Galatasaray, Fenerbahçe, Besiktas e Basaksehir: quattro diversi modi di vedere il mondo, non solo il calcio.
Scrive il regista Ferzan Özpetek che Istanbul è la città dell’hüzün, una parola intraducibile ma che si può rendere al meglio richiamando un sentimento che si colloca a metà tra tristezza e nostalgia. Istanbul, l’antica Costantinopoli, è malinconia: racconta di un mondo che è stato e che da qualche parte, sotto diverse forme, riappare, e ti prende più il cuore che la vista. Una consapevolezza che entra sotto pelle camminando per Istiklal Caddesi, il Viale dell’Indipendenza, continuamente trasformato da sempre più avveniristici cantieri. Un solo rituale, a Istanbul, non cambia mai, ed è quello del çay, l’abitudine turca di scandire le giornate con piccole pause dedicate al tè del Mar Nero servito in bicchieri di vetro. Per il resto, chi non beve, sul Bosforo, corre.
La frenesia è lo stato d’animo più comune e maggiormente visibile a occhio nudo nella nuova Istanbul. Modernità, dinamismo e hüzün: gli stravolgimenti urbani degli ultimi vent’anni hanno provocato contestazioni, scetticismi ma anche smodati elogi, arrivati persino da parte dei più accaniti detrattori dell’attuale governo. È difficile, infatti, negare che in Turchia non si costruiscano strade, aeroporti e stadi: il Pil è cresciuto con valori superiori al 5 per cento nel corso del 2017, il tutto, però, mentre le storiche anime della città iniziano a scomparire, sbiadendo negli album dei ricordi.
Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Repubblica, ha scherzato più di una volta a proposito dei suoi ricordi. Si ritrova, ad esempio, calciatore per i vicoli di Kasımpaşa, anche se in molti sarebbero pronti a giurare che si tratti esclusivamente di fantasia, di un sogno costruito a posteriori. Sogni che si intrecciano con la realtà e attraversano l’anima di una città che al pallone è da sempre legata, tanto dal farsi carico di una simbologia che permette di decriptarne, grazie a esso e alla passione che si porta dietro, l’anima profonda.
«Esisteva un’identità chiara per Fenerbahçe, Beşiktaş e Galatasaray negli anni ‘50, ‘60 e ‘70», racconta Mert Aydın, giornalista di Ntv Spor e vincitore, nel 2014, del premio Sidat Simavi, che la Comunità dei Giornalisti in Turchia assegna alle voci più eminenti e rispettate nel mondo della comunicazione. «Una volta un professore di scienze politiche dell’università di Ankara, l’accademico Kurthan Fişek, disse che la borghesia supportava il Fenerbahçe, l’aristocrazia il Galatasaray e il popolo il Beşiktaş. Tra un po’ non potremo più dire così: già ora in tutta la Turchia puoi trovare tifosi della stessa squadra con differenti origini e valori. Sarà così anche qui a Istanbul».
Costruzioni, gru, uomini al lavoro anche di notte: è la musica di Beşiktaş, quartiere a pochi passi dallo storico Palazzo Dolmabahçe, dove gli ultimi sultani osservavano le barche scorrere sul Bosforo. Un’istantanea scolorita, ormai, nel momento in cui incontriamo Erhan e Idil, fidanzati, bardati di bianco e nero, i colori della squadra, dalla testa ai piedi. Lui, 36 anni, racconta che il Beşiktaş fa parte della sua famiglia da sette generazioni. Lei, 27 anni, sposta immediatamente la conversazione su un altro piano. «Ci hanno riempito di spray al peperoncino», ricorda facendo riferimento ai giorni di Gezi Parkı, quando nel giugno del 2013 i tifosi di Beşiktaş, Galatasaray e Fenerbahçe si unirono per la prima volta in un fronte comune per difendere uno dei pochi polmoni verdi della città. Le proteste furono soppresse con gas lacrimogeni, ma Gezi Parkı è ancora verde, per ora, e Beşiktaş è rimasto un angolo vivace, che spazia tra graffiti anarchici e gigantografie di Mustafa Kemal Atatürk. Il generale delle guerre d’indipendenza della Turchia è presente anche all’interno dello stadio bianconero, con un ritratto enorme posto sopra la tribuna stampa. I fischi assordanti del Vodafone Park accolgono così l’Istanbul Başakşehir, squadra ospite nel derby, non un club come gli altri.
Per i ragazzi del Beşiktaş, quelli che si sono opposti alla cancellazione di Gezi Parkı, quella squadra rappresenta il Potere costituito. «Questa è stata la partita più calda della mia vita, l’atmosfera era incredibile», ci confida Abdullah Avcı, ex tecnico della Nazionale turca e unico allenatore del Başakşehir dal giorno della sua fondazione. «Per tre anni noi abbiamo sentito molto l’importanza di questa partita, e ora siamo tutti d’accordo: anche loro ora parlano di derby». Il lavoro di Avcı e la visione a lungo termine di un team altamente preparato ha portato alla ribalta, in Turchia, un club fondato nel 2014, il Başakşehir. Municipalità situata a un’ora e mezza abbondante dalle luci e dal glamour del Bosforo, Başakşehir è un’entità ancora in costruzione. Villaggio, tra qualche anno forse città: la squadra di calcio ha contribuito a dar voce a una periferia mai considerata prima.
A un’ora e mezza abbondante dalle luci del Bosforo, Başakşehir è un’entità ancora in costruzione. Villaggio, tra qualche anno forse città: la squadra di calcio ha contribuito a dar voce a una periferia mai considerata prima«Stiamo investendo molto sui giovani, dai 6 ai 15 anni. Dovremo aspettare ancora un po’», racconta Mustafa Erogut, direttore esecutivo del club, uno dei più giovani dirigenti dell’intero panorama calcistico turco. «Le persone cambiano nome, religione, ma non cambieranno mai la loro squadra di calcio», continua Erogut, che sta attuando un programma per attrarre famiglie e bambini delle periferie allo stadio. Una politica inedita ma necessaria, per una squadra senza storia. Il colore arancione è l’unica eredità del precedente club, il controverso Istanbul BB – squadra che era di proprietà del comune, contestata per l’uso di denaro pubblico. Il partito di governo Akp ha reciso ufficialmente ogni legame con il club dell’ovest di Istanbul, ma le immagini della cerimonia inaugurale del Başakşehir hanno fatto il giro del mondo: in campo è sceso nientemeno che Recep Tayyip Erdoğan, con tanto di divisa ufficiale da capo a piedi.
«Il signor Erdoğan ha vestito la nostra maglia poco prima di essere eletto 12° presidente della Repubblica turca: per quell’occasione scelse il numero 12», spiega Erogut. «L’abbiamo messo nella Hall of Fame, nessun altro giocatore potrà vestire quella maglia. Lui è il nostro numero 12. Ok, lui ci piace molto, e penso che lui apprezzi noi. Ma è tutto qui», conclude il direttore esecutivo del club più discusso del Bosforo. Un rapporto molto cordiale, quello tra il Başakşehir e l’Akp, una questione che ha accelerato la rivalità con il Beşiktaş. Per anni, però, Istanbul è stata dominata da altri giochi: le lotte per l’egemonia tra Galatasaray e Fenerbahçe. Due squadre con anime davvero differenti.
Da un lato l’élite europea, il Galatasaray, dall’altro l’anima asiatica di Istanbul, il Fenerbahçe. Faccia a faccia, con il Bosforo nel mezzo, hanno costruito un secolo di storie epiche, dai risvolti spesso controversi. Ultimo, ma non in ordine d’importanza, il sussurrato legame tra gli ultrà del Gala con il movimento islamico di Fethullah Gülen, discusso politologo tuttora in esilio negli Usa: sotto indagine, stavolta, è un messaggio di supporto nascosto dagli ultrAslan in una coreografia dell’ultimo derby vissuto a ottobre. Pallone e politica si incrociano a Istanbul, e ci offrono diversi punti di vista che ci aiutano a capire un po’ di più questa città misteriosa.
Soltanto cinque squadre hanno vinto la Süper Lig turca dalla sua fondazione nel 1959, e tre di queste sono di Istanbul. In termini di titoli vinti, la classifica è:
21 Galatasaray 19 Fenerbahce 15 Besiktas 6 Trabzonspor 1 Bursaspor«Il calcio ha il potere di dominare l’agenda politica di una nazione», racconta Pınar Bekbölet, analista con un passato a Bein Sports e un futuro da manager nel calcio. «Quando il Galatasaray si qualificò alla fase finale della Coppa Uefa nel 2000, diventò un simbolo dell’identità turca. La squadra viaggiava sui jet privati dei politici. Almeno metà del parlamento turco all’epoca guardò la finale di Copenaghen. Era molto più di una semplice squadra turca che vinceva in Europa: era una nazione che trionfava in guerra in un continente che non voleva i suoi cittadini». Non a caso, è il Galatasaray la squadra più supportata dai (tanti) turchi di Germania: quella tra Europa e Turchia, a cavallo del nuovo millennio, era già una relazione complessa e piena di malintesi. Ed è beffardamente sulla riva europea del Bosforo, dove fu fondato nel 1481 il Liceo Galatasaray.
Lì nacque un’identità che sopravvive ancora oggi. Gli studenti che hanno avuto la fortuna di camminare per quei corridoi, nel Ventesimo Secolo, hanno creato un’élite molto esclusiva. Un’anima aristocratica, volutamente snob, ritratto di quella Turchia che nei primi anni ’30 faceva razzia di parole francesi per arricchire il vocabolario di una lingua appena nata. A quei tempi, chi osservava l’altro lato del Bosforo dalla Torre di Galata finiva per considerarlo inferiore e lontano. Fino al primo ponte del 1973, l’unico modo per raggiungere Kadıköy, quartiere sul lato asiatico e cuore del tifo del Fenerbahçe, era il traghetto. Nessuno avrebbe immaginato che, con il passare degli anni, sarebbe diventato quello il luogo più importante del calcio a Istanbul.
«Il Fenerbahçe ha costruito un netto dominio nei derby», prosegue Pınar Bekbölet. «Quando il Galatasaray finalmente sconfisse il Fener in una finale di Coppa nel 1996, e non accadeva di frequente, il tecnico del Gala, lo scozzese Graeme Souness, prese un’enorme bandiera giallorossa e la piantò al centro del campo avversario. Quell’atto di pazzia causò un pandemonio. I tifosi del Fenerbahçe invasero il campo: Souness fu fortunato a uscire vivo dallo stadio». La rivalità era ormai fuori controllo: l’anno successivo un ultrà del Fener, Rambo Okan, rispose all’affronto di Souness piazzandosi, con tanto di coltello in mano, al centro del territorio avversario, su suolo europeo. Così è cresciuta la leggenda del Derby Intercontinentale. Una partita che, però, molti anni prima significava rispetto. Quello tra i turchi e i greci, che vivevano ancora in gran numero nel territorio di Istanbul.
Da un lato l’élite europea, il Galatasaray, dall’altro l’anima asiatica di Istanbul, il Fenerbahçe. Faccia a faccia, con il Bosforo nel mezzo, hanno costruito un secolo di storie epiche, dai risvolti spesso controversiLa prima icona del Fenerbahçe fu infatti Lefter Küçükandonyadis, attaccante che arrivò a vestire anche la maglia della Fiorentina. Era così rispettato da essere omaggiato persino dai tifosi del Galatasaray. Originario di Büyükada, un’isola nel Mar di Marmara, sopravvisse al tentato pogrom del 1955, una notte che lo stesso Lefter scelse di non raccontare fino ai primi anni ’90. Le case di armeni, greci ed ebrei furono prese di mira: diversi tifosi del Fenerbahçe, gli stessi che supportavano Lefter ogni domenica, assaltarono la sua villa. Nonostante tutto, lui scelse di restare. Lefter è così diventato immortale: la sua statua è ancora eretta di fronte al parco Yoğurtçu, a pochi isolati dallo stadio a Kadıköy. Un distretto rassegnato, che ha votato in massa No al referendum costituzionale dello scorso aprile, vinto di misura e non senza polemiche dal fronte del Sì sponsorizzato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. Così, oggi, il quartiere più legato al Fenerbahçe guarda al monumento per Lefter con una certa malinconia di sottofondo. Quella, Ferzan Özpetek la chiamerebbe hüzün, una parola che riassume ancora perfettamente, nel 2018, l’immutato fascino di Istanbul. Un fascino che scorre da millenni, accompagnato, oggi, pure da un pallone di calcio.