Scendere in campo

Weah, Shevchenko, Schwarzenegger, Kaladze e tutti gli sportivi che hanno provato a fare i politici.

Nei giorni scorsi si è parlato di una probabile candidatura di Ronaldinho al Senato brasiliano. Una notizia del tutto inedita, lanciata per la prima volta dal quotidiano O Globo. Il Senado federal do Brasil è uno dei due rami del Congresso nazionale, è composto da 81 senatori e rappresenta i 27 Stati che formano la Repubblica Federale. Ronaldinho si candiderebbe per le elezioni di ottobre 2018 nel Minas Gerais, uno Stato senza sbocchi sul mare, poco più a nord di Rio de Janeiro e São Paulo. La scelta non è casuale: il Pallone d’oro 2005 ha giocato nel Minas dal 2012 al 2014, all’Atletico Mineiro, diventando ancor più popolare – più di quanto non fosse già – in tutto il territorio. La sua candidatura sembrerebbe legata al Partido Patriota, un partito di estrema destra il cui presidente, Jair Bolsonaro, è un ex militare, nazionalista, filo-statunitense – alcuni lo chiamano il Donald Trump del Brasile –, ed è tra i favoriti delle prossime elezioni presidenziali: dovrebbe essere proprio lui a spianare la strada al Senato per Ronaldinho.

L’allineamento con il Partido Patriota sarebbe la sorpresa più grande. Verrebbe da chiedersi: quando Ronaldinho avrebbe abbracciato le posizioni estremiste di Jair Bolsonaro (ultraconservatore, misogino, a favore della tortura, pro pena di morte)? Ma la sua candidatura potrebbe anche essere “di facciata”, uno stratagemma per sfruttare la sua popolarità: in un Paese come il Brasile, dove il calcio monopolizza interessi ed emozioni delle persone è facile strappare voti con la simpatia costruita in campo. Perciò gli ex calciatori trovano terreno fertile quando decidono di entrare in politica. Tuttavia, anche nel caso in cui Ronaldinho fosse schierato con Bolsonaro non sarebbe né il primo né l’ultimo “sportivo conservatore”. In un vecchio articolo pubblicato sul San Francisco Chronicle Dean Rader, professore alla S.F. University, spiega il legame tra lo sport e la destra politica: «Lo sport di squadra si basa sulla gerarchia, e come altre istituzioni, ad esempio esercito e chiesa, mette in primo piano vittoria, dominio, trionfo. Si crea una dicotomia bene/male, vincitori/vinti, giusto/sbagliato. Invece complessità, contraddizione, incertezze per un atleta significano morire, agonisticamente parlando. Vedere il mondo in questo modo tende a creare legami con un’ideologia conservatrice». Una tendenza accentuata dalle pressioni generate sul singolo atleta dal sistema di valori dello sport professionistico. «L’attenzione sul singolo», spiega il professore di Antropologia a Yale William Kelly, «celebra i valori della competizione e del successo individuale, incoraggiando una mentalità politicamente conservatrice».

Atlanta Falcons v Detroit Lions

Eppure sembra che qualcosa stia cambiando. Negli ultimi anni abbiamo visto sempre più sportivi professionisti sposare posizioni liberal: la recente battaglia di Colin Kaepernick – che per primo si è inginocchiato durante l’inno nazionale Usa per protestare contro le discriminazioni nei confronti degli afro-americani – è stata anticipata da altre dimostrazioni di stampo liberal: i giocatori Nba con la maglia “I Can’t Breathe” dopo l’omicidio di Eric Garner, le reazioni positive al coming out di alcuni professionisti sul loro orientamento sessuale (Jason Collins, Thomas Hitzlsperger, Michael Sam), le dichiarazioni apertamente anti-Trump di molti sportivi. Sono esempi concreti di un possibile cambiamento del vento.

C’è tuttavia differenza tra un atleta professionista che esprime la sua opinione come cittadino, e uno che decide di intraprendere una carriera politica. Solo in Brasile Ronaldinho è stato preceduto da colleghi illustri come Pelé, Cafu e Romario. Ma di calciatori – anzi, sarebbe meglio parlare di sportivi, in generale – che si avventurano in politica ce ne sono in tutto il mondo, e rappresentano tutti i “colori” politici. È opportuno innanzitutto fare una distinzione preliminare in due categorie: da una parte le figure monodimensionali, legate per lo più a cariche che hanno la parola “sport” nel titolo; dall’altra i personaggi coinvolti a 360 gradi, che lo fanno per vocazione.

L’Italia, ad esempio, ha una casistica lunga e divisa nei due schieramenti. Ma rispetto alla maggior parte degli altri Paesi fa storia a sé in termini di risultati: mentre all’estero ci sono molti esempi di sportivi che riescono a costruirsi un’immagine politica vincente, in Italia i successi sono solo piccole eccezioni. Si va da Gianni Rivera, eurodeputato, a Josefa Idem, Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili nel governo Letta (ma solo per due mesi), e poi Giovanni Galli, Carlo Nervo, Manuela Di Centa, Massimo Mauro, e Valentina Vezzali. La lista potrebbe proseguire, ma il quadro è già piuttosto definito: in Italia gli sportivi-politici rimangono figure perlopiù marginali. Anche in altri Paesi ci sono liste infinite di ex atleti che vorrebbero sfruttare la loro popolarità e magari finiscono per collezionare un flop dopo l’altro. Ma non mancano storie di successo. Un esempio che non ha una controparte italiana è Arnold Schwarzenegger. L’ex culturista ha iniziato come Presidente del Consiglio per Fitness e Sport durante l’amministrazione di George H. W. Bush nel 1989, ma dal 2003 al 2011 è stato governatore della California. Insomma, è stato a capo dell’esecutivo nel terzo Stato più grande degli Usa, nonché il più popoloso e quello con più rappresentanti al Congresso.

FRANCE-USA-DIPLOMACY

Lo Schwarzenegger governatore apre un’altra finestra sul tema. Quella dell’immagine del politico. Al momento della sua elezione, l’uomo che è stato Terminator, Conan il barbaro e il terribile Mr. Freeze in Batman&Robin era già ridimensionato rispetto ai fasti di Mr. Olympia (ultimo oro nel 1980), ma conservava una corporatura eccellente. Un plus che potrebbe averlo aiutato a staccare gli altri candidati nella corsa elettorale. Perché l’estetica conta: uno studio pubblicato su Political Psychology ha rilevato che gli elettori «sono orientati istintivamente verso i candidati più attraenti, anche se alcuni “correggono” il loro voto consapevoli del pregiudizio. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i candidati “in forma” sono stati considerati in una luce più positiva». Il precedente storico del primo dibattito televisivo tra due candidati alla Casa Bianca, quello tra Kennedy e Nixon del 1960, può aiutare nonostante non si trattasse di ex atleti: JFK vinse quel confronto perché trasmise un’immagine tranquilla e sicura di sé, mentre Nixon apparve decisamente più teso e meno sereno, al netto di un equilibrio sui contenuti. L’eredità di quel dibattito televisivo oggi è più che mai viva: gli atleti che entrano in politica potrebbero trarre vantaggio dalle loro carriere sportive, a patto di conservare almeno in parte la corporatura.

Come negli States anche l’Europa è capace di costruire narrazioni politiche positive partendo da un uomo di sport, come il georgiano Kakha Kaladze, oggi sindaco della capitale Tbilisi, già Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali e secondo vicepremier. L’ex difensore bilancia il flop firmato Shevchenko. Candidatura immediata alle parlamentari del 2012 dopo il ritiro, ma il partito prese meno del 2% dei voti: non sufficienti a superare la soglia di sbarramento. Un primato, invece, è appena arrivato dall’Africa, più precisamente dalla Liberia, dove è stato eletto il primo Pallone d’oro capo del governo: il 26 dicembre George Weahja sconfitto al ballottaggio Joseph Boakai diventando presidente della piccola nazione.

UKRAINE-VOTE

Il viaggio intorno al mondo degli sportivi-politici deve necessariamente fare tappa in Asia, dove i numeri, in qualsiasi dato demografico, sono sempre grandi a dismisura. Per dire: Wikipedia ha una pagina dedicata agli sportivi indiani passati in politica, con una lista di ex giocatori di cricket che sono diventati parlamentari, sindaci, consiglieri e segretari. E poi ci sono atleti di fama mondiale che hanno grande successo alle elezioni, come il filippino Manny Pacquiao. Dopo una falsa partenza (nel 2007), ha aspettato tre anni prima di trovare posto in Parlamento. Da poco più di un anno è diventato senatore al Congresso delle Filippine, il primo – di qualsiasi Paese – ad aggiudicarsi un titolo mondiale di pugilato durante il mandato. La politica è il motivo per cui si era temporaneamente ritirato ad aprile 2016: doveva concentrarsi sul suo incarico parlamentare. «La boxe è il mio unico mezzo per sostenere la mia famiglia e aiutare coloro che ne hanno bisogno, la politica invece per me è una vocazione», ha detto.

Tuttavia, nessuno di questi ha giocato con il fuoco in politica come Hakan Sükür. Poco dopo il ritiro dal calcio giocato è entrato in Parlamento con l’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, quello di Erdogan (2011). Si è dimesso appena due anni dopo, in seguito a un’inchiesta per corruzione che ha colpito il presidente e i suoi collaboratori. Da quel momento in poi, il clima in Turchia si è fatto sempre più teso. Erdogan e l’Akp non hanno perdonato all’ex attaccante di Inter e Parma il suo passaggio tra le fila dei gulenisti: nel 2014 il nome di Hakan Sükür è sparito da uno stadio di Istanbul (il Sancaktepe Hakan Şükür Stadium è diventato semplicemente Sancaktepe Municipality Stadium). Un anno più tardi l’autore del gol più veloce nella storia dei Mondiali (11 secondi alla Corea nel 2002) si è trasferito con la famiglia in California per sfuggire all’eventualità di una repressione più violenta. Un’intuizione che potrebbe avere un valore inestimabile: dal tentato colpo di Stato dell’estate 2016 chi è anche semplicemente sospettato di essere un oppositore del governo ha subito violenze molto peggiori di un nome cancellato dagli impianti sportivi.

 

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