Il calcio cinese si è fermato?

Investimenti crollati, acquisizioni bloccate, ma forse è un bene anche per la Cina.

È trascorso poco più di un anno da quando Xi Jinping, durante un faccia a faccia con Gianni Infantino, candidò informalmente la sua Cina a ospitare una futura edizione dei Mondiali di calcio. La Chinese Super League si era affacciata sul calcio europeo già da qualche stagione, seguendo tappe e destinazioni diverse, ma veicolando un messaggio dal contenuto ben chiaro: la volontà di esercitare una propria influenza anche in questa dimensione. A distanza di pochi anni quella che era attesa come una vera e propria rivoluzione si sta progressivamente ritirando: se etichettarla come una bolla scoppiata è ancora troppo avventato, l’era degli investimenti cinesi in Europa può quantomeno considerarsi nella propria fase discendente. È una riflessione che parte dall’immediatezza del mercato dei giocatori e si allarga a quello dei club, ma che ancor prima – e più in profondità – trova le sue radici tra la cultura e la politica della seconda economia mondiale.

Secondo i dati di Transfermarkt, che non sono ufficiali ma rispecchiano a grandi linee i flussi di cassa del mercato, l’ultima sessione condotta dai club della Csl tra metà giugno e metà luglio è stata per distacco la meno dispendiosa dell’ultimo quadriennio, con appena 55 milioni di euro investiti. L’anno scorso valse lo stesso per la sessione 2017/18: il mercato cinese, reduce da esborsi pari a 415 e 545 milioni nelle due annate precedenti, si limitò a uscite per appena 170 milioni. Numeri alla mano il ridimensionamento è evidente: un campionato che tra il 2015 e il 2016 era riuscito ad attirare Jackson Martínez e Ramires e a strappare al Liverpool un Alex Teixeira in rampa di lancio ha finito per accontentarsi di Modeste e del ritorno di Paulinho. O ancora: negli ultimi due anni le operazioni costate più di 10 milioni sono state appena sei; nel biennio precedente diciotto. E non è tanto una questione di sola liquidità (anche se i cinesi non sono gli sceicchi), quanto di imposizioni che arrivano dall’alto. Ma facciamo un passo indietro.

Inviato a Pechino dalla Bbc nel 2016, quando la capacità espansiva del calcio cinese era ancora indefinibile, Richard Conway realizzò un servizio dal quale è utile, oggi, estrapolare due brevi interviste per ricreare il contesto. A parlare per primo fu Romain Woo, intermediario per le operazioni tra club europei e cinesi: «Allo stato attuale gli unici giocatori che non saremmo in grado di portare qua sono Cristiano Ronaldo e Messi. Tutti gli altri nomi sono candidabili». A seguire un intervento di Tom Byer, inglese, che allena in una scuola elementare nella periferia della capitale: «La Cina vuole essere the best in anything, la migliore in tutto; il calcio non è altro che un mezzo per raggiungere questo scopo». Al di là del perché, aggiungiamo, è interessante cercare di capire il come intenda perseguire questo scopo. Lo ha illustrato con una battuta efficace Mark Dreyer: «Quanto sta accadendo nel calcio è tipico della Cina: c’è una luce verde e tutti spingono, spingono e spingono; poi arriva quella rossa. Adesso a essere accesa è una sorta di luce gialla». Il messaggio di Dreyer, che da dieci anni segue dalla Cina lo sviluppo del calcio locale, rimanda all’influenza politica di cui si accennava in precedenza.

Tutta la questione, o comunque una parte abbondante di essa, ruota attorno alla figura di Xi Jinping. Il Segretario del Partito comunista cinese, che dal 2013 è anche Presidente della repubblica, è stato il primo a premere sull’acceleratore che ha generato l’ingresso del calcio cinese nel mercato europeo. L’agenzia di stampa Xinhua, la maggiore e più antica del paese, ha definito il Presidente come “un appassionato di calcio la cui collezione di maglie farebbe diventare verdi d’invidia anche i tifosi più accaniti”. Ed è essenzialmente a partire da questa passione, in unione a riflessioni ideologiche e strategiche sulla popolarità del calcio in Europa, che lo sport su cui il governo ha incentivato ad investire è diventato proprio il calcio. Come ha scritto Marco Bellinazzo ne I veri padroni del calcio, uno degli slogan preferiti di Xi Jinping è diventato “Football dream is one part of Chinese dream”. Una novità radicale ed una opportunità enorme per chi aveva un serio capitale da far fruttare, soprattutto alla luce di regolamentazioni favorevoli (la Afc, la federazione asiatica, non prevede alcuna forma di Ffp, e il governo cinese appoggiava con convinzione le missioni europee). E infatti, oltre a pescare dai maggiori campionati europei a partire grosso modo dal 2015, gli investitori cinesi hanno scommesso in lungo e in largo anche sui club: rilevandoli interamente, come accaduto nei casi di Wolwerhampton, Aston Villa e Milan, o limitandosi ad acquisirne percentuali, si vedano Atlético Madrid, Inter, Espanyol o Southampton. Con la luce verde di cui parlava Dreyer, insomma, la spinta espansionistica del mercato cinese è stata molto intensa. E Xi Jinping, che già ne era promotore, se ne è fatto portavoce diffondendo i suoi ambiziosi progetti: dalle opere infrastrutturali ad  un intervento massiccio sul sistema educativo pensato per diffondere la cultura calcistica nei giovani cinesi, con l’obiettivo di raggiungere quota 50 milioni di tesserati entro il 2050. Il movimento però presentava un difetto strutturale, un virus: cresceva nella forma, mediaticamente e ai piani alti, ma non a sufficienza nella sostanza. Se la mobilitazione generale varata da Xi Jinping aveva come fine quello di far crescere il calcio cinese, in sintesi, il risultato era che il calcio cinese non stava crescendo poi granché. E con tutta probabilità è da questa riflessione che non molto tempo dopo sono stati introdotti i primi accorgimenti.

Se c’è un momento cui far risalire la progressiva inversione di tendenza della Chinese super league e degli imprenditori cinesi a servirsi dell’Europa, questo momento risale alle prime settimane del 2017. Intorno alla metà della sessione invernale di mercato, che si estende fino alla fine di febbraio, fu infatti varato un provvedimento che imponeva delle regole molto più rigide sull’utilizzo in campo di calciatori stranieri. Nello specifico la Cfa stabilì per ogni club un massimo di cinque stranieri tesserabili, numero che si riduceva di due unità per gli stranieri che potevano effettivamente scendere in campo a partita. Lo scopo, ben chiaro, era quello di valorizzare i calciatori cinesi. Lo scorso dicembre questa disposizione è stata addirittura rinforzata (da cinque tesserabili si è passati a quattro) e affiancata da alcune inedite. Per prima cosa, oggi ciascun club è tenuto a schierare tanti U23 quanti sono gli stranieri in campo allo stesso tempo; in secondo luogo, sempre nella stessa ottica, dallo scorso anno i club cinesi possono iscriversi alla Csl soltanto a patto di aver sviluppato le categorie U19, U17, U15 e U13 per il settore giovanile. E infine è stata introdotta una nuova tassazione, che è di fatto il vero ostacolo alla pesca grossa dei club cinesi ad Occidente: la Cfa ha disposto che a tutte le operazioni di mercato dal valore superiori a 6 milioni di euro sarà applicata una tassa del 100%, il cui ricavato è devoluto ad un fondo per lo sviluppo del calcio giovanile. Non sono certo norme fini a se stesse, e anzi, è un bene per il calcio cinese che siano state introdotte; tuttavia, per quanto ci interessa in questa sede, è da qui che la Cina inizia ad allentare la stretta di mano con l’Europa del calcio.

Una parentesi altrettanto significativa va aperta per quanto riguarda il mercato dei club. Esattamente un anno fa, ad agosto, la presenza di investitori cinesi nel calcio europeo aveva raggiunto i massimi storici. Come ha evidenziato Nicholas Gineprini, infatti, tra acquisizioni complete e parziali i cinesi avevano preso possesso di 28 club europei, tra cui quelli menzionati in precedenza. Ma anche in questo caso, come avvenuto per le limitazioni al mercato dei calciatori, il governo cinese è intervenuto per contenere la fuga di capitali. Nel dettaglio, nel documento pubblicato a metà agosto e volto a disciplinare gli investimenti esteri, si riscontrava una divisione in tre categorie: la prima, quella dei cosiddetti investimenti proibiti (comprendenti le tecnologie militari e l’industria pornografica); la seconda, quella degli investimenti soggetti a restrizione; e la terza, quella degli investimenti incoraggiati. Il settore dello sport, e quindi il calcio, è rientrato per la prima volta nella seconda categoria, in quanto le autorità cinesi sospettano che se ne stia facendo un uso improprio a fini di riciclaggio di denaro. Il primo a fare un passo indietro da allora è stato Wang Jianlin, che lo scorso febbraio ha venduto per 50 milioni di euro la sua quota di partecipazione (pari a circa il 17%) dell’Atlético Madrid. Dopodiché è stata la volta di Aston Villa e Milan: nel primo caso il proprietario Tony Xia deteneva il 100% ed ha ceduto il 55 mantenuto la percentuale restante; nel secondo, ben più noto, Yonghong Li ha di fatto acconsentito a farsi sfilare il 99% dal fondo d’investimento Elliot, come da accordi. Infine ci sono i casi di club minori come Hoya Lorca e Northampton, dove i cinesi si sono ritirati per via della situazione debitoria. Nella massa stanno andando controcorrente soltanto Inter e Wolverhampton, mentre alla voce acquisizioni nel 2018 figurano soltanto i Phoenix Rising, modesto club americano di seconda divisione, e per giunta per appena il 30%. Insomma, se fino a un paio di anni fa ci si chiedeva quale altro club sarebbe diventato di proprietà cinese, oggi la domanda giusta da porsi è: quale sarà il prossimo ad essere ceduto?

Lo scorso anno il Financial Times ha dedicato un pezzo alla situazione degli investimenti cinesi in Europa, tentando di abbozzare una descrizione che avesse per soggetto gli imprenditori: «I cinesi che investono nel calcio ammettono di non essere fiduciosi in quanto ai profitti nel breve termine», si legge. «Ma nel lungo termine confidano di generare ricavi attraverso le loro connessioni con il calcio e la sua enorme fan base, promuovendo gli altri loro business, dallo sviluppo immobiliare all’e-commerce». E nel finale, prima di citare le ottimistiche previsioni di un vertice di Deloitte, il FT aggiungeva che «così come in molti aspetti della vita in Cina oggi, anche in questo campo il futuro lo determinerà la politica». In definitiva può darsi che gli investitori cinesi abbiano sentito il fiato sul collo dalla madrepatria, o che il modello di business scelto per approcciarsi all’Europa non fosse sostenibile e i passivi troppo ingenti. Ma più in generale quella che si osserva è una ritirata pensata per una nuova rincorsa. La Cfa, il ministro dello sport Liu Peng e lo stesso Xi Jinping hanno implicitamente fatto ammissione di colpa: la politica dei grandi nomi e delle partnership non ha giovato alla crescita dal punto di vista tecnico del calcio cinese, e la Cina che ha mancato la qualificazione a Russia 2018 è in qualche modo l’immagine di questo fallimento. Se da un lato è lecito attendersi che i rapporti con il Vecchio continente proseguano nella loro fase discendente (eccezion fatta per le sponsorizzazioni, che continuano a funzionare), dall’altro è però rilevante tenere presente che la sfida della Cina al calcio è tutt’altro che archiviata. Il piano di medio-lungo termine, pubblicato a metà 2016 dalla Commissione per la riforma e lo sviluppo, andrà avanti per come era stato pensato. Più lontano dalle luci dei riflettori, ma anche da illeciti e da speculazioni.

 

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