I fondi che controllano il calcio

Perché sempre più fondi di investimento puntano sui grandi club?

Al 66 di Buckingham Gate si guarda al calcio con un certo interesse. Nel pieno di Westminster, a due passi dalla City di Londra, gli slogan duri e puri da stadio fanno spazio al dogma numero uno della finanza: «Cash is King». Da qui, Michael Lindsell e Nick Train guidano il fondo di investimento più attivo nel panorama del football europeo. Nelle ultime stagioni hanno puntato sui club e sono diventati azionisti del Celtic, della Juventus e del Manchester United, sempre con quote rilevanti. Hanno scelto le loro squadre per i conti in ordine e uno score sportivo unico: pluricampioni nazionali che hanno avuto almeno una volta nella storia l’onore di alzare al cielo la Coppa dei campioni.

Di fondi di investimento è pieno il mondo. Si differenziano per tipologia, ma sono accomunati tutti da una promessa ambiziosa: far crescere il patrimonio che gli viene affidato dai clienti. Per molti investitori istituzionali, i club quotati in Borsa sono diventati un interessante punto di caduta. Eppure, il calcio non è una scienza esatta: «Non esiste altro business al mondo che funzioni come lo sport, dove c’è chi vince e chi perde: il risultato è per definizione aleatorio, si riversa sulle dinamiche finanziarie e una sconfitta sfortunata può condizionare i conti a fine anno», spiega con gelida franchezza Dino Ruta, head dello Sport Knowledge Center di Sda Bocconi.

Per arginare il pericolo, gli investitori istituzionali hanno ristretto la cerchia dei pretendenti puntando sui club più attraenti economicamente. In Germania, il Borussia Dortmund ha concesso il naming right dello storico Westfalenstadion a Signal Iduna, asset management che possiede il 5,43% della società; in Francia, i cinesi di IDG Capital Partners – già azionisti, tra gli altri, di Infront – hanno il 19,99% dell’Olympique Lyonnais; in Olanda, il 25% dell’Ajax è nelle mani di diverse realtà finanziarie, come Delta Lloyd, Strating, NN Group e Invesco.

Il Westfalenstadion di Dortmund, diventato Signal Iduna Park nel 2005 – i naming rights valgono fino al 2021 – grazie all’accordo con la compagnia tedesca

Lindsell Train è una società di investimento fondata nel 2000 da due broker inglesi. Nel calcio possiede quote di Juventus, Manchester United e Chelsea

Lindsell Train, invece, ha proprio fatto del sano e laico shopping. Il fondo inglese che prende il nome dai suoi due partner ha comprato in primavera poco più del 15% del Celtic Glasgow; ma oltre a controllare parte delle quote dei cattolici scozzesi possiede anche il 19,33% del Manchester United, l’unico club quotato a Wall Street. I Red Devils sono la stella polare per tutte le squadre che vogliono affacciarsi al mercato dei capitali: le decisioni strategiche sono in mano alla famiglia Glazer che controlla i diritti di voto in assemblea grazie al monopolio nelle azioni Classe B; tutti gli altri shareholder decidono molto poco e attendono i buoni dividendi a fine anno – da 0,18 dollari per share nelle ultime stagioni. Lindsell Train ha rastrellato parte del suo 19,33% direttamente dagli scarti della famiglia Glazer: la quota vale lo zero-virgola dei diritti di voto ed è costata più di 125 milioni di dollari. La spesa ha permesso al fondo di sedersi al fianco degli altri investitori istituzionali che mettono insieme poco potere e ampie porzioni di proprietà: Baron Capital Group ha il 35,72% del club, Lansdowne Partners il 12,30%, Jupiter Asset Management il 7,06%.

In Italia, il cash di Lindsell Train è piovuto sulla Juventus, il solo club dei tre quotati a Piazza Affari ad avere investitori istituzionali tra gli azionisti rilevanti. Il fondo di Buckingham Gate ha il 10,01% dei bianconeri e affianca la famiglia Agnelli-Elkann nella proprietà: Exor possiede il 63,7%, il resto è flottante. Tra chi ha quote minoritarie del club ci sono anche altri fondi e spulciando l’elenco presenze dell’ultima assemblea annuale – ottobre 2017 – emergono alcuni nomi: Lansdowne si è presentato a Torino con l’1,47% delle azioni, il fondo pensione della Royal Bank of Scotland si è seduto con una quota simile e via via tutti gli altri, compresi Vanguard e BlackRock con i loro piccoli pacchetti di quote.

«Fino a quando un fondo di investimento non avrà la maggioranza in assemblea il suo impatto sulla gestione sportiva di una squadra sarà limitato; ma l’apertura del capitale all’esterno è un positivo segnale di trasparenza». Ruta divide l’insieme dei club in due macro-aree per distinguere chi spalanca le porte agli investitori da chi alza le barricate a difesa della società, nascondendo con il feticcio della fede il desiderio di comunicare al pubblico quanto meno è possibile. «Il risultato sportivo è e rimarrà la priorità di un club, ma i successi sul campo devono andare di pari passo con una performance finanziaria impeccabile».

Davanti a Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, Manchester City e Paris Saint-Germain: il Manchester United è il club più ricco del mondo

Signal Iduna, compagnia di servizi finanziari, possiede il 5,43 per cento del Borussia Dortmund, e inoltre ha acquistato i naming rights dello stadio della squadra tedesca

Per rendere il business solido, le società più smart hanno puntato sulla valorizzazione dei loro asset tangibili e intangibili: hanno speso per costruire stadio, centro di allenamento e centro medico; poi hanno investito risorse per monetizzare ciò che non sfiorirà mai, il fascino del marchio. «I ricavi aumentano quando c’è una dimensione del brand che va al di là dei risultati sul campo», spiega Ruta. Come dire: più si è capaci di slegare le performance sportive da quelle commerciali e con più serenità si potranno chiudere i conti a fine esercizio. Alcuni club lo sanno fare bene, gli altri studiano lo United: la società guidata dai Glazer ha attirato investitori come nessun’altra perché capace di coltivare la sua leggenda al di là della Premier. Nella brochure per promuovere la propria raccolta fondi, Baron Capital Group scrive: «Crediamo che il Manchester United sia una media company unica, con un vasto appeal globale». Non una banale squadra inglese di pallone; ma una società in grado di ottenere ricche sponsorizzazioni ­– già «in pipeline» – e con un flusso di denaro costante garantito dai proventi da diritti televisivi.

I numeri confermano l’intuizione. Il Manchester United da due anni è considerato il club più ricco al mondo: i suoi ricavi hanno superato i 500 milioni di sterline, nel 2016 e nel 2017. Pur senza aver vinto il campionato, la società è riuscita a spodestare il Real Madrid dalla vetta dei milionari e ha confermato la leadership internazionale grazie anche alle faraoniche royalties tv: 107,6 milioni di sterline nel 2015, 140,4 nel 2016 e 194 l’anno successivo. Un aumento choc dell’80% in tre stagioni che non ha potuto non destare la curiosità di chi per mestiere vuole – e deve – fare soldi. Lindsell Train, l’ultimo arrivato nella galassia Red Devils, ha giustificato la spesa con innaturale semplicità: «Crediamo che nel tempo l’affare possa essere gratificante». Insomma, ci si aspetta di fare soldi con il pallone perché si ritiene lo United sottostimato a Wall Street. Secondo i calcoli del fondo londinese, se il club dovesse essere valutato con gli stessi criteri che hanno fissato in estate il prezzo degli Houston Rockets di Nba, la capitalizzazione in Borsa dello United potrebbe raggiungere i 5 miliardi di dollari – più del doppio del suo valore di agosto.

Il trasferimento più costoso della storia della Serie A: Cristiano Ronaldo è stato annunciato come un nuovo giocatore della Juventus il 10 luglio 2018

Idg Capital è uno dei principali fondi di investimento basati in Cina. Fondato nel 1993, investe in oltre 600 compagnie, nel calcio ha scelto il Lione

Come Manchester, così Torino – sponda bianconera. Nell’ultimo anno il valore del titolo della Juventus è aumentato del 130% a Piazza Affari e chi ha comprato in tempo le azioni ha tutte le ragioni per pensare di aver fatto un affare. Lindsell Train è entrata nel capitale sociale del club nel 2013, tre anni dopo ha alzato la sua quota ad oltre il 10% e se dovesse vendere oggi la plusvalenza sarebbe sensibile. Il motivo che ha spinto a puntare sul club è sempre nella capacità del pallone di generare ricchezza: le revenue della Juventus nel 2013 erano di poco sotto i 284 milioni di euro; a fine esercizio 2017 si è arrivati a 562,7 milioni, mancando per un soffio un tondo raddoppio in appena cinque stagioni. Un risultato garantito – servisse dirlo – dai proventi televisivi cresciuti nello stesso periodo di oltre il 40% (da 163,4 milioni del 2013 a 232,8 del 2017). Un legame tanto stretto, quello tra tv e stabilità economica, da preoccupare il management bianconero: «Una eventuale contrazione del mercato dei diritti radiotelevisivi o una diversa applicazione dei criteri adottati dalla Lega per la ripartizione delle risorse», ha scritto il club nell’ultimo bilancio, «potrebbero condurre in futuro ad una significativa riduzione dei ricavi con effetti negativi sui risultati economici e sulla situazione patrimoniale e finanziaria della società».

Del resto, come spiega Ruta, gli affari «funzionano se le economie alle spalle delle grandi squadre corrono: non è la bellezza del singolo campionato a determinarne il valore, ma è la forza del tessuto economico sul quale si regge la competizione a rendere sostenibile il business sportivo». Le «società evolute» – aperte al mercato e quindi con molta attenzione alla gestione finanziaria – cercano allora di variare il più possibile il flusso dei ricavi e bramano successi in Europa, per allargare il bacino di influenza territoriale e garantirsi nuovi proventi media. Perché se le vittorie sul campo non sono mai sinonimo di solidità finanziaria, i conti in ordine lasciano sempre ben sperare – tanto gli investitori che vogliono valorizzare le quote quanto i tifosi che possono sognare trionfi costruiti con cura. Alla fine, tutto si fa per chi è lì sugli spalti ad incitare la squadra.

 

Dal numero 20 di Undici
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