La Major League Soccer, la lega calcistica più importante degli Stati Uniti, si unisce alla protesta degli sportivi americani. Il numero uno della MLS, il Commissioner Don Garber, ha diffuso un memorandum in cui sottolinea l’appoggio totale fornito dalla sua lega in difesa della libertà di espressione di calciatori e atleti. «Noi da sempre incoraggiamo il pubblico e i giocatori in campo a stare in piedi durante l’inno ma rispettiamo le loro convinzioni, perché la libertà di parola e il diritto ad una protesta pacifica sono segni distintivi di Stati Uniti e Canada», ha scritto Don Garber. Alle sue parole si sono aggiunte quelle della MLS Player Union, l’organizzazione che tutela i diritti dei giocatori, che ha difeso la scelta di protestare da parte di atleti professionisti, spiegando: «È una delle loro libertà costituzionali, noi la appoggiamo nella speranza che possa servire ad incoraggiare una società più tollerante e meno divisa».
Fino ad oggi nessun calciatore in MLS si è rifiutato di stare in piedi durante l’inno che anticipa le partite. Ma le dichiarazioni del Commissioner e della MLS Player Union sono arrivate in risposta alle dichiarazioni al presidente Donald Trump, che venerdì scorso aveva suggerito ai proprietari delle franchigie di NFL (National Football League) di licenziare i giocatori che si inginocchiano durante l’inno.
I Dallas Cowboys si inginocchiano insieme al proprietario Jerry Jones
La protesta degli atleti americani è scoppiata un anno fa, quando il quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick si è inginocchiato durante l’inno che anticipava una gara di preseason. Il suo è un gesto di ribellione che ha segnato un momento delicato dello sport, e più in generale della società, statunitense. Kaepernick contestava le violenze subite dagli afroamericani dalla polizia negli States. Ad un anno di distanza dalla sua protesta silenziosa, il quarterback è di fatto un ex giocatore: nessuna squadra di NFL ha voluto offrirgli un contratto dopo quel gesto. Ma ha acceso i riflettori su un argomento molto delicato, nel quale il Presidente degli Stati Uniti ha deciso di entrare a gamba tesa. Nel discorso in cui ha suggerito il licenziamento dei giocatori, Donald Trump ha usato termini molto forti per riferirsi a loro, ha sottolineato l’espansione di un fenomeno che considera inaccettabile, e ha invitato i tifosi sugli spalti a disertare stadi e palazzetti se altri giocatori dovessero unirsi alla protesta. Dichiarazioni forti che hanno alzato la tensione, fino a creare un clima di ostilità probabilmente senza precedenti, tra gli atleti e la figura politicamente più importante del Paese
Nella discussione si sono inserite alcune delle personalità più rappresentative dello sport statunitense. Stephen Curry, playmaker due volte campione NBA ed ex MVP, inizialmente ha espresso il suo scetticismo sulla possibilità di andare in visita alla Casa Bianca (una formalità storica per la squadra che vince il titolo in NBA). Donald Trump ha risposto negando l’invito a Curry e ai suoi Golden State Warriors. Il playmaker non ha ancora commentato la decisione del Presidente, ma per lui lo hanno fatto il suo coach Steve Kerr – «Non viviamo in tempi normali, probabilmente è uno dei momenti più divisivi in cui ho vissuto, forse dai tempi della guerra in Vietnam» –, e LeBron James, che ha definito un onore essere invitati alla Casa Bianca «prima che arrivasse Trump».
Non poteva restare a guardare il baseball, che affianca il football e il basket nella trinità degli sport più importanti nel Paese. La MLB è rimasta quasi estranea alla protesta fino a sabato 23 settembre, quando Bruce Maxwell degli Oakland Athletics si è inginocchiato durante l’inno americano, alimentando la protesta iniziata da Colin Kaepernick.