La rincorsa di Jordan Morris

Jordan Morris è una delle figure emergenti del calcio americano, ma la sua è soprattutto una storia di grande abnegazione.

Due fiamme si alzano verso il cielo, sputate dai pali di sostegno della porta avversaria. A Seattle i gol li festeggiano così. Jordan Morris, talento locale, ha appena segnato. Prima della partita, un rapido controllo del livello di glucosio del sangue. Durante, qualche orsetto gommoso per alzarlo un po’. Poi uno scatto, qualche contrasto vinto, un bolide scagliato con l’esterno del piede. La matricola dell’anno nel campionato 2016, quello in cui i Sounders si sono laureati campioni Mls, il giovane uomo che solo qualche giorno fa ha realizzato il gol decisivo per far vincere agli Stati Uniti l’ennesima Gold Cup, soffre di diabete mellito di tipo 1. Ma questo è solo uno dei motivi che lo rendono un giocatore speciale.

Il meglio della scorsa stagione di Jordan Morris, la prima in Mls

Seattleite

Al Viretta Park di Seattle c’è una panchina. O meglio, tante panchine, come in tutti i parchi. Una in particolare, però. È diventata una sorta di monumento alla memoria di Kurt Cobain. È coperta da graffiti con dediche e citazioni delle canzoni dei Nirvana, da plettri appiccicati con la gomma da masticare. Si racconta che il frontman dello storico gruppo grunge si sedesse lì, ogni giorno, per riflettere, puntando lo sguardo verso Lake Washington. Due chilometri più in là, sull’altra sponda del lago, sorge Mercer Island, abitata da 25mila persone. Qui, nel 1994, stesso anno in cui Cobain decise di farla finita, Jordan Morris vide la luce.

Il legame con la città smeraldo è sempre stato molto forte per Morris. Il suo verde, il suo clima piovoso, ma soprattutto le sue squadre, di ogni sport. Nel 2003 i Seahawks sfidarono i Green Bay Packers nel wild card round, il primo turno dei playoff di football. La partita andò ai supplementari: il lancio del quarterback di Seattle Matt Hasselbeck venne intercettato da Al Harris, che andò a firmare il touchdown della vittoria. «Piansi. Sul serio, piansi. Piansi, come solo un bambino di 9 anni a cui Matt Hasselbeck aveva spezzato il cuore poteva piangere», ha ricordato. Il padre irruppe nella stanza per rassicurarlo: «Jordan! Jordan! Va tutto bene. Lo so che il diabete è duro, ma insieme ce la faremo». La malattia gli era stata diagnosticata un paio di settimane prima. «No, papà, i Seahawks sono stati eliminati!».

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T1D

Seguendo l’esempio del fratello maggiore, Morris preferisce il calcio agli altri sport. Il suo nome in città inizia a circolare presto. «L’unica cosa brutta era dover controllare il livello di zucchero nel sangue ogni due ore. Dover andare a bordocampo per farmi pungere il dito non era divertente. Era difficile, fisicamente, giocare con il diabete di tipo 1. Ero solito esaurire le energie prima di chiunque altro e sentirmi stordito dopo lunghi scatti. Ma anche mentalmente era una sfida. Sarò ostacolato da tutto ciò? Sarò capace di correre così quando sarò più grande? Potrò giocare a calcio per sempre?».

Crescendo, i dubbi lasciano spazio all’ottimismo. Cerca ispirazione in altri atleti riusciti ad affermarsi ai massimi livelli malgrado il diabete, come il quarterback Nfl Jay Cutler e l’ex-Nba Adam Morrison, e sviluppa una routine giornaliera che gli consente di vivere in tranquillità. Ogni mattina controlla il valore della concentrazione del glucosio nel sangue: se è troppo alto, indossa un microinfusore per la somministrazione di insulina; se è troppo basso, mette nel borsone degli snack alla frutta. Poi si va in campo e lì Jordan è un giocatore come tutti gli altri, il più delle volte anche migliore. Nessuno si accorgerebbe di niente, se non fosse per il tatuaggio che ha sull’avambraccio destro: il Caduceo sormontato dalla scritta “T1D”. Lo aveva sempre infastidito l’idea di dover indossare un braccialetto con una scritta per informare della malattia i soccorritori, in caso di emergenza. È stata la madre ad avere l’idea del tatuaggio: «Mi auguro possa essere uno strumento per ispirare i giovani e fargli capire che possono ottenere tutto quello che vogliono».

Vita da college

Per raggiungere il suo obiettivo, Morris non sceglie la strada più diretta. Durante l’ultimo anno di liceo entra nell’academy dei Seattle Sounders, con i quali avrebbe la possibilità di aggregarsi alla prima squadra. Lui, però, vuole frequentare il college: Stanford, uno degli istituiti più prestigiosi della nazione, lo stesso frequentato dai due fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Un giorno al campus arriva l’USMNT, la Nazionale degli Stati Uniti, che sta preparando i Mondiali del 2014. Il ct Jürgen Klinsmann invita i ragazzi di Stanford a giocare un’amichevole contro i suoi. Gli studenti si difendono in dieci e lasciano Morris isolato in attacco, pronto a scattare in contropiede. Qualora ce ne fosse stato uno. Gli Usa segnano subito, ma poi l’occasione arriva: Morris viene servito in profondità da un filtrante, supera due difensori e deposita alle spalle di Nick Rimando. Quei due difensori non sarebbero stati convocati ai Mondiali, Jordan Morris invece, qualche mese dopo, è già nel giro della Nazionale. E il 15 aprile 2015, in un’amichevole contro gli arcirivali del Messico, trova la prima rete. Erano passati 23 anni dall’ultimo gol segnato in Nazionale da un giocatore ancora al college.

Al termine del match non può ricevere il premio di “Uomo Partita Budweiser”, perché non ha ancora compiuto 21 anni, l’età minima per bere birra negli Stati Uniti

Per molti quello è il segnale che Morris dovrebbe lasciare Stanford per una squadra professionistica. C’era il rischio che il suo talento andasse sprecato in un sistema piuttosto disfunzionale per chi crede sul serio di poter diventare un calciatore. Le regole dalla Ncaa, infatti, impongono agli allenatori un limite di 20 ore alla settimana con le loro squadre durante la stagione e solo 8 ore nell’offseason. In più, il calcio nei college Usa è uno sport stagionale: è tutto concentrato in tre mesi, spesso con meno di 48 ore di riposo tra una partita e l’altra. Come conseguenza, persino le regole sono diverse: le sostituzioni sono illimitate, generando partite dai ritmi frenetici, prive delle pause che sono parte coessenziale del calcio vero.

Ma lui ha sempre rispedito i consigli al mittente. «Questa è un’esperienza che non tornerà più. Vado a scuola. Vivo con i miei migliori amici. Condivido lo spogliatoio con ragazzi che chiamo fratelli. In una squadra professionistica probabilmente non avrei tutto ciò. Dovrei competere per un ruolo, per un contratto, per tutto». E anche oggi Morris rifarebbe tutto da capo: «Stavo diventando di più di un calciatore a Stanford. Stavo scoprendo chi fossi e quello che sarei voluto essere. Ero ancora giovane, volevo solo essere un ragazzo del college un po’ più a lungo».

Casa

Con un’altra scelta, Jordan Morris ha fatto nuovamente storcere il naso a qualcuno. Nel gennaio del 2016, al termine del suo terzo anno di college, coronato dalla vittoria del campionato nazionale, viene invitato ad allenarsi con il Werder Brema per un camp invernale. Due settimane dopo gli propongono un contratto e l’amministratore delegato del club Thomas Eichin si dice fiducioso del buon esito della trattativa. Ma Morris al verde dei tedeschi preferisce quello di Seattle. «Quando sono stato in Germania ero davvero indeciso. Il mio cuore era a Seattle, ma non volevo guardarmi indietro e pensare di aver perso un’occasione». Anche perché Klinsmann era stato chiaro sin dall’inizio del suo mandato di ct: chi giocava in campionati più competitivi di quello americano avrebbe avuto maggiori possibilità di essere convocato rispetto ai calciatori Mls. «Tuttavia mi mancava casa. Ero a Brema solo da due settimane e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era Seattle. I Seahawks erano ai playoff e io volevo solo stare con le persone che amo in città. La mia città, la mia casa». Essendo un homegrown player, un giocatore cresciuto nel vivaio, può essere acquistato dai Sounders senza passare dal draft.

La prima stagione è da sogno. Al CenturyLink Field, lo stesso stadio dei suoi amati Seahwaks, e con il padre – capo dello staff medico dei Sounders –  a bordocampo, trova la sua prima rete in Mls alla sesta apparizione. Un tocco con l’esterno del destro, dopo uno scatto sul filo del fuorigioco, da una posizione in cui sarebbe stato più naturale calciare col mancino. Su Twitter lo prendono spesso in giro perché non usa mai il sinistro. Lui fa fatica a non offendersi. «Ho il metatarso varo (una malformazione congenita in cui il piede è deviato verso l’interno)», spiega. «Quindi per me è più naturale calciare con l’esterno del piede destro». Ci sta lavorando, comunque. Così come sta lavorando sui movimenti offensivi, anche seguendo le partite in tv: «Cerco di guardare i calciatori che giocano nel mio ruolo, per capire come fanno a smarcarsi. Voglio diventare un finalizzatore migliore».

Il primo gol in Mls

Non è un giocatore elegante Morris, anzi, piuttosto sgraziato. Ma è velocissimo, ha tanta forza per fare a sportellate con gli avversari e un grande spirito di sacrificio. Viene schierato in ogni posizione del fronte d’attacco, da una fascia all’altra, passando per il centro. La sua rookie season si chiude con 14 reti e la sua maglia diventa una delle più vendute di tutta la lega. Grazie all’innesto estivo di Nicolás Lodeiro, il suo assistman preferito, i Sounders non accusano troppo l’assenza, a causa di un’aritmia cardiaca, del monumento nazionale Clint Dempsey e vanno a vincere la prima Mls Cup della loro storia, ai rigori contro il Toronto Fc di Sebastian Giovinco.

Il peso dell’etichetta

Il campionato in corso, invece, non inizia in maniera altrettanto esaltante. Da gennaio a giugno segna solo due volte. E i critici, che hanno iniziato a scrutinare ogni sua mossa sin da quel gol in amichevole al Messico, tornano a farsi sentire. Negli Stati Uniti, se sei un calciatore con un talento superiore alla media nazionale, gestire la pressione può non essere facile. Il movimento calcistico a stelle e strisce negli ultimi anni è cresciuto molto, investendo su infrastrutture, settori giovanili e comunicazione, ma per fare l’ultimo passo tutti aspettano l’apparizione di una stella globale made in Usa. L’etichetta di “next big thing” è finita più e più volte su spalle non abbastanza larghe per sostenerla, facendo più danni della grandine, come nel caso di Freddy Adu, “nuovo Pelé” già a 14 anni e ora, a 28, ritrovatosi a fare provini per squadre neopromosse nella massima serie polacca. Un’etichetta che anche Morris vorrebbe evitare. Lo leggi negli occhi smarriti e la voce un po’ tremante con cui dice: «Ci sono un sacco… un sacco di aspettative».

A luglio, dopo essere stato ignorato da Klinsmann per la Copa América Centenario dell’estate precedente, Morris viene convocato dal nuovo ct Bruce Arena (già sulla panchina della nazionale dal 1998 al 2006) per la Gold Cup, il torneo del subcontinente centroamericano. Nel facile cammino verso la finale, Morris segna due volte nel girone eliminatorio. L’ultimo ostacolo è la Jamaica. Dopo il gol su punizione di Jozy Altidore, i Raggae Boyz pareggiano su calcio d’angolo. La colpa è tutta di Morris, che perde con enorme ingenuità la marcatura di Je-Vaughn Watson. «Potevi vedere la delusione sul suo volto. Glielo leggevi in faccia. Era arrabbiato. Era scioccato», ha detto il portiere americano Tim Howard a fine partita. Ma a due minuti dal termine, in seguito a un cross di Gyasi Zardes respinto a fatica dalla difesa jamaicana, il pallone arriva proprio nei pressi di Morris. Due passettini per preparare il destro. Frustata che piega le mani del portiere. Gol. Partita. Coppa. Redenzione istantanea.

«Vincere un trofeo con la Nazionale è meraviglioso. Qualcosa che non ho mai pensato mi sarebbe accaduto quando ero un bambino. Sì, hai dei sogni, ma quando si realizzano è incredibile».