Il sistema giovanile della Premier League ha un problema

La quasi totalità dei calciatori delle academy non diventa professionista, e i disturbi psicologici sono frequenti e preoccupanti.

La formazione di giovani calciatori, in Inghilterra e nel resto d’Europa, sta diventando un tema centrale, in particolare se legato alla questione del percorso di vita che attende i ragazzi una volta usciti dal ciclo delle academy. Non tutti diventano professionisti, non tutti entrano in quel mondo di sterline a pioggia e lusso sfrenato; molti si trovano a doversi reinventare senza un obiettivo preciso. Un vecchio articolo della Bbc ci aiuta a capire quanto sia cambiato in questi anni il livello di guadagno di un giovane proveniente dalle academy di un club di Premier e, inevitabilmente, lo status acquisito da quest’ultimo nella società. In una decade siamo passati dai 24.500 pound per un ragazzo di 17 o 18 anni di età, alla stessa cifra raggiungibile in poco meno di una settimana. Parliamo di giocatori – teenager – che hanno per la maggior parte apparizioni come sostituti ma che possono permettersi ampi lussi già da giovanissimi. Sembra un discorso retorico, ma aiuta a ragionare su quanto, oggi, un adolescente vicino al mondo del calcio possa sentirsi legato a un mondo aspirazionale fatto di sogni che da velati si fanno via via più concreti.

Naturalmente, non c’è un aspetto eminentemente negativo nel fatto che il calcio stia massimizzando i profitti, producendo a cascata un guadagno per ogni ingranaggio del contesto. L’esplosione avuta dalla Premier League in termini di introiti e fatturato è certamente un altro motivo che rende palese il perché della velocizzazione nella crescita degli stipendi. Se non c’è alcun problema con dei buoni calciatori che guadagnano dei buoni stipendi, il problema si pone quando calciatori mediocri cominciano a guadagnare molti soldi. La questione non è di principio, e non va affrontata con una lente moralista – il valore della fatica, la facilità di guadagno, e così via. Il problema reale è rappresentato, piuttosto, dal fatto che molti di questi ragazzi faticano a lavorare sulle proprie “life skills”. In senso più ampio: il problema riguarda ciò che accade ai ragazzi che escono dalle academy, quando non diventano professionisti.

SUNDERLAND, ENGLAND - MAY 07: Ball boys are seen inside the stadium during the Barclays Premier League match between Sunderland and Chelsea at The Stadium of Light on May 7, 2016 in Sunderland, England. (Photo by Ian MacNicol/Getty images)

In una recente inchiesta, il Guardian analizzava quello che è il processo di crescita e caduta di alcuni di quei ragazzi che, una volta entrati nel sistema giovanile inglese, ne escono dalla porta sul retro. Ovviamente, mentre molti accarezzano l’idea di far parte di un mondo dorato, in cui vivere alla grande anche solo dopo un paio di presenze in prima squadra, sono pochi quelli che potranno continuare a vivere secondo quel tenore. David Conn, nell’articolo, ha mostrato come, a dispetto dell’attenzione che la Football Association pone nel seguire i ragazzi dopo i quattro anni dal rilascio dalle giovanili di riferimento, molti di questi si trovino a soffrire di problemi psicologici nei primi 21 giorni dalla data di addio. Uno studio della Teesside University, risalente al 2015, dimostra che la percentuale sarebbe molto vicina al 55% dei ragazzi presi in esame. Parliamo di giovani che nell’età di formazione cominciano a proiettare loro stessi in una “identità da atleta”, con tre o quattro allenamenti alla settimana, molti dei quali senza una reale idea di futuro alternativo. Nonostante venga incentivato lo sviluppo di un’educazione per i ragazzi che partecipano alle academy inglesi – alcuni dei quali spinti verso un BTEC sports diploma –, lo sviluppo “olistico” paventato e sponsorizzato dalla Federcalcio inglese non sembra funzionare sempre al meglio.

Soprattutto, da uno studio preso in analisi, con un campione che comprende 15 club di Premier League e 9 di Championship, dei ragazzi che riescono a rientrare nell’elite scholarship programme intorno ai 16 anni, soltanto 1 su 6 è ancora un calciatore professionista all’età di 21. Alcuni dei fuoriusciti dalle academy continuano un percorso parallelo al mondo del calcio, magari come procuratori o fisioterapisti, altri continuano invece con studi universitari. Ma c’è una fetta dell’iceberg, forse nascosta, subacquea, che non arriva a compiere nessuno dei percorsi citati. Secondo uno studio di Chris Platts, dottorando dell’Università di Chester e autore di una serie di questionari e interviste a 303 atleti tra i 17 e i 18 anni, provenienti da 21 diverse accademie, sarebbero soltanto 4 i ragazzi che si sono ritrovati in seguito con un contratto da professionista. Il tasso di abbandono è molto vicino al 99 per cento.

BIRMINGHAM, ENGLAND - DECEMBER 28: Children play football outside the stadium ahead of the Barclays Premier League match between Aston Villa and Swansea City at Villa Park on December 28, 2013 in Birmingham, England. (Photo by Richard Heathcote/Getty Images)

Nel 99 per cento di quelli che non ce la fanno c’era anche Alex Stephens, ex calciatore proveniente da Willesden, a nord di Londra, morto a 21 anni in un incidente durante una vacanza con gli amici a Barcellona. Sua madre, Faye Stephens, sostiene che il figlio sia scomparso proprio nel momento in cui «aveva ricominciato a trovare la felicità perduta dopo l’addio al Norwich City a 18 anni». Alex aveva sviluppato problemi di ansia e disturbi ossessivo compulsivi, aggravati dalle pressioni dell’ambiente in cui aveva vissuto per anni. È così che la signora Stephens e suo marito, insieme all’ex compagno di squadra di Alex, Eddie Oshodi, hanno deciso di istituire una fondazione che lavorasse per aiutare i ragazzi a uscire da problemi mentali causati dall’allontanamento dal mondo del calcio. Oshodi, che di ruolo fa il difensore e ha una presenza con la prima squadra del Watford, che ha lasciato a 19 anni, è convinto che i giovani delle academy siano «come in una bolla. Aspiri soltanto al calcio, al calcio al calcio. Vedi solo lo sfarzo e la parte glamour. Immagini e vedi ventiquattrenni girare in Range Rover e Ferrari, con la gente pronta a fare tutto per te. È lì che pensi “questa è vita, questa è la realtà”». I genitori di Alex Stephens sostengono che «i ragazzi vengono scelti troppo presto; li crescono con l’idea che diventeranno calciatori, dandogli false speranze».

Non è soltanto l’idea di due genitori che hanno perso un figlio; anche Nicky Butt, ex Manchester United, ha parlato del sistema giovanile inglese come di un luogo in cui i ragazzi «vengono tirati su come pesci nelle reti, poi vengono abbandonati, senza rendersi conto che sono soltanto dei bambini. I ragazzi vengono scelti intorno ai cinque, sei, sette anni. È un’età ridicola. Ho perso il conto delle volte i cui ho visto bambini piangere perché erano stati allontanati dai propri club. Ma come faccio a parlare poi con il mio di club, quando mi chiedono perché ci siamo persi questo o quel talento, magari soltanto perché io non credo sia giusto ingaggiare ragazzini così giovani?».

LONDON, ENGLAND - APRIL 11: Boys play football outside the stadium prior to the Barclays Premier League match between West Ham United and Stoke City at Boleyn Ground on April 11, 2015 in London, England. (Photo by Tom Dulat/Getty Images)

La verità è che quello dei giovani calciatori sta diventando un business importante, che permette in alcuni casi di effettuare plusvalenze milionarie. In Premier sembrerebbe esserci una buona correlazione tra l’utilizzo di giovani provenienti dalle academy e la permanenza nella zona sinistra  sella classifica. Mentre per quanto riguarda il mancato utilizzo dei giovani tra le squadre nella seconda parte della classifica, invece, molto dipende dalla scarsa qualità delle academy di riferimento. Le strategie dei club sono diverse e cambiano a secondo di diversi fattori. Ciò che non si può cambiare è il lato umano dei giocatori. Le strategie dei club sono diverse e cambiano a secondo di diversi fattori. Ciò che non si può cambiare, ed è necessario proteggere, è il lato umano dei giocatori.