Nell’autunno del 2015, sul numero 7 di Undici, Marco Bellinazzo ha descritto il modello economico-sportivo del Napoli di De Laurentiis: «Parliamo di un club ricco, che però non ha la possibilità di spendere. Gli utili accumulati nel corso degli anni non possono essere reinvestiti, perché servono a ripianare eventuali perdite. È il paradosso di una gestione legata all’imprevedibilità del campo, delle prestazioni dei calciatori». L’analisi di Bellinazzo è valida ancora oggi, all’alba dell’estate 2018, pochi giorni dopo l’annuncio di Carlo Ancelotti come nuovo tecnico del Napoli.
Secondo una chiave di lettura puramente finanziaria, l’arrivo dell’ex allenatore di Bayern e Real Madrid potrebbe sembrare un’operazione sorprendente, di rottura. In realtà è la certificazione finale di una crescita portata avanti negli anni attraverso una strategia anacronistica, anti-economica per definizione. Nonostante il business del Napoli sia sempre stato volatile, perché orientato alla sola costruzione del risultato sportivo, il progetto del club partenopeo è riuscito a stimolare uno dei tecnici più vincenti e riconoscibili del mondo. È un concetto in controtendenza rispetto alle dinamiche del calcio moderno: il Napoli ha saputo rendere virtuoso il modello tipicamente italiano del player trading sostenuto dai ricavi per i diritti televisivi, è una società con introiti strutturali di medio livello eppure ha una squadra così forte da convincere Ancelotti a firmare un contratto triennale. James Horncastle ha scritto su Espn: «L’arrivo di un allenatore così importante è un autentico capolavoro per il Napoli, perché aumenta l’appeal della piazza. Se certi calciatori potevano avere delle riserve su un eventuale trasferimento in azzurro, ora sanno di poter lavorare con Ancelotti». È il senso dell’intera operazione: Ancelotti garantirà la riproducibilità del modello-De Laurentiis, anzi alzerà ancora di più gli standard qualitativi del processo di reclutamento. Per il Napoli non si tratta un breaking-event, piuttosto è un tentativo di upgrade nel solco della continuità.
In una delle sue ultime interviste da tecnico del Napoli, Maurizio Sarri ha spiegato tra le righe i motivi del suo addio al club partenopeo: «Se la società ha intenzione di cedere alcuni calciatori di questo gruppo, vuol dire che siamo alla fine di un ciclo». Evidentemente l’ex allenatore azzurro aveva una visione politica diversa rispetto a quella di De Laurentiis, avrebbe voluto un calciomercato simile a quello dell’estate del 2017, all’insegna della stabilità anziché del cambiamento. Un’aspirazione legittima secondo il suo approccio al gioco, ma troppo lontana dal sistema che ha reso performante il Napoli dal punto di vista finanziario e sportivo. È una questione di sostenibilità, per rendersene conto basta ripercorrere a ritroso le ultime stagioni: gli unici due bilanci negativi dal ritorno in Serie A (2007) sono quelli riferiti alle stagioni 2014/2015 e 2015/2016, caratterizzate dall’assenza di cessioni importanti e dal mancato accesso alla fase a gironi della Champions League. L’ultima annata (2016/2017) si è chiusa con un risultato economico eccellente: utile netto di 66 milioni e fatturato di poco oltre i 300 milioni. Cifre di alto livello, dovute però alle plusvalenze (104 milioni, di cui 100 grazie alla vendita di Higuaín e Gabbiadini) piuttosto che a una reale crescita dei ricavi strutturali (201 milioni totali, 142 per i diritti televisivi).
Alla luce di un sensibile aumento dei costi – da 159 milioni a 201 milioni tra il 2016 e il 2017 -, la strategia di De Laurentiis diventa ancora più chiara: il Napoli ragiona, si autofinanzia e cerca di svilupparsi secondo la logica del change-to-improve, fa lievitare la propria esposizione finanziaria in base alla crescita degli introiti, quindi alla costruzione di plusvalenze. L’anno scorso questo modello operativo è stato messo momentaneamente in stand-by per assecondare le richieste di Sarri e della squadra (il famoso patto-scudetto), ed è stato “sostituito” da un piano di investimenti sui calciatori già in rosa, finalizzato a rinnovare i contratti di elementi importanti – Insigne e Mertens, ma anche Ghoulam e Allan.
Non sono ancora disponibili le cifre dell’ultimo bilancio, ma è realistico immaginare un ulteriore aumento delle spese, a fronte di introiti che non possono essere cresciuti oltre una certa soglia, anche a causa dell’eliminazione ai gironi di Champions League. Il Napoli non poteva permettersi di rimanere ancora fermo sul mercato, una condizione di necessità che ha di fatto sancito il divorzio con un allenatore sistemico, quindi necessariamente ultra-conservativo, come Maurizio Sarri. Il cambio della guida tecnica ha un preciso indirizzo politico: riattivare la dinamicità dei trasferimenti in uscita, in modo da avviare una nuova fase di crescita corporativa del fatturato e dell’organico. Ancelotti, evidentemente, deve aver accettato l’eventualità di una o due cessioni a fronte di concrete rassicurazioni sull’arrivo di calciatori di alto livello, magari stimolati ad accettare le offerte del Napoli anche grazie alla sua intercessione.
Il modello costruito e sviluppato da De Laurentiis è una pura contraddizione: da una parte costituisce la forza del Napoli, dall’altra rappresenta il limite rispetto ai suoi competitor. Il club partenopeo è 19esimo nella Deloitte Football Money League 2018, terza realtà italiana dopo la Juventus decima e l’Inter 15esima in graduatoria; eppure i bianconeri hanno un fatturato doppio al netto delle plusvalenze (405 milioni di euro contro 201 milioni), mentre i nerazzurri toccano i 265 milioni, nonostante i risultati negativi degli ultimi anni. Il confronto con queste due società spiega la distanza ancora ampia tra il Napoli e i top team europei, soprattutto per quanto riguarda la diversificazione degli introiti: per il club di De Laurentiis i diritti televisivi – domestici e internazionali – costituiscono il 73% delle entrate strutturali, per Juventus e Inter questa percentuale scende rispettivamente al 58% e al 39%. Soprattutto i nerazzurri, grazie alle sponsorizzazioni legate alla proprietà Suning, hanno quote in linea con il Manchester United e il Real Madrid, che non superano il 35% di incidenza per i ricavi televisivi e comandano la classifica grazie a contratti commerciali per oltre 300 milioni di euro.
L’analisi di certe cifre e di certe proporzioni definisce la dimensione del Napoli, un’azienda calcisticamente specializzata che punta esclusivamente alla produzione del rendimento sul campo, e si nutre dei ricavi generati da questa strategia. De Laurentiis ha scritto un aggiornamento del software gestionale utilizzato negli anni Novanta dalle società di Serie A: scarsissimi investimenti strutturali (il Napoli è tuttora in affitto al centro sportivo di Castel Volturno, per un canone annuo di 240mila euro), accordi di sponsorizzazione con aziende legate al territorio – o comunque poco riconoscibili sui mercati internazionali -, utilizzo episodico ma sistematico del player trading come cassaforte per salvaguardare la sostenibilità dei conti. Proprio su questo punto De Laurentiis ha costruito il suo percorso virtuoso, segnando la differenza rispetto ai modelli del passato: lo sviluppo del bilancio è stato equilibrato, graduale, oggi il Napoli è una società che si autofinanzia, che rispetta in pieno i parametri del fair play finanziario, non ha debiti con le banche e tiene un rapporto del 50,5% tra costo del personale e fatturato netto.
Grazie a questa gestione, il Napoli si è guadagnato la possibilità di autodeterminare serenamente il proprio futuro tecnico, di programmare la propria crescita, può decidere se e quando ricorrere al mercato per generare plusvalenze e attivare l’upgrade economico. Gli affari fatti con le cessioni di Lavezzi, Cavani e Higuaín hanno permesso a De Laurentiis di alzare l’asticella delle spese (per la stagione 2011/2012, l’ultima di Lavezzi in azzurro, i costi della produzione erano decisamente più bassi, 129 milioni di euro), e di assorbire risultati finanziari negativi senza grossi contraccolpi alla competitività dell’organico. Anche perché un lavoro positivo sui trasferimenti in entrata e nella valorizzazione dei calciatori ha portato alla costruzione di una rosa di altissimo livello, la seconda per valore economico in Serie A (434 milioni, fonte Transfermarkt), la 12esima per valore nell’ultima Champions a fronte di un’età media di 27,3 anni. In virtù di questi dati, non è eccessivo pensare e scrivere che il Napoli sia un club in overperforming rispetto alla sua reale dimensione economica. E che ha ancora degli ampi margini di miglioramento, considerando l’appeal di certi elementi sul mercato nazionale e internazionale: anche una sola operazione in uscita a cifre importanti integrerebbe i ricavi, rendendo fattibili acquisti di alto livello.
Certo, resta la distanza strategica dai top team europei. In quest’ottica un ulteriore salto in avanti dell’azienda-Napoli passa da due strade fondamentali, per ora lontane dal trademark di De Laurentiis: investimenti immobiliari e una strategia di potenziamento commerciale. Uno stadio e un centro sportivo di proprietà, oppure gestiti direttamente dal club, creerebbero nuovi circuiti di crescita per gli introiti strutturali, soprattutto perché inciderebbero su aree poco sfruttate del bilancio: nell’ultima stagione, per esempio, i ricavi del matchday (19 milioni di euro) hanno impattato per il 10% sul fatturato; il settore giovanile, invece, ha prodotto solo sei calciatori negli ultimi dieci in grado di mettere insieme più di 5 presenze in Serie A (Insigne, Izzo, Trotta, Sepe, Maiello, Vitale). Qualche segnale è arrivato negli ultimi giorni, De Laurentiis ha approvato un progetto di totale ristrutturazione del centro di Castel Volturno, un investimento da 1,3 milioni di euro per il restyling dei campi e l’espansione delle aree d’allenamento.
Anche per quanto riguarda lo sviluppo del brand e delle sponsorizzazioni, il Napoli sembra aver iniziato un lavoro più articolato: l’accordo di Insigne con Adidas ha creato una nuova sinergia, sono state annunciate partnership commerciali con la Cina, i social network hanno migliorato la quantità, la qualità e la trasversalità internazionale dei contenuti, pubblicati in diverse lingue. Anche l’arrivo di Carlo Ancelotti fa parte di questa strategia del cambiamento: il sito Sportthinking.it ha analizzato l’aumento incrociato dei follower sugli account ufficiali del Napoli e del tecnico di Reggiolo, con 40mila nuove interazioni nelle dodici ore successive all’ufficializzazione del nuovo contratto. Sono indizi di un possibile cambio di politica, De Laurentiis potrebbe aver seguito un percorso inverso: avviare una nuova fase di crescita strutturale della società dopo aver stabilizzato la squadra in una dimensione sportiva d’élite. Il viaggio verso il futuro, forse, è già iniziato. Ed è l’unica strada possibile per il passaggio al livello successivo, quello in cui la competitività sul campo è solo un riflesso di quella finanziaria.