Cosa aspettarsi dal Tour de France

Dal caso Froome ai protagonisti della corsa. Ma anche i possibili outsider e gli uomini da seguire in volata.

Campioni, salite e pavé – Un Tour diverso?

Mica semplice il compito di una corsa a tappe che parte appena un mese e mezzo dopo la conclusione del Giro d’Italia 2018. L’edizione numero 101 della corsa rosa è stata un compendio quasi esaustivo di tutto quello che un Grande Giro moderno dovrebbe essere: imprevedibile, combattuto, spettacolare, dagli elevati contenuti tecnici. Arrivare dopo tre settimane di ciclismo di questo tipo implica, anche per una corsa nobile come il Tour de France, il concreto rischio di assomigliare a un vino in cartone servito presso una tavola su cui fino a qualche minuto scorrevano litri di Franciacorta doc. In più, fuor di metafora, i fatti: è dal 2012 che la Grande Boucle viene invariabilmente decisa presto, durante la prima o al massimo la seconda settimana di corsa, e con pochissimi passaggi di memorabile spettacolarità.

Eppure esistono, alla vigilia del Tour 2018, almeno due argomenti importanti a sostegno dell’ipotesi – o della speranza – che le prossime tre settimane possano appassionare come non succedeva da tempo i fedeli dell’evento sportivo più caldo dell’estate. Il primo motivo è l’immarcescibile charme del Tour, quel mix di frenesia mediatica e fascino storico che nello scorso ventennio è stato in grado di superare indenne minacce molto più ferali di qualche edizione agonisticamente scialba. E il richiamo della maglia gialla quest’anno appare più irresistibile del solito, se possibile: dei primi 50 corridori nel ranking mondiale dell’UCI, ben 41 saranno il 7 luglio in Vandea; dei primi 100, 74. Si daranno battaglia oltralpe 16 diversi detentori di classiche-monumento, nonché i vincitori di tutte le corse WorldTour disputate finora in stagione (ad eccezione di Jay McCarthy).

La conferma della presenza di Chris Froome (di cui scriviamo a parte) ci consegna un elenco di pretendenti al podio quasi impossibile da snocciolare per intero, e anche gli arrivi in volata si annunciano affollatissimi. La riduzione del numero di componenti di ciascuna squadra (da 9 a 8), in pratica, ha ottenuto come primo effetto quello di elevare ulteriormente la qualità media dei partenti, al punto che non è peregrino immaginare che il Tour 2018 vada considerata come la corsa a tappe dal livello agonistico più alto di sempre. Sebbene una così elevata concentrazione di campioni non si traduca in un’automatica garanzia di spettacolo, è innegabile che sia di per sé una gustosissima contingenza. Di rado accade – nel ciclismo, ma più in generale nel mondo dello sport – che tutti i migliori esponenti di una disciplina si confrontino continuativamente per tre settimane, ogni giorno.

Per aggiungere pepe all’esplosivo contesto che sarà certamente alimentato dall’attualità e dall’attrito tra tutte le stelle al via, gli organizzatori del Tour hanno messo a punto una serie di accorgimenti che vale la pena di passare rapidamente in rassegna. 

Il percorso, dopo una prima settimana piuttosto ordinaria (5 arrivi in volata, 2 tappe mosse e la cronosquadre), propone al nono giorno l’attesissima tappa di Roubaix, considerata il perno attorno al quale ruoterà l’intera corsa. Il pavé non è in assoluto una novità al Tour (vi ricorderete Nibali nel 2014), ma mai era stato così preponderante: 21.7 km sulle pietre possono essere un disastro per i meno avvezzi e un’estasi per gli habitué della specialità; soprattutto, aggiungono un elemento di caos che al Tour è molto mancato, di recente.

Rieditando una formula complessivamente vincente nelle ultime edizioni, torna – anzi, raddoppia – il format delle tappe-di-montagna-corte-che-più-corte-non-si-può: tappa 11, 108 km con arrivo a La Rosière, e, soprattutto, tappa 17, 65 km con arrivo sull’inedito, spaventoso Col du Portet (16 km all’8.7%). Quest’ultima frazione, che precede di due giorni il tappone pirenaico con arrivo in discesa dall’Aubisque, presenta anche la discussa novità della partenza in stile “griglia di Formula 1”: i corridori partiranno suddivisi in gruppi in base alla propria posizione in classifica, con i big costretti al confronto diretto dal primo metro di gara.


Infine, il giorno prima dei Campi Elisi, l’unica cronometro individuale in programma: 31 km – mossi – che non dovrebbero modificare la sostanza del Tour 2018. In sintesi, si tratta di una corsa adatta agli scalatori e ai coraggiosi. I primi non se ne sono mai andati dal ciclismo; i secondi sembravano in via d’estinzione, ma l’indiscutibile godibilità di questo scorcio di stagione 2018 ci ha confidato, nemmeno troppo sottovoce, che la tendenza è cambiata – forse. (Leonardo Piccione)


Cercando un’altra Brexit – Froome vs Dumoulin


L’immediato avvicinamento al Tour, come saprete, è stato caratterizzato dall’esplosione del caso-Froome. Un cortocircuito regolamentare e comunicativo che ha fatto dimenticare precedenti illustri e recenti, rischiando di travolgere la corsa prima ancora del via. L’indagato Froome, a detta degli organizzatori del Tour, avrebbe potuto minare l’immagine della Grande Boucle. Come a dire: non solo non sono i corridori a fare grande il Tour, come si diceva da sempre (giustamente), ma essi possono addirittura sminuirlo.

Sulla discutibile richiesta di Prudhomme avremmo potuto pubblicare un approfondimento, ma già solo nello scriverlo ci siamo annoiati almeno quanto quelli dell’Agenzia Mondiale Antidoping, che non appena appreso del procedimento francese han pensato di chiudere il caso dopo 10 mesi di attesa: il Tour può cominciare tranquillo, la sua immagine resta intatta. Il suo favorito, uno solo: Christopher Froome.

A separare l’anglo-kenyano dalla quinta maglia gialla che lo proietterebbe oltre la storia restano tuttavia alcune preoccupazioni. Prima di tutto, l’accoglienza dei tifosi d’oltralpe. Per il grande pubblico, specie quello francese, questa assoluzione in extremis non sarà facile da digerire: la Sky si aspetta nuovi fischi e contestazioni, tanto che per il Tour ha appositamente ideato un camouflage con una maglia bianca e un’orca sulla schiena, nella speranza di deviare un po’ di discussioni sul tema dell’inquinamento degli oceani.

Le altre preoccupazioni arrivano da una lista di pretendenti che appare più lunga che mai, guidata dallo stesso nome di un mese e mezzo fa: sulla carta, questo Tour dovrebbe essere un altro Froome vs Dumoulin. Il fenomeno delle corse a tappe di questo millennio contro colui che vorrebbe e potrebbe soppiantarlo. Eppure l’olandese pare sconfitto in partenza, vuoi per l’assoluta superiorità di un rivale capace di domare anche la burrasca che avrebbe potuto spazzarlo via, vuoi per un percorso completo, un tracciato che si farà sentire nelle gambe, specie in quelle di chi in Francia non potrà troppo contare sulla squadra.

Perché se Froome in quanto a compagni si trova al solito in posizione di eccellenza assoluta, Dumoulin ha dovuto salutare negli scorsi giorni il suo gregario più fidato: Wilco Kelderman resta a casa con una spalla malconcia. Tom Dumoulin vola in Francia affidandosi al Caligola di Camus: sarà realista, chiederà l’impossibile. (Filippo Cauz)


Tris d’assi – Il grande azzardo della Movistar

Uno dei temi ricorrenti nel dibattito pre-Tour degli appassionati è la composizione delle squadre partecipanti. In genere il confronto si anima tra chi sostiene la necessità di avere un unico capitano per puntare alla classifica generale e chi, invece, ritiene sia meglio averne due, in caso il primo fallisca l’obiettivo. Eusebio Unzué, team manager della Movistar, quest’anno ha deciso di aggiungere un’opzione inedita: non uno e nemmeno due capitani, ma tre.

Una scelta insolita, che risulta ancora più interessante nell’anno in cui le nuove disposizioni dell’Unione Ciclistica Internazionale consentono a ciascuna squadra di schierare alla partenza solamente 8 corridori (erano 9 fino alla stagione scorsa). Di conseguenza, il trio di capitani composto da Alejandro Valverde, Mikel Landa e Nairo Quintana potrà beneficiare del lavoro di appena altri cinque corridori: Erviti, Rojas, Bennati, Amador e Soler, gruppetto all’interno del quale gli ultimi due nomi non sono proprio abituati al mestiere degli aguador.

Pensando al percorso del Tour 2018, con una prima metà (tra cronosquadre e pavé) molto poco adatta alle caratteristiche della Movistar e una seconda invece densa di salite, il manager spagnolo deve aver messo in conto che probabilmente la sua squadra si troverà presto nella condizione di dover recuperare terreno nei confronti dei diretti avversari, in particolare nei confronti di Froome. Come un giocatore di poker stufo di aspettare la mano perfetta, Unzué ha deciso di provare a sparigliare la partita con un all-in, puntando tutto sulla seconda metà della corsa.

Un grosso azzardo, immaginando il conto salato che l’assenza di un numero sufficiente di protettori potrebbe presentare al trio biancazzurro nel corso della nona tappa, la Arras-Roubaix, con i suoi quasi 22 km sul pavé. D’altro canto, sarebbe stato altrettanto azzardato escludere uno dei magnifici tre dalla Grande Boucle. Come privarsi di un Alejandro Valverde che nonostante i 38 anni è, con le sue 11 vittorie, alle spalle del solo Elia Viviani tra i corridori più vincenti della stagione? E come escludere Mikel Landa, uno degli scalatori più consistenti dello scorso Tour de France, passato alla Movistar proprio per superare le delusioni di una carriera fatta finora di rimpianti e ordini di squadra? E come, infine, lasciare a casa Nairo Quintana, l’ultimo corridore Movistar a vincere un grande giro, tre volte sul podio al Tour de France; l’unico, insieme a Nibali e Contador, a esser riuscito in questi anni a mettere in discussione l’egemonia di Froome e, soprattutto, dei tre, il capitano che più conta sulla prossima Grande Boucle per rilanciarsi?

Forse Unzué nella delicata gestione tattica dei suoi assi dovrebbe ispirarsi proprio al britannico della Sky e alla sua recente impresa sul Colle delle Finestre: che senso avrebbe avere tre frecce così appuntite e precise al proprio arco e non usarne neanche una per provare a colpire da lontano? (Francesco Bozzi)


Enfants du pays – Il carico di attese di Bardet e Barguil
    

                       

Scalatori e insieme coraggiosi sono di certo Warren Barguil e Romain Bardet. A renderli speciali sono due fatti: sono entrambi francesi e, soprattutto, in corsa sono istintivi come pochi, nel senso che non di rado più che guardare il misuratore di potenza e ascoltare gli ordini dell’ammiraglia, corrono lasciandosi ispirare dalle sensazioni.

Bardet, mandando a quel paese la vocina che gli diceva “aspetta, è troppo presto”, si è preso il secondo posto al Tour 2016 (nel 2017 è stato un po’ meno brillante, terzo); Barguil per avere la possibilità di attaccare tutte le volte che vuole – parole sue – ha addirittura cambiato squadra. Dopo i successi dello scorso anno (due tappe, il decimo posto e la maglia a pois al Tour), si è trasferito dalla grande Sunweb in un team che non fa neanche parte del World Tour, la bretone (come lui) Fortuneo-Samsic.

Ma, nonostante si manifesti spesso nelle medesime forme, l’istintività di Bardet e Barguil ha origini completamente opposte. Se per Bardet, come ha detto una volta, «l’intuito non è mai follia», perché le ispirazioni derivano sempre dall’esperienza delle corse precedenti, per Barguil l’istinto è una spinta totalmente estemporanea, neanche lontanamente allenabile. Per questo motivo, se la carriera di Bardet è un tentativo di miglioramento continuo, spinto da un’eterna insoddisfazione, quella di Barguil è fino ad oggi l’esaltazione del proposito di rimanere come si è.

A pratica dimostrazione di tutto ciò, le loro aspettative per il Tour 2018. Bardet per prepararsi alla tappa di Roubaix ha assaggiato le pietre alla Dwars Door Vlaanderen e si è allenato alla lotta tipica delle classiche partecipando alla Strade Bianche (dove è stato ottimo secondo), alla Freccia Vallone (nono) e alla Liegi-Bastogne-Liegi (terzo), scoprendosi non senza sorpresa un ottimo corridore anche nelle corse di un giorno. Ha infine preso parte al Giro del Delfinato, mostrando una buona condizione e finendo terzo in classifica generale.

Warren Barguil, invece, definisce la sua stagione molto diversamente: «spazzatura», senza giri di parole. Dopo esser guarito da un’infezione batterica in inverno, i suoi risultati migliori sono stati un 17° posto alla Parigi-Nizza e un 14° alla Volta a Catalunya.  Barguil deciderà cosa fare al Tour (classifica generale o nuovo assalto alla maglia a pois) dopo la prima settimana, ma ha confessato che firmerebbe subito per ripetere i risultati dell’anno scorso. Bardet invece ha chiaro in mente il suo obiettivo: è una maglia gialla che ai francesi manca a Parigi dal 1985. (Riccardo Spinelli)

 

La maglia gialla e i suoi proci – Gli altri pretendenti al podio

Il dominio di Chris Froome è così inedito e pervasivo che pare guidare i destini della gara, tanto che andando ad analizzare i suoi rivali il rischio è non di leggerne le prospettive, ma soltanto l’ipotetica interpretazione del copione. Detto del trio Movistar e di Romain Bardet, la lunga lista di sfidanti si completa in un mix di rivali di un’epoca ed eredi giunti finalmente all’età del raccolto. I due rivali di lungo corso rispondo ai nomi di Richie Porte e Vincenzo Nibali. Il tasmaniano è da anni l’alter-ego di Froome sulla carta, ma mai sulla strada. Dopo aver subito un corollario di sfighe da record, Porte ha scelto per un 2018 più soft, tutto focalizzato sulla Grande Boucle, che aggredirà insieme ad una BMC tanto forte quanto preoccupata da un futuro incerto. Sarà probabilmente il più vicino a Froome dopo la cronosquadre del terzo giorno, e l’unico che potrà imitare la tattica dell’inglese per poi provare ad attaccarlo nelle tappe alpine, che paiono disegnate per lui.

Chi sentirà invece meno il condizionamento è Vincenzo Nibali, l’unica altra maglia gialla al via, l’unico che può correre “a cuor leggero”. La sua stagione può dirsi già riuscita a marzo, grazie ad una Sanremo vinta contro ogni pronostico, e il suo prossimo vero obiettivo del 2018 non è sugli Champs-Élysées ma sulle Alpi austriache, al Mondiale. Tutto ciò che di buono potrà portare il suo Tour sarà fieno in cascina, ogni eventuale delusione sarà già dimenticata il 30 luglio. Il percorso gli sorride e la squadra è tra le migliori, la risposta sta alla gamba.

Arriva poi dall’Olanda una LottoNL a due punte. Il leader designato è Steven Kruijswijk, protagonista da anni di grandi prestazioni sfociate in risultati mancati. Lo affianca Primož Roglič, che studia per diventare protagonista. Lo sloveno corre a tutta – e vince – da marzo: il suo obiettivo erano le brevi corse a tappe, e l’ha già centrato. Ora la tentazione di affrettare il passo è forte, ma anche rischiosa. Per quanto abbia già 28 anni, Roglič è ciclisticamente un ragazzino. La sua squadra sa bene il tesoro che ha in mano e non intende gettarlo al vento, per questo deciderà le gerarchie definitive solo dopo la tappa di Roubaix. Sperando che non sia già troppo tardi.

Rigoberto Urán riparte dal podio del 2017, ma per ripetersi deve sperare che si ripeta la stessa corsa o quasi, per potersi difendere senza prendere troppo vento in faccia. La statistica gioca dalla sua parte, ma i grandi numeri dicono anche che qualcosa prima o poi al Tour dovrà cambiare. E quella sarà magari l’occasione per leggere nomi diversi nei quartieri altissimi della classifica. Come quello di Adam Yates, che spera di seguire i progressi del fratello; o come Jakob Fuglsang, il capitano di un’Astana in stagione di grazia, un ruolo che attende da anni e che ora deve dimostrare di saper reggere.

Bob Jungels torna al Tour dopo tre anni in cui è cresciuto di testa e di gamba, fresco di un titolo nazionale conquistato dando 14 minuti al secondo, ma non serve dire in Francia ci sarà tutt’altra concorrenza. Chiudono la fila Il’nur Zakarin e Daniel Martin, che auspicano due svolgimenti di corsa opposti ma sono accomunati dai ceri accesi a divinità diverse per restare in piedi sino alla terza settimana, e sedersi casomai sul posto libero più prossimo al podio. (Filippo Cauz)

 

Cav, Gav, Sagz – Il Gran Gala della Velocità



Che la prima settimana del Tour de France sia dedicata al Gran Galà della Velocità è una consuetudine. Le ruote veloci sgomiteranno per affermarsi in una delle tappe di apertura, poi lasceranno il proscenio a scalatori e avventurieri, e si daranno appuntamento a Parigi.  

In totale sono 8 le tappe adatte per un arrivo in volata, e c’è da giurare che sarà proprio un velocista a conquistarle. Già, perché è dal lontano 2009 che una tappa pianeggiante del Tour non vede l’affermazione di un non-velocista (l’ultimo a scombussolare i piani fu Thomas Voeckler, assente quest’anno per la prima volta dopo 15 anni). Inoltre, il lotto delle ruote veloci ai nastri di partenza di questo Tour è di una qualità impressionante, e il tema che lo attraversa è un grande classico dei moventi sportivi: lo scontro generazionale.

Cavendish, Greipel e Kittel hanno collezionato complessivamente 59 vittorie di tappa al Tour, e sono i dominatori delle edizioni dell’ultimo decennio. Cavendish ambisce a sfilare niente meno che Eddy Merckx (il record di Cannonballal Tour è a quota 30, il Cannibale lo precede a 34), ma l’ala del tempo batte in fretta, e il 2018 dell’inglese ha portato in dote una sola vittoria (datata ormai 8 febbraio) e tante cadute. Agli ultimi acuti di una carriera illustre è chiamato anche André Greipel, che compirà 36 anni durante il primo giorno di riposo di questo Tour. Lo scorso anno il Gorilla ha chiuso la prima Grande Boucle senza vittorie dopo sei anni, ma stavolta vuole tornare a vincere e ha tutta la Lotto Soudal al suo supporto. Il 2017 è stato invece foriero di successi per Marcel Kittel, il quale però quest’anno sta faticando, e non poco, a trovare i giusti meccanismi con la Katusha, sua nuova squadra.

Accanto ai plurivincitori, ecco salire le quotazioni della nuova generazione. Fernando Gaviria è all’esordio assoluto al Tour dopo i successi al Giro dello scorso anno. Il colombiano ha uno strano rapporto con le volate: o vince o svanisce nella pancia della classifica (8 vittorie quest’anno, ma nessun piazzamento nelle prime cinque posizioni in assenza di vittoria). La Quick-Step Floors assicura per lui un incondizionato supporto, tuttavia i belgi dovranno anche tutelare Bob Jungels in chiave-classifica. L’altro giovane che ambisce al cambio della guardia è Dylan Groenewegen che, a differenza di Gaviria, ha già sperimentato cosa significhi vincere al Tour con l’affermazione nell’ultima tappa dello scorso anno. Vedremo se il golpe avrà luogo.

E poi? Beh, e poi c’è Peter Sagan, che è anche velocista ma non è solo velocista. A differenza di tutti gli altri nomi presenti in questo paragrafo, Sagan può dire la sua anche in tappe non strettamente riservate ai velocisti: come sempre, saranno più i giorni in cui sarà protagonista che quelli in cui passerà inosservato. Il campione del mondo quest’anno punta, oltre che a divertirsi e divertirci, anche a riconquistare la maglia verde dopo la squalifica del 2017 e a raggiungere così Erik Zabel a quota sei vittorie nella classifica a punti. Non a caso una volta si faceva chiamare “Tourminator”. (Pietro Pisaneschi)

 

Utopia in giallo –  Thomas De Gendt e i fuggitivi

La scorsa estate Thomas De Gendt è andato all’attacco in undici tappe sulle 19 frazioni in linea, per un totale di 1.280 chilometri, circa un terzo dell’intera Grande Boucle. Non ha vinto tappe, però, e nemmeno il Premio della Combattività (assegnato infine a Warren Barguil). Sul momento il belga ci era rimasto male, poi però il Tour è finito e De Gendt ha cominciato a pensarci su: se vai in fuga ad ogni occasione, ti fai un mazzo così, e poi non ti danno nemmeno un premio, allora tanto vale preparare meglio i propri attacchi, far sputare il sangue a tutti per riprenderti, e quando va bene festeggiare. Fedele a questo spirito aggressivo, De Gendt è andato a prendersi una tappa alla Vuelta a fine stagione, ed è ripartito in questo 2018 festeggiando al Catalogna e al Romandia… e ora è pronto a mettere a ferro e fuoco il Tour de France.

Lo farà sperando che qualcuno la pensi allo stesso modo e voglia dargli un cambio, magari qualche francese: nomi buoni sono quelli di Lilian Calmejane, Arthur Vichot e soprattutto Yoann Offredo, che l’anno scorso, al termine della decima tappa, era furioso: «Tutti a lamentarsi che mancano le fughe, però quando poi attacchi non ti segue nessuno. Io ci provo anche domani, se qualcuno vuole seguirmi all’attacco domani, venga a trovarmi al bus della squadra prima della partenza».

Davanti a quel bus si potrebbero incontrare anche Guillame van Keirsbulck, folle e magnifico esploratore solitario delle campagne, o la maglia di campione austriaco di Lukas Pöstlberger (nelle tappe di pianura), o ancora quella azzurra di Omar Fraile e quella rossa di Dani Navarro (ai piedi delle montagne). Quella di De Gendt no, lui non ha bisogno di appuntamenti, si sa sempre dove trovarlo: davanti. (Filippo Cauz)