I was born in Lazio

Qual è il senso di essere laziale oggi? Una questione di intimità, epica, tragedia, in cui Roma c'entra, ma fino a un certo punto.

Di cosa parliamo quando parliamo di Lazio? E soprattutto, qualcuno ha voglia di stare a sentire una storia di Lazio? Dopo lunga militanza e rughe sul viso di ruggente disincanto ho capito che conosciuto un laziale ti restano da conoscere tutti gli altri. A tratti può essere un’avventura potente, a volte una fatica enorme. Quindi quella che segue può essere solo la mia versione dei fatti e dei sogni.

Stadio

Non riesco a immaginare la Lazio senza associarla allo stadio, non in senso canonico dell’ultras ma del seggiolino, qualsiasi seggiolino dell’Olimpico pur di vedere la Lazio. La crisi degli spettatori del pallone l’ho vissuta in diretta dai primi posticipi “pay” fino al campionato spezzatino e al prosciugamento delle tribune. Chiunque vada ancora allo stadio è un eroe e un situazionista: accade ancora tutto lì, te la racconti da solo, senza telecamere. La Lazio l’ho vista in ogni settore, compresa la tribuna d’onore – era la partita della vergogna, a porte chiuse contro lo Stoccarda in Europa League –, la tribuna stampa – al derby due volte, mai più, sembra di stare dentro Call of Duty –, persino il settore ospiti, l’anno dello scudetto, partita col Torino, per solidarietà tardoadolescenziale ai granata. Insomma tra le cose più naturali della mia vita c’è andare a vedere allo stadio la Lazio, qualunque sia la formazione. Sono entrato a casa da abbonato, pagante, accreditato e persino da imbucato, quando si poteva accedere gratis negli ultimi venti minuti, l’era prima dei tornelli. Sono nato nel 1974, l’anno del primo scudetto laziale, il primo a Roma dal dopoguerra. Il primo biglietto risale al 1979, inevitabili vaghi ricordi – Freud non era mica della Lazio, laziali si diventa con lento apprendistato: il vecchio Olimpico delle Olimpiadi, un po’ spiaggiato, senza coperture, con le gradinate dure. Il primo abbonamento è del 1984 con fototessera, aquilotto dallo sguardo rapito e riccioloni. Il big bang della lazialità è stato l’anno prima, una partita contro il Catania decisiva per la promozione. Classico battesimo da folla e pathos, spirito di emergenza e adunata per la patria. La cojonella di “Undici anni di B”, che poi non sono consecutivi, hanno prodotto anticorpi che ti forgiano tipo rupe Tarpea. Quando chiesero a Dario Argento: «Le fanno piú paura i corridoi bui o la Lazio in Serie B?», il maestro rispose: «Sembra strano ma mi fanno ancora paura i corridoi bui».

Altro esempio. Quando Bielsa ci ha ripensato non sono rimasto deluso: anzi, un rifiuto mi eccita perché sono cresciuto con l’equazione che più la Lazio è in difficoltà più mi scaldo. Bielsa pensava di riempire di discorsi –  «non reclamate nulla, accettate l’ingiustizia» –  l’irrequieta piazza laziale che ha già la sua retorica. Pensava di pettinare con lezioni di insuccesso l’unica sponda romana che è riuscita a raccontare senza pudore il proprio purgatorio Un po’ come pretendere di raccontare il finale dei Sopranos a David Chase. Invece di fuggire dalle parole grasse, dal sangue denso della capitale, Bielsa voleva caricarsi Roma sulle spalle. Mentre per me, da laziale, se c’è un primato da rivendicare a Roma è quello della fuga dalla capitale. Tifare Lazio significa scegliere una maglia che per una volta a Roma non vuole rappresentare nessuno, soltanto se stessa. Ai pionieri che la fondarono nel 1900 non interessava Roma, interessava il pallone. Lotito con Tommaso Rocchi ha pescato il quinto bomber di sempre della Lazio: un veneziano, che ci ha tenuto a galla per nove anni. Se è vero che “Last Night a D.J. Saved My Life” come cantavano gli Indeep, a Rocchi che una domenica di ottobre del 2005 svetta su Chivu e infila di testa un pareggio al derby devo parecchio.

Casa

Parafrasando Nick Hornby, il bello del calcio è che ogni domenica si rinnova questo marasma e sentimento chiamato Lazio. Che non è più solo domenica ma era domenica l’ultimo derby di campionato. Cinque anni che la Lazio non vince. Si gioca in trasferta. Alla fine di un mattina nervosa in cerca di un biglietto in extremis, in giro frenetico per il continente Roma – «tu cerca a Corso Trieste che io provo alla Magliana» – riesco a varcare i tornelli in tempo. Una volta che entri hai fatto il tuo dovere, resta solo un’attesa da calibrare che poi non serve a nulla. Vai alla ricerca di un posto libero, da dove si veda un po’ meglio il campo. Non fai in tempo a gustartelo nuovo che ogni seggiolino diventa subito vissuto, maltrattato, sporco ma non importa, basta poco in questa città per sentirsi accolti, basta essere uno dei tanti. Per un caso che non esiste, per istinto naturale a posizionarsi, salgo verso la fila 52 dei distinti ovest dove con mio padre siamo stati abbonati dal gol di Di Canio dell’89 – con la Sud ridotta a un settore per via dei lavori per Italia ’90 – allo scudetto del 2000 con l’invasione di campo, senza mai saltare una partita. Me ne rendo conto da due facce che non vedevo da quasi vent’anni. Un ragazzo che ha ormai gli anni miei, e un signore dai capelli bianchi ma con la solita abbronzatura. Mio padre invece non c’è più. Se l’è portato via l’Alzheimer l’anno scorso, dopo sette anni di calvario. Un intero hard disk di Lazio, per non dire del conto più grande, bruciato anzitempo. E così quando la Lazio passa in vantaggio con Keita pensi che ci sono delle volte che afferri la vita con un mozzico e non vorresti mollarla più perché la senti intera, perché tutto sembra tornare a posto. Ma proprio quando ti senti nella condizione di non dover spiegare niente a nessuno, spunta qualcuno a chiederti i documenti.

Identità

Accade all’intervallo. La Lazio è stata raggiunta da un rigore inesistente di De Rossi, presagio negativo. Al bar dei distinti ovest, un accrocco di cemento dentro quella balena grigia dell’Olimpico, un tifoso inglese enorme, appoggiato al bancone, fissa la mia faccia tesa, appesa, in attesa di capire cosa dirà il secondo tempo a noi romantici mohicani che ancora mettiamo tutta l’esistenza sul piatto di un derby, almeno due volte l’anno. E mi sorride con denti minuscoli e una smorfia tipo ahi ahi ahi. Raccatto un minimo di gentilezza per non interrompere il karma e gli rispondo ahi ahi ahi. Poi si fa serio e mi chiede «you are from Rome?» e mentre il barista mi porge la birra non trovo niente altro da dire che «yes, I’m from Rome. My father was from Rome, my grandfather from Rome». Eccolo lì un pezzo della mia vita rimesso in discussione in un secondo come quando devi rispondere a un appello, ecco una delle combinazioni più pure della mia tavola periodica, “sì, questa è casa mia”, confidata a uno sconosciuto che sparisce dopo avermi dato una pacca sulle spalle. Quel derby alla fine lo abbiamo stravinto ma non è questo il punto. Per ognuno la Lazio è una cosa intima, privata. Spesso però il custode finisce per sentirsi più importante dei quadri che sorveglia. Lo stadio è un deterrente. Per questo è utile ribadire che – con o senza di noi – da qualche parte la Lazio è sempre in vantaggio. Il resto è una giostra: le partite si consumano, i ricordi si accumulano, si depositano in fondo, poi schizzano fuori per venire accantonati al prossimo giro. Devi includere anche includere le partite mai giocate, quelle ideali, quelle rigiocate con la mente, gli incontri che iniziano già con un rimpianto negli occhi, le folgorazioni che stregano gli anni a venire condizionandoli, le partite che potevano anzi dovevano portare altrove. Per esempio il rigore sbagliato da Floccari in un derby dove la Lazio era in vantaggio, quello dove Ranieri perdeva e aveva trovato il coraggio di far uscire Totti e De Rossi, è stato uno psicodramma, qualcuno ci ha lasciato persino la ragazza. Il palo di Cissé al derby sbloccato da Klose al 92° è considerato alla stregua di certi lati b in vinile, roba da puristi, un what if di lusso. Attenzione però ai big data. Ci sono case così cariche di significati che diventano musei. E in un museo ci sono sempre le guide, le cartine, le didascalie, le audiocuffie. Niente più è immediato.

Ortodossia

Nella mia Lazio convivono follia, melodramma, esistenzialismo, epica, libidine, meschinità, parecchia tragedia, cialtroneria, teppismo e cattiveria. È una Lazio fatta di romani sugli spalti e capitani di ventura in campo, trovi l’oro e i panni sporchi, e una città sconosciuta alla grande narrazione capitolina di questi anni, colpevole di esserci da sempre. C’è dentro la grande solitudine del tifoso laziale ma non c’è nessun pessimismo. Però tutti i laziali che conosco hanno in testa una Lazio diversa. A volte i pianeti della lazialità si allineano, a volte no. Su tutti c’è l’ortodossia laziale, una chiesa sempre sveglia, vigile, implacabile con i distratti come me: ci sono centodiciassette anni da custodire e ricordare, basta inginocchiarsi a una ricorrenza e parte subito un’epifania di parole d’ordine, che inizia dalla Lazio dei pionieri “nati nel 1900”, “i primi della capitale”, e arriva fino a oggi. Non importa che la bacheca laziale contenga soltanto due scudetti, una Coppa delle coppe, una Supercoppa europea, sei Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane (il 99% dei trofei è stato vinto a partire dal 1974), per l’ortodossia ovunque corra una maglia della Lazio vale la pena di archiviarla sulla seriosissima enciclopedia Lazio Wiki, insomma si gioca da sempre. C’è chi conosce tutte le stagioni, una per una. Con l’amico Piero Strabioni, che per hobby fa lo storico della Lazio (seimila copie con un libro sui pionieri della Lazio, numeri raffinati da piccola biblioteca Adelphi), si discute ancora dove siano i campetti delle sfide tra seminaristi irlandesi e i primi brandelli di Lazio, forse villa Spada? C’è così tanta storia che io stesso non sapevo che l’attaccante Amos Mariani, che segnò con la Lazio solo due gol ma vinse scudetti col Milan e segnò pure a Wembley con la Nazionale, fosse un mio lontano zio. L’ho scoperto per caso ma resto indifferente, perché sono arrivato a un punto in cui non sopporto molto il passato e la memoria. E Amos Mariani non l’ho mai visto giocare.

Stranieri

Da pischello mio nonno andava a vedere la Lazio quando la Roma non esisteva ancora, e già questo vale un romanzo da Strega (Albinati? Piperno? Trevi? Cordelli?). Sessant’anni dopo eravamo allo stadio insieme per Lazio-Vicenza 1987, ultima di Serie B, una partita per non scomparire definitivamente, per non finire come i Sumeri o Giorgio Caproni citati una volta l’anno per dovere. A otto minuti dalla fine il tiro della disperazione lo fece Gabriele Podavini nato a Gavardo in provincia di Brescia, una delle cose più lontane da Roma che possa esistere. Ad arpionare la palla in area ci pensò Giuliano Fiorini, bomber modenese di 29 anni portati male, sgraziato, dalla faccia vissuta e la sagoma da fine carriera. L’unico romano dell’impresa dei Meno Nove era Massimo Piscedda del Quadraro, primavera cresciuto nel mito dello scudetto del ’74. Per il resto tutti italiani, neanche uno straniero. L’intera storia moderna della Lazio, naufragata all’epoca nel ritorno sciagurato di Chinaglia presidente, se la caricò sulle spalle un’armata brancaleone che non sapeva neanche com’era fatto Tor di Quinto, lo storico campo di allenamento di Maestrelli. Questa è la libidine vera, altro che daje. La romanità è overrated.

Luce

La luce dell’Olimpico di metà pomeriggio è una delle cose più belle che abbia mai visto nella mia vita. C’è qualcosa di nitido in quel contrasto tra il verde lucido del prato e il biancoceleste delle maglie che si dannano per buttarla dentro, una nitidezza che può contenere disastri, delusioni, pazzie, rovesci, gioie e deliri. È quel quarto d’ora finale in cui tutto è possibile, e ognuno spinge con la voce e con lo sguardo la propria squadra. Sono pochi minuti, dove tutto è possibile, sono pieni di fastosità ma poi tutto si asciuga, perché la luce declina verso il tramonto e non importa se i minuti siano utili solo per un pareggio, è una sensazione di nitidezza piena, è quello che non si riesce mai a dire per bene e intanto si va verso i cancelli dello stadio. È un momento in cui qualsiasi siano i pensieri con cui sei entrato allo stadio, sei disposto a metterli tutti sul piatto, perché conta soltanto una cosa. Ed è uno dei pochi momenti in cui la luce della mia città catalizzata dalle maglie della Lazio mi risarcisce di un desiderio di essenzialità, anziché dissipare tutto in quella luce generosa di fine giornata, da Roma sbragona, fallita, che non trattiene nulla, che se hai un sentimento addosso subito ti sputtana rendendolo epocale, e che mi fa pensare sempre a un altro lontano zio che un giorno scappò con una ballerina, lasciando tutti con le pezze, in una città con le tasche bucate. E il “Core de Roma?” mi dirai tu. Ma quello della capitale è un ventre da cui voglio uscire, per questo mi sento a casa quando tifo Lazio.

 

Dal numero 17 di Undici