La Fargo del calcio

Storie di carriere un tempo promettenti ma finite malissimo, passate dal campo alla prigione.

Mille euro per ogni immigrato condotto oltre il confine. Vivo, ovviamente. Fabrice Lokembo-Lokaso accettò. Gli consegnarono le chiavi di un furgone al cui interno, in uno scompartimento segreto, erano ammassati dieci profughi afghani (due donne, quattro uomini e altrettanti bambini), lo mise in moto e si diresse fino all’imbarco del traghetto per Dover. Il carico di disperati che tentava di attraversare lo stretto della Manica proveniva dalla famigerata Giungla di Calais, baraccopoli nei pressi della città portuale e presenza fissa sulle pagine dei quotidiani transalpini per storie di stupri, sgomberi e violenze. Tutto inutile: la polizia fermò il furgone di Lokembo-Lokaso per un’ispezione, arrivarono le manette e una condanna a dieci mesi di carcere per traffico di migranti, nonché all’allontanamento dalla Francia per tre anni. L’ennesima vita ordinaria finita nel gorgo della cronaca nera, quasi fosse il soggetto di una nuova serie di Fargo. Criminali improvvisati, esistenze deragliate fino al punto di non ritorno.

Eppure Lokembo-Lokaso non era una tipo ordinario, anzi, avrebbe potuto diventare un riferimento per numerosi giovani. Origini congolesi, nazionalità belga, un talento calcistico non comune. Qualcuno ha detto Vincent Kompany? Affermazione corretta, ma prima del campione del Manchester City ci sarebbe potuto essere proprio Lokembo-Lokaso, che a 19 anni debuttava in Jupiler Pro League nel cuore della difesa dello Charleroi impressionando per forza fisica, capacità di lettura del gioco e rapidità. Un predestinato, non si fosse messo di mezzo il cuore. Aritmia cardiaca, non tale da costringerlo ad abbandonare l’attività (è noto come certe valutazioni mediche possono variare da società a società, o quantomeno da Paese a Paese), ma sufficiente per bloccare la parabola ascendente della sua carriera. Il resto è venuto da sé, con l’ingresso nella tipologia del talento maudit più sregolatezza che genio, tra notti brave, droga e lavori comuni (cameriere e autista, nel suo caso) per coprire i buchi lasciati da deficitarie gestioni delle proprie finanze. Le solite storie, sentite in ogni salsa. Questa è però scesa ancora più in basso durante l’ispezione del 27 luglio 2016, con il mare davanti a sé e nessuna possibilità di retromarcia.

TO GO WITH AFP STORY BY KATERINA VOUSSOU

Han sur-Lesse è un villaggio nelle Ardenne che ospita una delle più grandi attrazioni turistiche di tutto il Belgio, le Grotte di Han, spettacolo naturale capace di attrarre una media di mezzo milione di visitatori l’anno. Una notte del 2008 un gruppo di rapinatori entrò nel complesso speleologico e si volatilizzò con l’incasso. Non fecero tanta strada. Tra gli arrestati ci fu anche l’ex nazionale Gilbert Bodart, portiere noto anche in Italia per i suoi trascorsi con Brescia e Ravenna. Dopo il flop della sua carriera come allenatore, Bodart aveva trovato un impiego proprio alle Grotte di Han. Non aveva partecipato direttamente alla rapina, ma era la gola profonda dell’operazione. Il risultato fu una condanna a 42 mesi di prigione. Quella stessa galera che aveva evitato anni prima nello scandalo La Louvière, il club vallone finito sotto il controllo della mafia cinese e, secondo quanto emerso nel corso dell’indagine, «noto nel sud-est asiatico tanto quanto Manchester United, Real Madrid e Barcellona». Bodart, dopo essere stato licenziato dall’Ostenda poiché fortemente sospettato di scommettere sui risultati della propria squadra, aveva trovato una panchina proprio a La Louvière nella famigerata stagione 2004/05, quando era esploso il bubbone. Ma era riuscito a farla franca, non ammettendo il proprio coinvolgimento nelle combine ma solo la sua dipendenza dalle scommesse, che lo portava a lasciare gli allenamenti prima del tempo per correre in agenzia a controllare gli ultimi risultati.

Un tossico all’ultimo stadio. Così si è definito Bodart in una sua recente biografia, parlando di una dipendenza del gioco contratta ai tempi in cui giocava nel Bordeaux, quando assieme a Jean-Pierre Papin e all’allenatore Rolland Courbis trascorreva più tempo al casinò che sui campi da gioco. Giura che dopo la galera si è ripulito, ma in Belgio dicono che è l’unico a crederci. «Esistono sempre due verità nelle storie di un mitomane come Bodart», racconta Pierre Danvoye del settimanale Voetbalmagazine. L’ultima operazione, in attesa di trovare una panchina che manca ormai da diversi anni (ma sulla sua pagina Fb Bodart insiste nel definirsi un “allenatore di calcio”), è l’apertura di una scuola calcio per portieri, con il nostro nel ruolo di responsabile tecnico del progetto e supervisore. Il partner in affari è Alan Gerard, 34enne con alle spalle già dieci anni di galera, cacciato dall’Anderlecht per aver rubato e pubblicato gli sms del difensore Olivier Deschacht. Li ha intervistati Benjamin Marechal del programma tv Ah, c’est vous!: «Hanno parlato cinque minuti del progetto sportivo e un’ora delle potenzialità economiche. Cercavano investitori, non giovani talent da formare. Gerard si è presentato con il braccialetto elettronico della libertà vigilata, Bodart mi ha proibito domande sulla sua vita privata». Proprio quella che, stando alla citata biografia, lo aveva trasformato, dopo l’incontro con l’agente di polizia Virginie Neuray e la nascita di un bambino. È finita con una separazione che parla di violenza domestica, minacce, montagne di denaro scialacquate nelle scommesse, un prestito dietro l’altro, traffici poco puliti. Il lupo sembra proprio perdere il pelo ma non il vizio.

TO GO WITH AFP STORY BY KATERINA VOUSSOU

In un parcheggio di Breda, una sera d’autunno del 1998, l’olandese Glenn Helder si infilò una pistola in bocca e decise di farla finita. Ma non premette il grilletto, nonostante la montagna di debiti accumulata e una febbre da gioco definita compulsiva. La carriera ormai era a rotoli, l’Arsenal un ricordo lontano e sbiadito, eppure la caduta era solo all’inizio. Poco meno di dieci anni dopo, una perizia dell’ospedale psichiatrico di Haarlem avrebbe parlato di «forti disturbi da personalità narcisistica con tendenze borderline». Si era nel corso di un processo che si sarebbe concluso con la condanna di Helder a 373 giorni di galera per furto, possesso di armi da fuoco, minacce, maltrattamenti e stalking nei confronti dell’ex fidanzata e del suo compagno. I tavoli da gioco, vizio condiviso con molti colleghi, nel suo caso rappresentavano solo una piccola parte del problema. Mai del tutto risolto, viste le comparsate fatte anche in televisione in tornei di poker come quelli mandati in onda dall’emittente inglese British Five. Nonostante la sua esperienza all’Arsenal fu un totale flop, i tifosi dei Gunners non lo hanno mai dimenticato, in quanto fu uno degli acquisti più illogici nella storia del club. Lo prelevò dal Vitesse George Graham una settimana prima di essere esonerato, e lo stupore del popolo di Highbury derivò dal fatto che Helder rappresentava l’antitesi del giocatore-tipo di Graham. Capelli alla Lionel Ritchie, quando il tecnico odiava quelli appena sulle spalle di Charlie George, indisciplina tattica, atteggiamenti costantemente sopra le righe. «A one-trick shuffle pony», lo derubricò Tony Adams, e molti pensarono fosse solo invidia perché l’olandese guadagnava più di lui. Più che un giudizio fu una profezia, e quando a Londra sbarcarono i connazionali Dennis Bergkamp e Marc Overmars, a Helder rimasero solo le carte e ritmi di gioco che, una volta tornato agli stipendi olandesi (o cinesi o ungheresi, le successive tappe della sua carriera), diventarono sempre più incompatibili con le entrate. «In quel momento la mia testa ha fatto crack», ha raccontato nel 2014 nella sua biografia, «e, una volta rotto il vaso, puoi solo tentare rimettere a posto i cocci in qualche modo, non restituirgli la forma originaria».

The Olympic Park 9 Months After the Rio 2016 Olympics

Pete Storey era ancora un calciatore quando nel 1975 acquistò per cinquemila sterline il pub Jolly Farmers. Voleva compensare la differenza di stipendio con il neo-arrivato Alan Ball, che proprio in virtù del compenso più alto rispetto ai compagni finì con il mandare in frantumi lo spogliatoio dell’Arsenal campione. Di quella squadra Storey era il buttafuori, l’elemento con licenza di uccidere. Erano anni di calcio brutale in Inghilterra, e il diretto interessato ammette che nel mondo del pallone odierno non rimarrebbe in campo per più di cinque minuti. Arrivò a 501 presenze con i Gunners, più 19 nella Nazionale inglese, prima che il Jolly Farmers lo inghiottì nel lato buio della strada. Le basi della rovina le gettò un mix letale tra drinking culture inglese, un pub di proprietà e ultimi sgoccioli di carriera spesi nel Fulham assieme a George Best. Nel corso dell’ennesima serata ad alto tasso alcolico due suoi amici, i fratelli Barry, chiesero a Storey un prestito di duemila sterline per iniziare un piccolo business. Volevano produrre half sovereigns, monetine di vecchio conio molto ricercate dai collezionisti. La risposta fu positiva. Nel settembre del 1978 un tale chiamato Charlie Black gli consegnò del metallo e uno stampo «da conservare in un luogo sicuro». Black in realtà era un poliziotto sotto coperture, e Storey fu arrestato con l’accusa di essere il finanziatore di una banda di falsificatori. In attesa del processo, l’ex Gunner era a un passo dalla bancarotta. Decise quindi di buttarsi nel ramo della prostituzione, affittando un piccolo appartamento alle signorine Camilla e Lulu. Lo beccarono dopo pochi mesi, non prima di aver scoperto attività illegali anche nel suo business di taxi, dove due veicoli risultarono essere una Mercedes e una Bmw rubate tempo prima e rimesse in circolazione con targa nuova e colore diverso. Negli anni Novanta, infine, un altro arresto, per importazione illegale di materiale pornografico. Il computo totale furono 25 mesi di galera e una fedina penale più lunga dei trofei messi in bacheca con l’Arsenal. Per gli amanti delle autobiografie-verità modello dico-tutto, True Storey: My Life and Crimes as a Football Hatchet Man è imperdibile.

 

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