Perché il calcio italiano non esporta giocatori

Gli azzurri che militano all'estero sono pochi e spesso non lasciano il segno. I motivi dietro un trend radicato, in controtendenza rispetto ad altre realtà.

La rosa dell’Italia ai Mondiali è sempre stata costituita da soli calciatori militanti in Serie A, salvo che in due occasioni. Nel 1998 ad esempio, quando sulla scia del vento migratorio degli anni Novanta Di Matteo e Vieri arrivarono in Italia rispettivamente da giocatori di Chelsea e Atlético Madrid. La seconda invece è più recente e risale a Brasile 2014, dove presero parte alla spedizione azzurra contemporaneamente tre italiani provenienti dalle fila di club esteri (uno soltanto in realtà, il Psg), ossia Verratti, Thiago Motta e Sirigu. È una tradizione che non ha mai dato cenni di resa, di inversione, e che anzi negli anni ha continuato a solidificarsi.

Nel 1998 Christian Vieri aveva 24 anni e segnò cinque gol al Mondiale

Eppure, per i Paesi che come l’Italia hanno fatto da teatro ai più grandi artisti del pallone, il percorso è progressivamente mutato e sta mutando tutt’ora. La Francia ha mantenuto standard di questo tipo, possiamo dire nazionalisti, fino al 1986, per poi cambiare completamente registro dalla partecipazione successiva, datata 1998. In quell’anno la quota di “stranieri” convocati superò per la prima volta il 50% del totale, e nei Mondiali successivi è sempre rimasta su quei livelli: 18 su 23 in Corea nel 2002, 12 su 23 in Germania quattro anni dopo, 12 su 23 in Sudafrica e 15 su 23 in Brasile. Nessuno come i francesi ha dimostrato una tale adattabilità a contesti sportivi e stili di vita differenti. Oppure prendiamo la Germania, che è stata composta da soli militanti in Bundesliga fino al ’58. Dal ’62 in poi hanno iniziato ad arricchire la rosa giocatori di squadre di Serie A e Premier League, ma è proprio negli ultimi anni che il multiculturalismo tedesco sta premendo con più intensità: Ter Stegen e Trapp, Rüdiger e Khedira, Gundogan e Sané, Kroos e Draxler oggi giocano tutti fuori dai confini e sono tutti elementi centrali per il progetto tecnico di Löw. Il discorso è molto simile anche prendendo in considerazione la Spagna, che come la Germania in passato ha aperto le porte soltanto agli spagnoli della Serie A (erano gli anni di Luisito Suarez) per poi richiuderle fino al 2002, quando l’unica eccezione fu Mendieta. Come per i tedeschi, il vero salto di dimensione in questo senso è stato compiuto in occasione dell’ultimo Mondiale: in Brasile erano ben otto gli spagnoli provenienti da altri campionati, e la tendenza è destinata a stabilizzarsi nonostante la mole di giocatori di livello sia abbondante anche – e soprattutto – tra i confini della penisola.

Se ne evince che, anche se solo di recente con una certa frequenza, gli altri esportano e l’Italia no. E se fino a qualche lustro fa ciò poteva rappresentare un motivo di vanto (“Abbiamo i migliori e ce li teniamo”), con il passare degli anni questa autostima è stata falciata dallo sviluppo dello scenario europeo. La cultura calcistica della Spagna ha incrociato la propria strada con le idee evolutive di matrice cruijffiana e per vie traverse ha finito per influenzare anche la Germania, la Francia invece ha investito sulle strutture e sui processi di selezionamento per valorizzare il proprio capitale umano. Ne sono scaturiti differenti tipi di crescita, quindi le percentuali di export sono aumentate ovunque, con l’Italia che ha perso terreno ed è inevitabilmente rimasta indietro. Non è un caso che il miglior risultato in questi termini, in proporzione, sia stato raggiunto proprio a cavallo tra i Novanta e i primi Duemila, l’ultimo periodo d’oro del calcio italiano: da Zola a Di Matteo, da Ravanelli a Vialli, la colonia di italiani all’estero era persino più significativa di quanto non lo sia quella odierna. E se anche in ambito sportivo, come in molti settori commerciali, la qualità in senso assoluta si misura sull’indice di gradimento del prodotto al di fuori dei confini, oggi è abbastanza chiaro che l’Italia sia alle prese con un problema non indifferente.

Allo stato attuale, se prendiamo in considerazioni i campionati più blasonati, i calciatori italiani che vi militano sono perlopiù delle comparse. In Premier League ci sono da tre anni Ogbonna e Darmian, che pur in contesti differenti in termini di competizione non hanno mai convinto (salvo il primo alla stagione d’esordio), ricalcando il percorso di Santon al Newcastle tra il 2011 e il 2015. Più recente è la (dis)avventura di Paloschi allo Swansea, sei mesi di anonimato ed incomprensioni sotto la gestione di Guidolin. L’attuale attaccante della Spal una volta ha detto: «Rifarei questa scelta, mi ha migliorato come uomo», ma i fatti di campo parlano di 10 presenze e appena due reti segnate. È andata leggermente meglio a Gabbiadini, ma solo nella fase iniziale della sua esperienza a Southampton, perché nella stagione in corso sono state più numerose le partenze dalla panchina rispetto a quelle dal primo minuto. Insomma, tenendo in disparte il caso di Balotelli, più unico che raro e in ogni caso pieno di dinamiche contrastanti al suo interno, negli ultimi tempi non c’è stato un solo giocatore italiano che abbia avuto terreno fertile per la propria crescita sul suolo inglese. Nessuno che si sia ambientato fino in fondo, nessuno che ne sia stato arricchito. Anzi, ciascuno dei giocatori menzionati sopra è parso piuttosto calato nel proprio valore.

Il primo gol di Alberto Paloschi con la maglia dello Swansea, ovviamente di rapina

In Liga il discorso varia di poco, e per trovare un caso che vada in controtendenza siamo ancora costretti a ricordare il Giuseppe Rossi del Villarreal. Oltretutto, anche adesso la squadra della Comunidad Valenciana è nota per avere in rosa più italiani di tutti, almeno in Liga. C’è il più datato Bonera, oltre a Soriano e Sansone. Il primo anno con Escribà è stato molto positivo per entrambi, ma da quando sulla panchina del Submarino siede Calleja né Sansone né Soriano stanno replicando quanto fatto vedere tra il 2016 e la prima metà del 2017. E soprattutto nessuno dei due è più inamovibile. Restando in Spagna la nota lieta è stata rappresentata fino a dicembre da Simone Zaza, che nel Valencia ha segnato 10 reti nelle prime 15 giornate. Poi, si è assestato su standard mediocri perdendo addirittura la titolarità tra gennaio e febbraio.

Analizzare il rendimento dei singoli italiani all’estero serve banalmente a costruire una valutazione complessiva che per ovvie ragioni non può però essere soddisfacente. Va infatti detto che oggi tendono a partire dalla Serie A i giocatori di secondo piano, mai i migliori. Non gli Insigne, i Bonucci, i Bernardeschi. L’unica eccezione che troviamo a questa tesi negli ultimi cinque anni riguarda Verratti, che comunque non andò a Parigi come un calciatore di livello, ma nelle vesti di un ventenne talentuoso; discorso identico vale per Pellegri, che il Monaco ha pagato 25 milioni per la futuribilità e non certo per il suo curriculum. In passato ci fu Toni che, dopo aver vinto la Scarpa d’Oro, passò al Bayern Monaco, ma si trattò di un investimento minimo per i bavaresi e in ogni caso il campione del mondo aveva appena passato la soglia dei trent’anni.

Tornando all’attualità, a colpire è proprio il fatto che, a prescindere dal livello assoluto, non sono mai i più forti a trasferirsi. Lorenzo Amoruso, uno che nella generazione-export di fine anni Novanta ed inizio Duemila ha giocato 10 anni tra Glasgow e Blackburn, lo spiega così: «Prima di tutto le squadre italiane i migliori se li tengono e li pagano relativamente bene, e poi qui sono protagonisti. Viceversa quelli meno forti, se possono guadagnare due soldini in più, e magari pure migliorare, all’estero ci vanno più volentieri». La ricostruzione che emerge da questa lettura dice che in linea di massima i calciatori italiani preferiscono restare in Italia, e Amoruso approva: «L’approccio fuori dall’Italia è completamente diverso, qui [i giocatori italiani] si sentono protetti, qualcuno addirittura viene coccolato. All’estero di calciatori coccolati ne ho visti pochi, davvero pochi». Filtra un messaggio preciso, che in definitiva è questo: «Quando vai all’estero sei uno dei tanti, devi avere la testa prima ancora del curriculum».

Poi c’è un altro fatto. Ultimamente chi va via è solito tornare, e molti, una volta tornati, finiscono per fare meglio rispetto all’esperienza precedente: Immobile ha fallito in Germania e Spagna, prima di diventare (o meglio: tornare a essere) il capocannoniere della Serie A; El Shaarawy ha fatto una grigia mezza stagione al Monaco, prima di passare alla Roma e dare un contributo decisivo al girone di ritorno dei giallorossi nel 2016; Cristante si era perso in Portogallo, è tornato in Italia e a Bergamo è riuscito a esprimersi al meglio arrivando fino alla Nazionale maggiore. O ancora: Sirigu oggi è una certezza del Torino, ma quando arrivò a luglio era reduce da una stagione e mezzo di panchina tra Parigi e Siviglia e 51 reti incassate in 18 partite con l’Osasuna. Volendo c’è anche Borini, che con Montella è stato un punto fermo del Milan dando continuità alle sue prestazioni come mai aveva fatto nei suoi anni inglesi. Riprendendo ancora una volta Amoruso, a condizionare l’esperienza all’estero «ci sono la paura di fallire, la lingua, la cultura. È un altro modo di pensare, di vivere, di giocare a calcio».

Prendiamo il caso di Immobile, uno dei più rappresentativi per due motivi: anzitutto nella stagione 2013/14 era stato il primo attaccante italiano a vincere il titolo di capocannoniere a un’età relativamente bassa (24 anni) dopo Inzaghi nel 1997; secondo, il Borussia Dortmund che lo acquistò era una squadra di prima fascia, veniva da quattro stagioni in cui aveva vinto due volte il campionato e per due volte era arrivata dietro al solo Bayern Monaco, perdendo anche una finale di Champions League. Si trattava di un trasferimento significativo, e in un certo senso possiamo dire che il fallimento in Germania di Immobile faccia da cartina al tornasole alla debolezza del calcio italiano in materia di export. E questo nonostante, per paradosso, la sua stagione con Klopp non sia stata neppure così pessima: stringendo i denti arrivò alla doppia cifra e tenne una media di un gol segnato ogni 160′, ben lontana da quella attuale ma comunque di poco al di sotto del limite dettato dalle aspettative.

Una delle migliori prestazioni di Ciro Immobile al Borussia Dortmund: 2-0 all’Arsenal in Champions League con gol del vantaggio

Qui torna utile Amoruso, che identifica le ragioni della divergenza in una forma di “buonismo” propria del pubblico italiano: «Se qui in Italia facciamo di tutto per aiutare gli stranieri, per noi italiani all’estero l’approccio e l’inserimento sono processi che ci vengono resi difficili. Qui troviamo agli stranieri un miliardo di scuse, ma fuori siamo trattati diversamente». La lettura combacia con quella di Pietro Nicolodi, che da anni segue la Bundesliga per Sky: «Parlando con Caldirola una volta venne fuori il tema del pubblico. In Germania è molto più freddo: che il Brema sia primo o diciottesimo lo stadio è sempre pieno, poi però fuori da lì i calciatori vivono in un ambiente ai limiti dell’indifferenza, c’è un modo diverso di vivere il calcio. In Italia i giocatori ricevono un sacco di attenzioni, siamo sicuramente più accoglienti rispetto alla mentalità tedesca media». A questo proposito, dopo il trasferimento di Immobile al Siviglia, la Bild scrisse un articolo molto critico. In pochi paragrafi erano condensate tre accuse, nell’ordine: Immobile non aveva voglia di imparare il tedesco nonostante il club gli avesse offerto un insegnante privato, Immobile era un solitario, Immobile era stato oggetto di lamentela da parte di un portavoce del sindaco di Dortmund per l’eccessiva velocità con cui era solito viaggiare in auto. In due parole: lingua e cultura, un binomio che a lui ha creato soltanto problemi. Leggermente diversa è stata la storia di Cristante, che quando ha lasciato l’Italia aveva uno status diverso rispetto a Immobile. A fine gennaio, in un’intervista al Corriere della Sera ha detto che «quando vai fuori devi svegliarti, disporti a imparare culture diverse in campo e fuori», a ulteriore testimonianza di quanto accennato in precedenza.

Il punto resta lo stesso: i pochi italiani che partono raramente hanno successo, e molto spesso tornano in patria. Maturati, migliorati, più completi, ma tornano. C’è indubbiamente un elemento nostalgico di sottofondo, personale e professionale, e correlatamente anche una certa difficoltà nel processo di adattamento. In un pezzo pubblicato tre anni fa, ad esempio, il Guardian si chiedeva perché i calciatori italiani non stessero più trovando fortuna in Premier League. La conclusione che ne scaturisce vede una crescita verticale del campionato inglese cui segue il rallentamento del flusso di italiani: «Oggi i giocatori che vengono qui devono adattarsi […] e la velocità della Premier lo rende difficile. È possibile che lo Zola che abbiamo conosciuto non si sarebbe trovato bene nel sistema di gioco del Chelsea di Mourinho nel 2004». È invece più recente il commento di O-posts, che richiama il discorso sulla tradizione: «Si può dire che i giocatori italiani diano grande peso a eredità e tradizione», si legge. Fa sorridere che se ne parli in Inghilterra, unico Paese tra i big five del calcio a essere persino dietro all’Italia su questo piano, ma lette in maniera disinteressata sono parole ragionevoli.

Anche gli inglesi all’estero faticano: 37 partite giocate e 64 gol subiti per Joe Hart l’anno scorso al Torino

Secondo Stefano Borghi di Fox Sports l’export scadente ha due radici, una esterna e una interna. La prima ha a che vedere con il livello, che «non molti italiani hanno per giocare in campionati più competitivi». Come Amoruso anche Borghi recupera l’immagine dei rimpatriati con-la-coda-fra-le-gambe, cui comunque vanno aggiunte alcune eccezioni: la più lampante è Verratti, ma anche uno come Cristiano Piccini si sta costruendo all’estero una carriera che in Italia gli è stata di fatto negata («La scarsa considerazione da parte della Fiorentina mi ha toccato nell’orgoglio», disse lo scorso novembre). La seconda radice riguarda le valutazioni dei calciatori italiani e la loro ambizione. Borghi prosegue: «In Italia si è molto legati all’idea di vivere qua, oltre che al calcio italiano in sé. Semplificando, in molti magari preferiscono la garanzia di stare in alto in casa loro piuttosto che andare fuori a imparare». Poi va considerata l’influenza del fattore Nazionale: «Per i giocatori italiani c’è la percezione che, una volta usciti dalla Serie A, si perda qualcosa in termini di visibilità. Loro ci dicono spesso: se vai all’estero si dimenticano un po’ di te». È il caso di Zaza, o ancor più recentemente quello del Mudo Vazquez, che da quando è a Siviglia non ha mai vestito l’azzurro. Ma soprattutto è uno degli elementi che spaccano maggiormente il piano su cui poggiano i big five: da un lato Italia e Inghilterra – che resta comunque un caso a sé – e dall’altro Spagna, Germania e Francia. E se i risultati della/e Nazionale/i passassero anche da qui?