In una scena inizialmente tagliata de La Grande Bellezza, un vecchio regista italiano, dopo una carriera lunga trentadue film, immagina di girare il proprio ultimo lavoro, come testamento intellettuale della propria opera. Il messaggio che vorrebbe lasciare ai suoi spettatori è un invito a rispettare la loro curiosità, a non frenarla per pigrizia o scetticismo. La protagonista del film, una ragazza i cui occhi cambiano colore ogni qual volta vengono chiusi e riaperti, è metafora del primo incanto visivo nella vita del regista: la vista del primo semaforo installato a Milano, all’incrocio tra Piazza del Duomo e via Torino, in mezzo a una gran folla curiosa, radunata a guardarlo. Paolo Sorrentino usa un semaforo per trasmettere uno dei significati del suo capolavoro; Javier Pastore, uno dei trequartisti puri più taletuosi di questo decennio, fa lo stesso per spiegare il proprio calcio: «Si tratta di avere coscienza di distanza e tempo», ha risposto a El País, che lo paragonava a Iniesta per una finissima capacità comune di percepire la presenza dei marcatori senza vederli. «Passo la vita a guardare ciò che mi circonda: quando guido, so in che momento il semaforo diventerà rosso. La strada di casa la faccio sempre trovando quasi tutti i semafori verdi». Vedere giocare il Flaco è una forma di incanto visivo perché, come ogni gran trequartista, modella la tecnica in giocate magnetiche e, come dice Ángel Cappa, trasforma la realtà.
Ángel Cappa è un allenatore argentino, psicopedagogista, filosofo, ex vice di Menotti e Valdano tra Barcellona e Real Madrid, ma soprattutto teorico del calcio propositivo. In quasi trent’anni di carriera tra alti e bassi ha combattuto apertamente la cultura resultadista del fútbol, colpevole, a suo dire, di aver barattato il piacere di giocare con i punti. Il dibattito ideologico sul gioco, in Argentina, ha tenuto banco dalla seconda metà del Novecento in avanti, riproponendosi durante il picco di ogni esperienza interessante: nel 2009, Cappa tornò a far sentire la propria voce grazie al suo Huracán, una squadra libera e avventurosa, che pur perdendo il campionato all’ultima giornata tra mille polemiche contro il Vélez di Ricardo Gareca, giocò il calcio migliore del torneo. Javier Pastore esplose in quella squadra a vent’anni, mostrando uno stile di gioco sfrontato, in perfetta sintonia con il modo di concepire il calcio del suo allenatore: «Dico sempre ai miei giocatori di rischiare in campo, di non aver paura di commettere un errore o di esibire il loro talento. Con Javier non ho dovuto insistere», ha raccontato Cappa a SoFoot, ormai sette anni fa. «Addirittura ho dovuto dirgli che un tunnel non sempre è utile, che non è furbo scommettere un milione di dollari per vincerne uno. È un giocatore sfacciato e coraggioso». Il rapporto tra l’allenatore e Pastore è proseguito per corrispondenza, dopo che l’enganche è stato comprato dal Palermo: a distanza, Cappa continuava a suggerirgli accorgimenti per essere più efficace in campo. La spinta decisiva alla prima fase della sua carriera, però, la diede Delio Rossi, impostando la squadra sul 4-3-1-2 e confermando, quattro anni dopo l’esplosione di Mauro Zárate nella sua Lazio, di saper creare i presupposti migliori per attutire l’impatto in Serie A dei talenti più anarchici. In due stagioni di piena libertà toccò vette di gioco altissime, fece piangere Zamparini, segnò una tripletta in un derby contro il Catania, arrivò in finale di Coppa Italia e, soprattutto, attirò le mire del Paris Saint-Germain, in piena urgenza di riscrivere la propria storia.
La seconda vita del Paris Saint-Germain è iniziata con l’acquisto di Javier Pastore, né un giorno prima, né un giorno dopo. Con il suo arrivo, tutto è cambiato: per la società, che con il primo esborso stellare della propria storia (43 milioni di euro) ha inaugurato un modus operandi perfezionato negli anni e in uso ancora oggi che il Psg ha in rosa il giocatore più pagato della storia del calcio, ma soprattutto per i tifosi. Soltanto tre anni prima, i Parisiens evitavano in extremis la retocessione in Ligue 2: anche se i vari Gameiro, Lugano, Ménez, Matuidi, Sirigu, Bisevac e Sissoko, tutti arrivati insieme al Flaco, aggiunsero qualcosa di importante al gruppo di Nenê, Hoarau, Bodmer e Tiené, fu grazie a Pastore che i tifosi videro con i propri occhi quanto fosse profondo il gap tra ciò che avevano vissuto fino ad allora e ciò che li stava aspettando. Il controllo perfetto di palla, spazio e tempo, l’eleganza nel muoversi con leggerezza indossando un fisico di 187 cm e la sua dolcissima inclinazione al petit pont (il tunnel, in Francia), avevano incantato il pubblico del Parco dei Principi: tutto ciò che Javier Pastore mostrava di saper fare su un campo da calcio alimentava la fiducia nel futuro e le aspettative che i tifosi riponevano nel loro club, mai così ricco e così ambizioso.
Il suo primo anno in Francia, chiuso senza titoli ma con sedici gol, sarebbe stato ricordato come il migliore, a livello individuale, della sua intera esperienza a Parigi. Dalla stagione seguente la nuova proprietà qatariota iniziò a ridisegnare con maggior forza gli equilibri del calciomercato europeo, portando al Psg Ibrahimovic, Cavani, Verratti, Di María, Draxler, e di conseguenza diminuendo gradualmente il peso specifico del Flaco nel dream team francese. Continuò a essere uno dei punti fermi fino al 2015, quando folgorò anche Éric Cantona: poi un mix letale di infortuni, difficoltà tattiche e concorrenza sempre più spietata lo lasciò in disparte. Secondo Walter Sabatini, che oltre a riservarsi il merito di averlo scoperto dall’Huracán, si concede il diritto quasi paterno di provocarlo, Pastore avrebbe giocato un solo anno a livelli altissimi, per poi sedersi e rassegnarsi a perdere i duelli per un posto da titolare con i nuovi arrivati. La storia del Flaco al Psg rimarrà sostanzialmente incompiuta: in sette anni, la sua crescita è stata lenta e irregolare, e non è riuscito a tenere il passo della parabola ascendente del club, restando bloccato nella propria cornice d’oro nel mito fondativo del Paris Saint-Germain qatariota.
Nonostante ciò, nessun giocatore del nuovo corso del Psg ha avuto un rapporto con i tifosi paragonabile a quello riservato a Pastore. Tantissimi, a Parigi, si chiedono che cosa rimarrà del passaggio del Flaco, dopo il suo trasferimento alla Roma: sicuramente, il ricordo di un giocatore unico, non il più forte ma esteticamente impareggiabile, capace di illuminare le prime grandi notti di Champions League con autentici capolavori, come il suo gol al Chelsea nel 2014. Forse la sua vetta più alta. La stessa domanda se l’è posta France Football, concludendo che i supporters del Psg la risolveranno solo passando da un altro dilemma: accontentarsi della bellezza o rimpiangerne l’evanescenza? La risposta più lucida l’ha data Nasser Al-Khelaifi, annunciando così la sua cessione sul sito ufficiale del Paris Saint-Germain: «Javier rimarrà tra coloro che hanno plasmato l’identità della nostra squadra, del nostro club e del nostro progetto, a livello nazionale e internazionale». Pastore, ancora oggi, è parte fondamentale dell’immagine che un club virtualmente senza limiti come il Psg vuole dare di sé.
A ventinove anni, un’età in cui un giocatore con le sue premesse sa di non aver più margine di errore, Javier Pastore sta per affrontare una stagione cruciale, forse la più delicata in questa decisiva fase della sua carriera. Per farlo deve recuperare nuovamente centralità. Eusebio Di Francesco ha chiarito fin da subito l’importanza che il Flaco ricoprirà nel suo sistema, evidenziando come la sua abilità di palleggio negli spazi stretti sia un unicum, nella rosa giallorossa. Proprio per questo, l’allenatore abruzzese ha schierato Pastore fin da subito, nell’esordio in campionato con il Torino. Attualmente, il fantasista argentino appare ancora fisicamente provato dalla fatica della preparazione atletica, fattore che lo ha penalizzato anche nei punti forti del suo gioco, come la precisione nel palleggio e la lucidità nello scegliere i tempi dei movimenti per conservare il pallone, nascondendolo al marcatore. Senza palla, Pastore si è mosso a ritmi bassi ma intelligentemente su tutta la trequarti, proponendosi come appoggio durante la costruzione sulle fasce, la soluzione più utilizzata dai giallorossi per aprire la difesa granata, e riuscendo quasi sempre a defilarsi per lasciare a Dzeko lo spazio per le sue ricezioni fuori area. L’intesa (o quantomeno, la convivenza) con il bosniaco sarà probabilmente uno dei punti più importanti che definiranno l’efficacia del Flaco nel sistema romanista.
Due anni fa, sempre nell’intervista rilasciata a El País, Pastore ha spiegato la propria relazione con le diverse tipologie di centravanti: «Cavani è il nove che mi piace avere in squadra. Giocare alle sue spalle significa avere venticinque tagli e movimenti a partita. Mi esalta la sua ricerca continua della profondità, in un minuto ti dà tre linee di passaggio diverse». Una punta come il Matador stimola in continuazione l’istinto infallibile dell’enganche per la verticalizzazione, creando una situazione di perfetta complementarietà. «Con Ibrahimovic», ha invece aggiunto, «Cavani restava davanti e spesso Ibrahimovic si abbassava a giocare il pallone con noi (centrocampisti)». Edin Dzeko, oltre a trasformarsi spesso nel vero trequartista della Roma (con anche Pastore in campo, rischiando di sovraffollare quella zona) gestisce lo spazio offensivo in maniera diametralmente opposta all’uruguaiano: privo dell’esplosività di Cavani, che punta a ricevere palla già smarcato e pronto per concludere, l’ex Manchester City ama le ricezioni sui piedi, per costruirsi l’angolo di tiro grazie alle sue strepitose risorse tecniche. In ogni caso, la presenza di Pastore, un top assoluto del nostro campionato per capacità tecniche nello stretto, visione di gioco e sensibilità di tocco, aumenterà il numero di palloni a disposizione del reparto offensivo. Di Francesco, dopo il deludente esordio contro il Torino, ha spiegato che sarebbe solo stata questione di tempo, prima che l’argentino tornasse a essere un fattore in termini di qualità: al Flaco sono bastati un minuto e venti secondi della partita seguente contro l’Atalanta per spiegarlo, con un gol di tacco meraviglioso. Un colpo inventato senza scomporsi, nato da un movimento elegante, quasi impassibile, in pieno contrasto con l’entusiasmo puro di un’esultanza gridata e liberatoria, che sembra voler segnare l’inizio di una nuova fase.