Frenkie de Jong è il calciatore totale moderno

Le sue potenzialità appaiono immense, e non è un caso che abbia scelto il Barcellona.

Avere come proprio tesserato Frenkie de Jong è finora equivalso a imbattersi in una borsa piena d’oro. Ajax, Willem II, Rkc Waalwijk: per ciascun club il nazionale di Arkem ha rappresentato un primato a livello economico. I 75 milioni pagati dal Barcellona, che potrebbero diventare 86 grazie ai bonus, hanno reso De Jong il giocatore più costoso nella storia della Eredivisie, polverizzando i 40 milioni sborsati dal Tottenham Hotspur la scorsa estate per Davinson Sanchez. La quota (61,2 milioni) finita nelle casse degli ajacidi ha permesso al club di Amsterdam di salire al terzo posto nella classifica delle società regine di mercato nel rapporto entrate/uscite: dal 2010/11 a oggi, vantano un saldo in attivo di 229 milioni di euro. Solo Benfica (464) e Porto (302) hanno fatto meglio. De Jong ha fatto la felicità anche del Willem II, club nel quale è entrato all’età di 8 anni; grazie al 10% sul costo del cartellino, più la quota di ricompensa vivaio, i Tricolores si sono portati a casa 8,6 milioni, ovvero più di quanto mai incassato da una cessione diretta – il primato spetta all’ex Fiorentina Mounir El Hamdaoui, che passò all’Az Alkmaar per 7 milioni. Discorso simile per l’ancora più piccolo Rkc Waalwijk, che con i 5 milioni abbondanti in arrivo dalla Catalogna potrà dotare il terreno del Mandemakers di un manto in erba sintetica.

I soldi però rappresentano solo una componente dell’universo Frenkie de Jong, e nemmeno quella preponderante, altrimenti il giocatore avrebbe scelto il Paris Saint-Germain o, in seconda ipotesi, il Manchester City. Quella di Parigi sarebbe stata decisione agli antipodi, a livello storico, filosofico e culturale, rispetto all’opzione scelta. Non è questa la sede per fornire l’ennesimo ripasso di un legame, quello tra Ajax, Barcellona e Olanda, che ha trasformato il mes que un club orgogliosamente appuntato al petto della società catalana da slogan in un brand riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo. «Il Barcellona è il figlio dell’Ajax», disse una volta il presidente blaugrana Josep Maria Bartomeu. Michels, Cruijff, Van Gaal, Laporta, Rijkaard, Guardiola: c’è un’intera letteratura sul periodo intercorso tra il 1973, anno dello sbarco di JC Superstar in Catalogna, e il 2008, stagione di debutto sulla panchina della prima squadra dei Culés di Guardiola, ovvero l’update dell’idea nucleare fatta deflagrare da Cruijff nel mondo Barça. Una definizione il cui copyright spetta a Martí Perarnau e al suo Senda de Campiones. Una sacra trimurti completata, anzi, iniziata da Laureano Ruiz, l’idea seminale. Nella prefazione a Il Barça di Sandro Modeo, Paolo Condò parla di «radice filosofica» costruita sul «concetto di opera aperta, o di rivoluzione permanente, per citare il Lenin di Stato e Rivoluzione: Guardiola evolve continuamente il suo gioco partendo dal presupposto che lo stato di quiete non esista, ma è un impercettibile arretramento». Optando per il Barcellona, de Jong ha scelto di confrontarsi con una tradizione e un bagaglio storico che va oltre la sfida comune a tutti i talenti emergenti. Per lui si tratta di un upgrade del suo stesso mondo, simile ma nel contempo diverso, dotato di una propria identità e di una propria cultura. Come passare da un cipresso all’albero di Tule: strutture e dimensioni diverse, genere comune.

Frenkie de Jong è la personificazione in campo della radice filosofica citata da Condò. Questo non significa che sia un giocatore perfetto, oppure privo di margini di miglioramento; semplicemente, per formazione, attitudine e caratteristiche, è quanto più vicino all’idea di calciatore totale sia stato prodotto dal calcio olandese da molti anni a questa parte. In lui convivono eleganza, qualità tecnica, capacità di lettura del gioco, senso della posizione, freddezza, il tutto assemblato in un work-in-progress del quale è davvero difficile prevederne gli sviluppi. «A volte sembra che Frenkie», ha scritto il giornalista Freek Jansen, «sia seduto in tribuna e comandi il suo avatar in campo con un joypad, tali sono la naturalezza e la tranquillità mostrate in campo contro qualsiasi avversario, a qualsiasi livello». Le potenzialità appaiono quindi immense, ma chi può immaginare oggi cosa diventerà De Jong domani? Potrebbe essere un Busquets, un Iniesta, oppure – debitamente irrobustito a livello fisico – un Piquè, anche se un raffronto statistico basato sui dati Opta di inizio stagione, e pubblicato dal settimanale Voetbal International, lo ha visto ricalcare i numeri di Toni Kroos.

Overmars, Kluivert, Rivaldo insieme nel Barcellona del 2000/01, che comprendeva anche Cocu, Zenden, Frank de Boer e Reiziger Allsport Uk/Getty Images)

L’ampio ventaglio di potenziali evoluzioni della propria carriera non deve far dimenticare di trovarsi di fronte a un ragazzo 21enne che fino alla scorsa stagione, quando la prima squadra dell’Ajax fu affidata a Marcel Keizer, non aveva mai giocato da centrale difensivo, e che nelle giovanili del Willem II aveva agito quasi esclusivamente da numero 10 alle spalle dal tridente. Un giocatore in evoluzione continua, a cui sono bastate poche partite in un ruolo nuovo per saperlo ricoprire in maniere credibile e autorevole. Un elemento naturalmente predisposto alla flessibilità cresciuto in un ambiente dove la polivalenza rappresenta uno dei punti cardine dell’intero impianto formativo. Con l’eccezione di Jurgen Streppel, suo coach nel Willem II, De Jong ha lavorato con allenatori tutti riconducibili, direttamente o indirettamente, alla galassia cruijffiana. Edwin Linssen (che lavorò Jordi Cruijff a Cipro nell’AEK Larnaca) nelle giovanili del Willem II; Andries Ulderink, il citato Keizer e Michael Reiziger in quelle dell’Ajax; Peter Bosz al primo anno con la prima squadra dei lancieri – l’attuale tecnico del Bayer Leverkusen, pur non avendo mai giocato nell’Ajax, è l’allenatore olandese attuale più in linea con i dettami di JC, arrivando a sfiorare la più pura ortodossia; quindi Keizer e Erik ten Hag, quest’ultimo formatosi alla scuola di Guardiola, visto che allenò il Bayern II ai tempi dell’esperienza bavarese del catalano. Un elenco di nomi che rende Barcellona, dove lo attende Valverde, altro tecnico legato a quel microcosmo unico che è la galassia Cruijff. Difficile trovare, per De Jong, una prosecuzione più logica e naturale del proprio percorso professionale.

Il Barcellona è un po’ anche la storia in sintesi dell’Olanda calcistica moderna. Dagli anni ’70 a oggi, quasi ogni ciclo ha visto, prima o poi, un giocatore oranje vestire la maglia blaugrana. L’Olanda del calcio totale ha avuto Cruijff e Neeskens, quella campione d’Europa ’88 Ronald Koeman, mentre la selezione del biennio 1998-2000, quella della doppia semifinale al Mondiale e all’Europeo, Phillip Cocu, Patrick Kluivert, Frank e Ronald de Boer, Boudewijn Zenden, Marc Overmars e Giovanni van Bronckhorst. Quest’ultimo, assieme a Mark van Bommel, è stato uno dei cardini della squadra di Bert van Marwijck vicecampione del mondo in Sudafrica del 2010. Di fatto, l’ex Milan è stato l’ultimo grande olandese a vestire la maglia del Barca, dal momento che tra lui e De Jong è trascorso un decennio abbondante nel quale sono transitati solo due figure minori: un talento inespresso, e probabilmente sopravvalutato, come Ibrahim Afellay, e un elemento di secondo piano come Jasper Cillessen, definizione quest’ultima da non intendersi come diminutio delle capacità dal portiere oranje, ma proprio della sua collocazione (ovvero una riserva) all’interno del mondo blaugrana.

Sia Afellay che Cillessen possono essere visti come il simbolo di un’Olanda che ha perso la sua centralità, ma anche la sua qualità, nel panorama calcistico internazionale. Un’Olanda che sta faticosamente provando a riemergere dalle macerie delle gestioni Hiddink-Blind-Advocaat, e se l’animo degli oranje attualmente si rispecchia nella forza e nel carattere di Virgil van Dijk, proprio l’irrompere sulla scena di un giocatore come Frenkie de Jong, così tradizionalmente olandese – quantomeno per come l’Olanda calcistica è normalmente percepita, e forse anche un po’ idealizzata, dal mondo pallonaro – rappresenta qualcosa di più della luce in fondo al tunnel. De Jong si è evoluto più in fretta dell’hype che lo ha accompagnato nell’ultimo anno. All’inizio, in patria, era visto come il numero 10 che i tulipani aspettavano per rimpiazzare Sneijder, per un cambio generazionale simboleggiato dai 16 minuti giocati dai due fianco a fianco nell’amichevole dello scorso 6 settembre contro il Perù, l’ultimo gettone di Wes in maglia arancione. Non è così, De Jong è un altro tipo di giocatore. Classicamente moderno, dalla struttura decisa ma dai contorni sfumati, che assomiglia a tanti ma non è la copia di nessuno. Frenkie de Jong è solo Frenkie de Jong.