Lo sport è politica in Turchia

Ünder, Sükür, Kanter: cosa succede a essere pro Erdogan o contro Erdogan nella Turchia di oggi.

Forse in Turchia c’è chi ha trattenuto, per un attimo, il fiato e la gioia dopo che sabato scorso, a Udine, Cengiz Ünder ha sbloccato la partita con una sassata che ha trafitto Bizzarri portando in vantaggio la Roma. Per vedere se avrebbe replicato l’esultanza “militare” che aveva messo in scena una settimana prima, dopo il gol realizzato con il Benevento. Ma non l’ha fatto, forse perché travolto troppo in fretta dagli abbracci dei compagni. Per i tifosi romanisti, che le ultime gioie vere le hanno vissute con le mitragliate di Batistuta, il saluto militare di Ünder è apparso niente più che un’innocente e simpatica coreografia, da riprodurre magari nelle partite di calcetto con gli amici. A rafforzare il sospetto che dietro quel gesto si nascondesse dell’altro, però, ci ha pensato un tweet post-partita dello stesso calciatore:

Un’emoticon “della preghiera” e tre bandiere turche, secondo molti un riferimento non troppo velato ai tre suoi connazionali dell’esercito rimasti uccisi pochi giorni prima ad Afrin, il distretto della Siria settentrionale in cui dal 20 gennaio è in corso un’operazione militare anti-curda della Turchia. A corredo, sono arrivati i complimenti di Erdogan, che appena una settimana prima era stato ricevuto a Roma dal Papa, Mattarella e Gentiloni, e la condivisione del tweet da parte del ministro turco Osman Askin Bak. Ma non è tutto: Ünder è cresciuto calcisticamente nel Basaksehir Istanbul, squadra legata a doppio filo con l’Akp, il partito di Erdogan. Lo stesso presidente turco, ex calciatore di livello semi-professionistico, ha inaugurato lo stadio del Basaksehir prendendo parte a una partita amichevole in cui ha anche realizzato una tripletta. La squadra riceve finanziamenti e agevolazioni direttamente dal governo, è terza in classifica nel campionato di quest’anno ed è diventata l’emblema della commistione tra calcio e politica in Turchia.

Ben altra sorte tocca all’Amedspor, squadra del Kurdistan turco ripetutamente vittima di sanzioni, squalifiche e perquisizioni da parte della federazione calcistica e delle autorità. Alcuni degli avversari dell’Amedspor, dopo aver segnato, esultano proprio col saluto militare inscenato da Ünder: un segno di sfregio nei confronti dei curdi e allo stesso tempo di ossequio a Erdogan. Nel club milita Deniz Naki, calciatore turco-tedesco ex St. Pauli, sopravvissuto a un attentato lo scorso 8 gennaio nei pressi di Dueren, in Germania. La sua auto è stata affiancata da una station wagon nera, da cui sono partiti dei proiettili che hanno colpito un finestrino e le ruote. «Un attentato politico», ha denunciato lui, recentemente squalificato per tre anni e mezzo dalla federazione turca a causa delle sue critiche a Erdogan e all’operazione militare in corso ad Afrin.

Fermarsi ai casi singoli sarebbe comunque miope. Le vicende di Ünder e Naki altro non sono che epifenomeni di un processo in corso almeno dal 2013, e che consiste nel tentativo, da parte dell’Akp, di appropriarsi del “capitale simbolico” che ruota attorno allo sport, un mezzo potentissimo di costruzione e legittimazione del consenso.
Non potendo agire alla luce del sole come le dittature conclamate, e dovendo quindi fare a meno dei rituali paramilitari che fondono l’educazione fisica con quella morale, tipici dei fascismi o dell’odierno regime nordcoreano, l’Akp è costretto ad agire diversamente. Deve fare opera di “soft power”, penetrare nei gangli delle federazioni sportive, conquistare gli atleti più giovani e promettenti spingendoli a forgiare l’immaginario politico della nazione. In una società in cui lo sport è una delle principali macchine di costruzione del consenso, la presa di posizione di un giocatore vale più di quella di cento intellettuali, e questo Erdogan lo ha capito bene.

Forse perché, nel 2013, fu proprio il mondo dello sport uno dei principali vettori delle proteste anti-governative di Gezi Park, represse nel sangue da polizia e militari. A quel tempo la trasformazione della Turchia in un regime para-dittatoriale era ancora in gestazione, e il controllo dell’Akp sulla società civile ancora troppo lasco.
Ecco allora che, nel giugno 2013, i tifosi delle principali squadre turche (Fenerbahcee, Galatasaray, Besiktas, Bursapspor e Trabzonspor) misero da parte le loro differenze e scesero in piazza assieme per chiedere le dimissioni di Erdogan. Un corteo in cui ci si scambiavano magliette e sciarpe delle rispettive squadre, poi confluito nelle più generali proteste di piazza Taksim. A quel tempo, le purghe dell’Akp nei confronti degli oppositori erano già cominciate, e avevano coinvolto anche il mondo dello sport.

Non solo: in seguito alle proteste Erdogan bandì i cori politici dagli stadi e creò una specie di versione turca della tessera del tifoso, denominata “Passolig”. Si trattava di uno strumento con cui, in sostanza, il governo turco poteva accedere a tutti i dati personali di chi acquistava i biglietti delle partite: non solo la carta d’identità, ma anche il numero di cellulare e il conto bancario, attraverso una società legata al genero del presidente turco che immagazzinava i dati per poi metterli a disposizione del governo. Il tutto accompagnato da un sistema di riconoscimento facciale ai tornelli degli stadi. Insomma, un utilizzo massiccio delle tecnologie e dei big data per reprimere sul nascere i germi della rivolta in un settore strategico della società civile come quello sportivo.
Più di recente, Erdogan ha chiesto la rimozione della parola “arena” dai nomi degli stadi, poiché considerata un retaggio della cultura romana e per questo in antitesi con il bisogno di purificare il linguaggio e le abitudini del popolo turco.

La necessità di “nazionalizzare” ogni settore della società, rendendolo impermeabile alle influenze straniere, nasce anche, ovviamente, dall’ossessione per la figura di Fethullah Gülen, il leader politico e predicatore in esilio negli Stati Uniti, ex alleato di Erdogan fino al 2013 e considerato la mente del fallito colpo di stato del luglio 2016.
Gülen, la cui figura è in realtà utile a legittimare la soppressione di ogni tipo di dissenso, vero o presunto, è associato alla simbologia dell’esule, del nemico della nazione ospitato dagli Stati Uniti, altro potentissimo simbolo di globalizzazione, sradicamento dei valori islamici tradizionali ed erosione della sovranità statale. Ecco allora che nel derby dell’ottobre 2017 tra Fenerbahce e Galatasaray, la coreografia dei tifosi giallorossi raffigurante Rocky Balboa diventò oggetto persino di un’indagine parlamentare. Il motivo? Rocky è di Philadephia, proprio la città in cui vive l’esule Gülen. L’ombra di Gülen si è allungata anche nello scandalo del 2011, la cosiddetta “Calciopoli turca”, in cui si scoprirono combine in decine di partite del campionato, compresa quella che, all’ultima giornata, permise al Fenerbahce di aggiudicarsi il titolo. In quel caso la federazione turca, che avrebbe dovuto far retrocedere la squadra gialloblù revocando lo scudetto, cambiò presidente, regolamento, e fece finta di nulla, con il beneplacito della Uefa e dell’attuale presidente della Fifa Gianni Infantino.

Erdogan però, nel suo tentativo di trasformare il mondo dello sport da terreno di rivolta a settore strategico di legittimazione politica, si è spinto oltre, intensificando le purghe e avanzando sospetti a tutti i livelli. Il caso più celebre è quello della leggenda del calcio turco Hakan Sükür. Ex deputato dell’Akp, dimessosi dal suo incarico dopo la rottura tra Erdogan e Gülen, l’ex giocatore di Parma, Torino e Inter, miglior marcatore della storia della Nazionale turca, è stato espulso dal Galatasaray e rimosso da tutti i documenti ufficiali sulla storia del club, un provvedimento che ha colpito anche il suo ex compagno di squadra Arif Erdem. Hakan Sükür è accusato di essere stato coinvolto nel colpo di stato del 2016, accuse che lui ha sempre respinto ma che lo hanno costretto a riparare negli Stati Uniti. Ben più ligi agli ordini di scuderia sono stati altri due tra i più importanti calciatori turchi in attività, Arda Turan e Burak Yilmaz, che ad aprile 2017 si sono prodigati con tanto di video-appelli per sostenere il sì al referendum costituzionale sul presidenzialismo che ha aumentato a dismisura i poteri di Erdogan.

Ma l’appoggio al sì al referendum, in quel caso, non si è limitato a casi singoli, ma è arrivato direttamente dalla federazione calcistica turca, nella persona del presidente Yildirim Demiroren, un businessman che ha costruito le sue fortune nel settore dell’industria energetica. Demiroren non si limitò ad un semplice endorsement, ma sospese anche un arbitro, Ilker Sahin, che si era espresso pubblicamente per il no alla consultazione referendaria.
«Credo che la politica e il calcio condividano molti aspetti comuni. Proprio come per lo sport, l’essenza della politica è la competizione», disse Erdogan in un discorso tenuto proprio in occasione di una conferenza organizzata dalla federazione. L’appoggio dei vertici del calcio, dei principali club, nonché la riduzione al silenzio di quei tifosi che erano scesi in piazza a manifestare contro di lui nel 2013, hanno sancito di fatto il definitivo trionfo della sua strategia volta all’appropriazione del capitale simbolico legato allo sport.

Avendolo trasformato in terreno di costruzione del consenso e assurto a emblema di un potere quasi dittatoriale, proprio il mondo dello sport è diventato ormai uno specchio delle tensioni che si agitano in tutti gli strati della società turca. Lo sport in Turchia è politica, e se da una parte funziona come apparato simbolico di legittimazione del potere, dall’altra annovera anch’esso i suoi esuli e i suoi eroi della resistenza Il più celebre, senza ombra di dubbio, è Enes Kanter, il cestista 25enne che milita nella Nba. Dopo diverse stagioni tra gli Utah Jazz e gli Oklahoma City Thunder, Kanter quest’anno è passato ai New York Knicks. «Prima, potevo raggiungere forse un milione di persone. A New York, posso raggiungerne un centinaio di milioni. La mia voce qui è ancora più forte, per questo devo usarla», ha detto in un’intervista al New Yorker. Kanter è attualmente, nel mondo, uno dei più noti oppositori di Erdogan, che ha definito «l’Hitler del nostro secolo». Ricercato dalla giustizia turca per una serie di tweet offensivi rivolti al presidente turco dopo il fallito colpo di stato e le successive repressioni dei diritti civili, un pubblico ministero ha chiesto una sua condanna a quattro anni di carcere. «Ho detto molto meno di ciò che quell’uomo senza onore meriterebbe. Aggiungi altri quattro anni per me, capo», è stata la sua risposta sui social network. Kanter va a trovare di tanto in tanto Gülen a Philadelphia; le sue prese di posizione gli hanno fatto rischiare più volte l’arresto quando si trovava fuori dal territorio statunitense.

Nella primavera 2017 era in Indonesia, per un clinic di basket a scopo benefico con dei ragazzi delle scuole. A un certo punto il suo agente lo avvertì che i servizi segreti turchi si erano messi in contatto col governo indonesiano, e Kanter fu costretto a lasciare immediatamente il Paese. Giunto in Romania, all’aeroporto gli fu comunicato che il suo passaporto era stato bloccato. Solo l’intervento diretto del governo americano e della Nba gli permisero di imbarcarsi su un aereo per gli Stati Uniti e sfuggire a un probabile arresto. I suoi genitori, con i quali non può comunicare in alcun modo, sono stati costretti a rinnegarlo, il padre ha dovuto fare una dichiarazione pubblica in cui si scusava «per avere un figlio del genere». L’abitazione della famiglia in Turchia è stata perquisita più volte, sempre il padre è stato messo in prigione per alcuni giorni. Kanter è costretto a scegliere con cura i ristoranti turchi in cui andare a mangiare a New York: prima deve capire se siano gestiti da persone che la pensano come lui o da qualcuno che potrebbe metterlo nei guai. Riceve continuamente minacce di morte, sui social e non solo.
Il suo account Twitter è ovviamente oscurato in Turchia, così come le partite dei New York Knicks. Sulla possibilità, per il suo Paese, di risollevarsi sovvertendo il regime de facto di Erdogan, ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport: «Lo spero. È ciò per cui combatto: la libertà. E per avere finalmente un periodo di pace nel nostro paese. Succederà».

 

Immagini Getty Images