José Manuel de la Torre, il tecnico che vinse il campionato nel 2006, e questo infastidì un po’ la tifoseria. In Messico non si conosceva molto dell’Almeyda allenatore, qualcuno lo riteneva privo della giusta esperienza», racconta César Huerta Salcedo, inviato a Guadalajara di As Mexico. Impiega poco tempo per guadagnarsi la fiducia. A settembre 2015 Almeyda eredita la squadra quando è al penultimo posto in classifica. A fine campionato ottiene un tranquillo tredicesimo posto e riporta un titolo nello stato di Jalisco: vince la Coppa Messicana d’Apertura superando il León sul suo campo per 1-0. Otto mesi dopo arriva il successo in Supercoppa, gara in cui batte 2-0 il Vera Cruz, vincitore della Coppa di Clausura.

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Sono i suoi metodi a conquistare l’ambiente e a galvanizzarlo. A spiegarlo è Diego Alejandro Reos, cronista sportivo di El Informador, quotidiano locale: «Con Almeyda in panchina il Chivas si è trasformato in una famiglia. Lui si preoccupa per i suoi calciatori, anche fuori dal campo: è il caso di Jesús “Chapo” Sanchez, calciatore molto criticato dalla tifoseria per le sue prestazioni, raramente titolare prima e che ora è diventato uno dei migliori laterali del campionato. La gente adora Matías e i suoi allenamenti a porte aperte: non è il classico tecnico con la lavagnetta in mano, ama dare l’esempio facendo gli esercizi con la squadra e dando una mano ai magazzinieri», spiega entusiasta. La politica del club impone che vengano tesserati unicamente calciatori messicani. A Matías Almeyda la cosa non crea particolari problemi: «Credo nei giocatori messicani più dei messicani stessi». Monitora con costanza quello che avviene nelle squadre giovanili, porta con sé una cartellina contenente la scheda di 24 giovani del vivaio che crede possano tornare utili al club nel futuro. La crescita sana prima di tutto. Oggi è un punto di riferimento per i suoi giocatori, anche e soprattutto in virtù degli errori commessi. Consiglia loro di spendere oculatamente i propri soldi: non macchine di lusso, meglio investire comprando una casa. «L’idea è quella di formare un essere umano, devo trasmettere loro l’idea di godersi il calcio perché solo così potranno giocare liberamente. Sto loro vicino e chi non studia con me non gioca», ha dichiarato Almeyda un mese fa a Marca.

Non si pensi però ad Almeyda come soltanto a un semplice educatore. Già ai tempi del Banfield, sua seconda avventura da allenatore dopo aver centrato la promozione in Primera con il River Plate, aveva fatto vedere cose interessanti: in quell’esperienza El Pelado fa giocare i suoi prendendo molto da Bielsa, schierandosi spesso con il 3-3-1-3, proponendo un calcio a forte intensità, difesa alta e immediato tentativo di riconquista della palla. Corre la stagione 2013/14, che si conclude con la vittoria del campionato di Primera Nacional B. L’Almeyda allenatore crede molto nella programmazione e nel lavoro quotidiano, ha fiducia illimitata nel dialogo per superare qualsiasi difficoltà ambientale o relativa al campo. Modelli da seguire non mancano, da ogni allenatore avuto in carriera dice di aver preso qualcosa, ma detesta l’idea di copiare: «Mi identifico solo con il gioco della mia squadra. Il problema nel calcio di oggi è che ci sono troppi imitatori e l’imitazione ha vita corta. Il calcio che si cerca di imporre la domenica è qualcosa che inizia dal precampionato, non credo nei cambiamenti nell’arco di tre giorni».

Il discorso prepartita prima della finale di Coppa del Messico 2017

Il Chivas, con il suo arrivo, cambia marcia e trova un’identità tattica all’insegna del bel gioco. Un 4-2-3-1 a trazione anteriore che esalta il senso del gol di Alan Pulido, terminale offensivo ben assistito da una batteria di trequartisti solitamente composta da Brizuela, Pizarro e Fierro, con Aguayo, “La Chofis” Lopez e Zaldívar come alternative. Il veterano Carlos Salcido è il leader difensivo, mentre in mezzo al campo spazio all’estro di Orbelín Pineda, inarrestabile con le sue percussioni palla al piede: «La squadra ha un suo stile ben definito, gioca un calcio molto offensivo. Almeyda ha lavorato con profitto sulla tecnica individuale di molti giocatori che ora sono parte integrante della Nazionale messicana», riporta César Huerta Salcedo. Un bilancio altamente positivo: in meno di due anni alla guida del Chivas, l’ex centrocampista di Lazio e Inter ha conquistato 4 trofei. Che sommati ai due campionati vinti in serie B argentina, fanno 6 titoli in 6 anni da allenatore.

Risultati e prestazioni che fanno di Almeyda il candidato numero uno alla successione di Osorio sulla panchina della Nazionale. Il tecnico colombiano ha ricevuto molte critiche per le ultime prestazioni del Messico, sconfitto in semifinale della Gold Cup dalla Jamaica, e per l’eccessivo uso del turnover. Il contratto di Almeyda scade nel 2021 ma prevede una particolare clausola per cui nel 2018, qualora arrivasse una chiamata da una Nazionale, potrebbe liberarsi. Lui non nasconde la volontà di spostarsi in Europa anche se, un mese fa ai microfoni della tv argentina TYC Sports ha rivelato: «Non andrei tanto per andarci, ho avuto la possibilità di allenare l’Alavés, ma credo debba presentarsi una buona opportunità, sportivamente parlando».

Edgar Davids of Holland and Matias Almeyda of Argentina

Nel 1998, in campo ai Mondiali con l’Argentina

Proprio negli ultimi tempi in cui gioca in Europa, la vita di Matías Almeyda inizia a conoscere una crisi profonda. Due gravi infortuni, quando ancora veste la maglia dell’Inter, lo tengono a lungo fuori dal terreno di gioco. In quella fase ha molto, forse troppo, tempo per pensare a come sarà il futuro. Iniziano i primi attacchi di panico. Annuncia il ritiro dal calcio giocato nel luglio 2005, quando lo aspettano al River per le visite mediche. Non ce la fa ad alzarsi dal letto, chiede scusa e non si presenta: «Ultimamente cambio idea molto spesso». Gioca una manciata di partite tra il 2007 e il 2009 con il Lyn, campionato norvegese, e il Feníx, quarta serie argentina. L’amato River però è nel suo destino: Enzo Francescoli si adopera per riportarlo a giocare a grandi livelli. All’età di 36 anni, nonostante tutto, El Pelado è ancora un atleta in condizioni fisiche eccellenti e lo dimostra fino al momento della drammatica retrocessione del River al termine del Clausura 2011, stagione in cui è capitano dei Millonarios.

Stavolta però lascia definitivamente e la società gli affida la guida della squadra per risalire subito nella serie A argentina. Missione che compie al termine di una lunga e stressante stagione, in cui da gennaio deve gestire la non semplice convivenza in attacco tra Cavenaghi, Chori Domínguez e Trezeguet. Almeyda resta in sella anche l’anno successivo, ma l’idillio dura fino a novembre 2012, quando viene esonerato e l’addio dal River è tutt’altro che dolce. Non mancheranno infatti le schermaglie a distanza con il suo successore Ramón Diaz. Ad aprile 2013 la possibilità Banfield, preso in serie B argentina e nel giro di un anno portato nella massima serie. Una vetrina: arrivano gli elogi di Gerardo Tata Martino, in quel momento allenatore della Nazionale argentina e reduce dalla stagione alla guida del Barcellona.

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Poi il Messico, dove Jorge Vergara, fondatore e proprietario della Omnilife (azienda attiva nella produzione degli integratori alimentari, esporta in 23 paesi e fattura quasi 4 miliardi di dollari) sta cercando un allenatore vincente. Matías Almeyda oggi è l’idolo indiscusso di un ambiente che ha saputo ricredersi: «Adesso i tifosi lo adorano. Una serie di ottimi risultati ha messo a tacere le iniziali perplessità. Il momento di massima esaltazione è stato il successo sul campo del Club America nell’agosto 2016, una vittoria per 3-0 contro i rivali storici che per anni avevano dominato il Chivas. Ecco, quella partita è l’esempio massimo di ciò che è diventato il club grazie ad Almeyda. Un vero e proprio saggio del gioco che ha dato alla squadra», è il ricordo di Diego Alejandro Reos. Il leone si è dunque rialzato. Carica agonistica e cura dei dettagli le virtù principali del Matías Almeyda allenatore. I suoi discorsi prepartita ne sono una testimonianza. Momenti diventati virali, come quando, prima della finale di coppa contro il Morelia, alla squadra chiede nell’ordine «sacrificio, umiltà, dedizione, convinzione massima» e conclude ricordando loro di «cantare l’inno con amor proprio insieme alla gente, di essere veri messicani e che i messicani possono farcela, cazzo». A chi gli chiede se sia un romantico del calcio, Matías risponde convinto: «Lo sono nella vita e alleno come vivo».