Generazione cerebrale

Da Xavi a Pirlo fino a Lahm: i calciatori ritirati negli ultimi anni hanno introdotto una nuova concezione del gioco, basata sull'intelligenza.

Come sarebbe stato il calcio negli anni a venire, non avevamo bisogno di immaginarlo: lo sapevamo già. Dani Alves, una volta, ha detto di Xavi: «Gioca nel futuro». Talmente avanti da capire in anticipo quanto sarebbe successo in campo, e dunque in grado di vedere la giocata prima degli altri; ma è affascinante prestare, a quell’espressione, un significato più profondo, ovvero attribuire al centrocampista spagnolo il dono di precorrere i tempi, di indicare la via maestra di come si sarebbe giocato a calcio nel futuro, appunto. Rispetto ai primi passi di Xavi tra i professionisti, il calcio è decisamente cambiato: è giocato a più alta intensità, e perciò richiede più corsa, più accelerazioni, più resistenza. Ma non è mai diventata una sfida sul piano fisico. «Cosa fa la differenza oggi nel calcio?», si chiede Xavi, in una recente intervista a So Foot. «Il talento», risponde. E cos’è il talento? «È la capacità di controllare quello che fai e quello che gli altri fanno, perché giochi con la tua testa, non solo con i piedi. Adoro Usain Bolt, è un grande atleta. Chi corre più veloce di lui? Nessuno. Ma non sarà mai in grado di fare la differenza su un campo da calcio».

Xavi giocherà con l’Al-Sadd, in Qatar, almeno fino a dicembre, per poi decidere se continuare o entrare a far parte dello staff tecnico (ha un contratto fino al 2020). Negli ultimi tre anni, hanno dato l’addio al calcio giocato i più rappresentativi della sua generazione, tra cui Pirlo, Lampard, Gerrard, Lahm, Xabi Alonso, Kakà, Totti. Un’autentica cascata di talento, ma soprattutto nomi che hanno segnato il calcio perché lo hanno incanalato in un nuovo corso, che ancora oggi rimane predominante.

Jonathan Wilson ha scritto, qualche anno fa, che il calcio ha subito un processo di “bielsificazione”: pressing e possesso, passaggi anziché dribbling, recuperi alti anziché tackle disperati. Nonostante sia associato al nome di Marcelo Bielsa, il suo successo e proliferazione, particolarmente in Europa, deve il debito più consistente ad altri protagonisti. Come osserva ancora Wilson, questo tipo di calcio ha avuto il suo zenit con la vittoria della Spagna agli Europei del 2012: «Oggi il calcio è una questione di passaggi: ad alti livelli vince le partite la squadra che controlla meglio il gioco. È ormai riconosciuto che il modo più sicuro per non subire gol è non lasciare il possesso all’avversario».

È in questo solco che la generazione che ha appena abdicato ha costruito la propria fortuna, indipendentemente dai diversi stili e contesti di gioco. Per quanto possa poggiare su solide basi, la teoria non funziona se non ci sono gli interpreti adatti a metterla in atto. In altre parole: il successo di un certo tipo di calcio è garantito dal prototipo di calciatore che si afferma a scapito di altri. La classe in forma grezza, spontanea e istintiva, per intenderci Maradona che supera tutta l’Inghilterra palla al piede, non è scomparsa: negli anni, l’abbiamo ammirata ai piedi di Ronaldinho, Kakà, Messi. Ma non ha la possibilità di imporsi, nel calcio supersonico e ipertrofico di oggi. Per questo, come dice Xavi, il talento arriva dalla testa, prima che dai piedi: il campione oggi è innanzitutto un campione cerebrale, perché deve saper giocare con intelligenza, fare scelte giuste, trovare soluzioni. «Tecnicamente non sono male, ma la mia qualità migliore è la velocità di testa», spiega, non casualmente, l’ex capitano del Barcellona. Pensare il gioco, questa è la chiave.

Nel 2009 Frank Lampard ottenne un «risultato strabiliante» nel test di intelligenza del Mensa. Non è poi così avventato metterlo in relazione con le fortune da calciatore. Geir Jordet, professore alla Norwegian School of Sport Sciences di Oslo, ha presentato alla Mit Sloan Sports Analytics Conference del 2013 uno studio chiamato “Le basi nascoste della visione dei giocatori di Premier League”. Jordet ha analizzato, con telecamere dedicate, circa 118 giocatori in 64 partite del campionato inglese: cosa faceva, per esempio, Lampard? Durante il periodo preso in esame, il centrocampista del Chelsea aveva la più alta “frequenza esplorativa” in Premier League. Per farla breve, la quantità di “ricerche” prima di ricevere palla, dove ricerca, o esplorazione visiva, intende «un movimento della testa o del corpo in cui lo sguardo del giocatore è diretto lontano dal pallone, con l’intento di raccogliere informazioni utili per l’azione successiva».

L’ex Chelsea vantava 0,62 ricerche al secondo, Gerrard, molto vicino, era a 0,61. Qual era il vantaggio? I giocatori come Lampard avevano una percentuale di passaggi riusciti dell’81 per cento, che diminuiva, ma di poco, prendendo in considerazione solo i passaggi completati in verticale (75 per cento). Quei giocatori che, invece, avevano i valori numerici più bassi in termini di frequenza esplorativa, erano più propensi a sbagliare: 64 per cento di passaggi totali riusciti, 41 per cento considerando solo quelli in verticale.

Esaminare la situazione, immagazzinare informazioni, decidere in anticipo come giocare: è un processo consequenziale. Pensare il gioco è esattamente questo, non seguire il pallone, l’avversario o il compagno, ma avere una visione di insieme e prevedere – e di conseguenza determinare – una situazione. Tony Carr, che lavorava nell’academy del West Ham, ha raccontato di Lampard: «La prima partita che Frank giocò con il West Ham, suo padre si sedette sugli spalti e si mise a urlare a suo figlio per tutto il tempo. “Immagini! Immagini!”. Voleva che Frank creasse mentalmente un’immagine prima di ricevere palla». Come Lampard, così Xavi: «Ero soprannominato “la bambina dell’Esorcista” perché ruotavo la testa in tutte le direzioni. Ci sono state partite in cui mi sono voltato più di 500 volte. Il mio cervello è come un processore, raccoglie dati e informazioni».

Più Xavi guardava, più opzioni immetteva nella propria testa. E migliori decisioni prendeva. «Pensa velocemente, cerca gli spazi», era il suo mantra. Cosa pensate abbia fatto Andrea Pirlo durante tutta la sua carriera? «Un centrocampista classico guarda avanti e vede gli attaccanti, io invece mi concentro sullo spazio tra me e loro per far passare il pallone. Più geometria che tattica», scrive nella sua autobiografia.

L’approdo a un calcio “pensato” riscrive l’interpretazione del gioco: sistemi, meccanismi, sono parole e concetti che affollano la narrativa del calcio odierno, eppure non presuppongono – semmai il contrario – l’emergere di un calciatore robotico, rispondente solo ed esclusivamente a input predeterminati. Infatti, questo è possibile soltanto se si è consapevoli del ruolo, delle consegne assegnate, di come aderire al contesto di cui fa parte. «Quante volte mi avete visto buttarmi in area di rigore, dribblando avversari uno dopo l’altro?», chiede Xabi Alonso a Simon Hughes in Ring of Fire. «Non faccio cose che mi farebbero sembrare uno stupido. Il mio gioco non è fatto di azioni spettacolari, ma basato sul passare palla nel modo migliore e più rapido possibile per i giocatori più forti. Il mio dovere è scongiurare rischi».

Xabi Alonso non ha mai cambiato il suo stile di gioco negli anni, ma non è stato monolitico nella sua interpretazione: non avrebbe, in questo modo, assicurato un contributo decisivo nel tiqui-taca della Spagna, nel Madrid di Mourinho o nel Bayern di Guardiola, realtà e contesti profondamente diversi tra di loro. È un processo di adattamento, basato sul declinare le proprie capacità in relazione a un determinato humus tattico, ad aver segnato il suo successo, ed è un processo avvenuto sulla base di un pensiero calcistico.

Philipp Lahm, di contro, ha trascorso quasi tutta la sua carriera al Bayern Monaco, ma anche lui ha modellato il suo gioco, in totale consapevolezza, sulla base di nuove esigenze tattiche. «Ho giocato da terzino per dieci anni e questo mi ha insegnato a gestire ogni tipo di situazione. Ma è bello giocare in un’altra posizione, sviluppare una visione nuova. È stato qualcosa che ha elevato il mio livello».

Lahm si riferisce all’intuizione di Guardiola e del suo secondo Torrent, sperimentata con successo per la prima volta nel corso della Supercoppa europea del 2013, di schierarlo centrale di centrocampo. «Da un giorno all’altro, Joachim Löw si è trovato alle prese con uno dei migliori centrocampisti difensivi al mondo, uno dei più bravi terzini sinistri al mondo e il miglior terzino destro al mondo. Tutti questi si chiamano Philipp Lahm», ha scritto il giornalista Uli Hesse. Che giocasse in una posizione o nell’altra, non faceva davvero nessuna differenza: Lahm pensava e capiva il gioco, non ne subiva gli stravolgimenti. Guardiola lo ha definito «forse il giocatore più intelligente che abbia mai allenato», e non è un caso che Albert Einstein una volta ha detto che «la misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario».

La comprensione del gioco è, in definitiva, un approdo comune a questa generazione di giocatori, e non è un caso che molti di loro, indipendentemente dalle loro scelte, sono stati indicati come futuri allenatori di successo – per esempio, Benítez definì Xabi Alonso un allenatore in campo già ai tempi del Liverpool, dove lo ebbe come calciatore. Finora, soltanto a pochissimi grandi giocatori è riuscito di coniugare successi in campo e in panchina – Zidane è l’esempio più felice degli anni recenti, ma che dire dei vari Maradona, van Basten, Gullit? Lampard e Gerrard hanno già iniziato la loro seconda carriera, alla guida rispettivamente di Derby County e Glasgow Rangers, Xavi e Xabi Alonso hanno intrapreso il corso Uefa A per tecnici, Andrea Pirlo lo ha iniziato da poco a Coverciano. La compenetrazione tra talento e conoscenza del gioco è l’eredità che lasciano i giocatori degli anni Duemila. Tale da segnare il successo di chi arriverà dopo di loro.

 

 

Tratto dal numero 22 di Undici