Come il Qatar ha vinto la Coppa d’Asia

Un progetto calcistico con una chiara identità.

Voetbal in een vuile oorlog (Calcio nella Guerra sporca) è una corposa opera sul mondiale argentino del 1978 pubblicata nel 2008 dai giornalisti olandesi Iwan van Duren e Marcel Rözer. Tra le numerose testimonianze inedite raccolte dagli autori, c’è anche un’intervista a Sergio Gonella, arbitro della famigerata finale tra Argentina e Olanda. «Litigai con un argentino in hotel», si legge in un passaggio, «portarono tutti gli arbitri in una sorta di sala trofei dove c’era anche la coppa del mondo. Un uomo della Fifa iniziò ad elencare i vincitori: tre volte il Brasile, due volte la Germania Ovest e l’Uruguay, una volta l’Italia e l’Inghilterra. Alzai la mano e dissi: “Scusi signore, non è così, l’Italia ha vinto due Mondiali, il primo nel 1934 e il secondo del 1938″. Mi rispose seccato che nel 1934 l’Italia era un paese fascista e pertanto quel titolo era stato comprato. Gli diedi pubblicamente del cretino e del bugiardo. […] In campo c’erano i giocatori, non i fascisti. Quelli erano fuori dallo stadio, come i militari di Videla. Gli atleti fanno il loro dovere, ognuno al proprio meglio. È lo spirito dello sport e nessuno può permettersi di dire: quel titolo non conta».

L’indifferenza pressoché totale con la quale è stato accolto nel mondo occidentale un evento di portata sportiva storica come la vittoria, da parte del Qatar, della Coppa d’Asia 2019 – evento come minimo paragonabile al successo della Grecia a Euro 2004 – affonda le radici nello stesso preconcetto raccontato da Gonella.

La vittoria in finale contro il Giappone

Dietro alla scrivania o in campo, i vari Josep Colomer, Xavi, Felix Sanchez Bas, Saad Al Sheeb e Almoez Aliloro hanno svolto al meglio il proprio lavoro, frutto di un’idea calcistica precisa e strutturata. Qui entra però in gioco anche l’altro fattore di non-simpatia nei confronti del piccolo stato sul Golfo Persico: il Qatar trabocca di denaro, e pertanto non si presta nemmeno a certe narrazioni impregnate di terzomondismo da salotto. Il concetto, sottinteso in maniera neppure tanto velata, è che il Qatar abbia comprato la Coppa d’Asia appena vinta. Non comprata in senso letterale, ovvero corrompendo arbitri e giocatori, ma a livello figurato, attraverso naturalizzazioni disinvolte e un mastodontico flusso di denaro in uscita, pagando e acquistando tutto il possibile.

Anche in questo caso, nessun intento negazionista: è tutto nero su bianco e visibile a chiunque, sia l’uso disinvolto delle normative Fifa che regolano i criteri di convocazione in nazionale, sia le faraoniche spese in infrastrutture, club, know-how tecnici e sponsorizzazioni. Eppure, per citare una nota frase di Johan Cruijff, nessuno ha mai visto una borsa piena di soldi segnare un gol. Cinquant’anni fa la nazionale del Qatar nemmeno esisteva, avendo disputato la sua prima partita ufficiale il 27 marzo 1970 contro il Bahrain, pochi mesi prima della transizione da protettorato britannico a stato indipendente. Vincere un torneo chiuso come la Coppa d’Asia, dove le big (Giappone, Corea del Sud, Iran, Arabia Saudita e, in tempi più recenti, Australia) lasciano solo le briciole al resto del continente – Kuwait 1980 e Iraq 2007 gli unici exploit – è una grande impresa. Certificata anche dai numeri: 7 vittorie, 19 gol fatti, 1 subìto, capocannoniere, miglior giocatore (Almoez Ali in entrambi i casi) e miglior portiere del torneo (Saad Al Sheeb).

Allargando il discorso a tutte le nazionali del paese, si nota come nel 2018, oltre alla vittoria di prestigio della nazionale maggiore in amichevole contro la Svizzera, anche l’Under 23 e l’Under 19 abbiano fatto registrare risultati egregi; la prima finendo terzo nella Coppa d’Asia under-23 in Cina; la seconda strappando il biglietto per il Mondiale Under 20 in programma in Polonia il prossimo maggio dopo aver raggiunto le semifinali della Coppa d’Asia Under 19, torneo alla quale mancava da un decennio abbondante. Una nazionale, quella Under 19, che poteva contare su un bacino di pesca ristrettissimo, 800 ragazzi circa. Il denominatore comune di questa parabola ascendente siede in panchina e risponde al nome di Félix Sánchez Bas, uno dei tanti ex tecnici del vivaio del Barcellona ingaggiati dalla famiglia Al Thani per costruire il loro progetto calcistico.

Il cuore del sistema-Qatar, parlando ovviamente di calcio, è rappresentato dalla Aspire Academy, della quale Undici si è occupato qualche anno fa. Sorta da zero nel 2004 per decreto dell’ex emiro Hamad Al Thani, il suo sviluppo tecnico-organizzativo è stato affidato a Josep Colomer, ex direttore della Masia, nonché uno degli scopritori di Lionel Messi. Quello che all’inizio sembrava un mero capriccio da miliardari annoiati, ovvero costruire un simulacro blaugrana nella penisola araba, si è rivelato essere un progetto dalle basi solide. Ambizioso, ma non fantascientifico.

«Sin dai primi incontri con gli Al Thani», ricorda Colomer, «misi subito in chiaro che non consideravo la filosofia-Barcellona come la migliore esistente in ambito calcistico. Sono discorsi per me privi di senso. Cinquant’anni di Champions League hanno visto trionfare qualunque idea di calcio. Non si può sostenere che una sia migliore delle altre, perché nel calcio non esiste la formula magica». Gli fa eco Xavi, ambasciatore per Qatar 2022 nonché elemento scelto per fare da collante tra chi insegna calcio e chi ancora lo pratica. «Mi sono accorto subito che in Qatar non volevano ricostruire la Masia, ma semplicemente cercavano persone qualificate, nonché dotate di un’idea forte, per creare una generazione competitiva in un paese in cui, a livello calcistico, mancava tutto: competenza, esperienza, professionalità». Ancora Colomer: «Come scout dell’Aspire studiamo la personalità e la capacità di scelta. Quest’ultima è uno dei punti cardine della mia filosofia: un buon giocatore è colui che sceglie sempre la soluzione migliore. Non mi interessa uno che sa dribblare avversari in serie, se lo fa quando dovrebbe passare la palla. Le prime selezioni vengono fatti sui campi più improbabili: terra battuta, sabbia, pietra. Sono terreni che non favoriscono il gesto tecnico, ma in questa fase non è ciò che cerchiamo».

Attorno alla Aspire Academy è stato costruito un network che permette di testare i prodotti migliori nel contesto europeo, ambiente ritenuto indispensabile per formare una generazione con reali possibilità di non sfigurare a livello internazionale. Sono così stati acquistati l’Eupen (prima divisione belga, ma comprato quando si trovava in seconda), il Cultural Leonesa (terza divisione spagnola) e il LASK Linz (massima serie austriaca). A questi si è aggiunta anche una partnership con il Leeds United, Championship inglese.

Vale per tutti la dichiarazione di intenti espressa da Andreas Bleicher, bracco destro di Colomer, riguardo all’Eupen: «La nostra strategia non dipende dal risultato di una partita o di una stagione. Non vogliamo che l’Eupen vinca la Champions League, a noi interessa costituire il trampolino di lancio per i nostri giocatori verso una carriera di alto livello. Vogliamo diventare il miglior vivaio del mondo». Nella rosa dei 23 convocati per la Coppa d’Asia 2019 c’era un solo giocatore, il millennial Khaled Mohammed, che non militava nella Qatar Stars League. Ma il 70% aveva avuto una o più esperienze in Europa, a cavallo tra Belgio, Spagna, Austria e Inghilterra. Il dato più interessante riguarda però i giovani: sono 11 gli under 22 convocati da Sanchez Bas, e provengono tutti dalla Aspire Academy. Questo significa che il 48% della selezione è targato Aspire. A tre anni abbondanti dal Mondiale, e dopo aver sconfitto nell’ultimo atto della Coppa d’Asia una nazionale arrivata solo qualche mese prima a una manciata di minuti dai quarti di finale della coppa del mondo, se non è successo gli si avvicina molto.

Dopo le gestioni degli uruguaiani José Daniel Carreño e Jorge Fossati, caratterizzate da una spiccata tendenza alla naturalizzazione, la scelta dello scorso luglio di promuovere Sanchez Bas ha rappresentato un chiaro cambio di filosofia da parte della Federazione del Qatar. La maggiore attenzione verso il calcio giovanile locale ha portato a una diminuzione dell’età media della selezione, attestatasi sui 23.9 anni, e ad un minore utilizzo dei naturalizzati, smorzando l’effetto multinazionale che tante perplessità aveva sollevato in passato, soprattutto in altre discipline (pallamano in primis). Sanchez Bas ha allenato il Barcellona B dieci anni prima di trasferirsi, nel 2006, a Doha per diventare un tecnico dell’Academy. «Ci alleniamo molto più che in Europa», dice il tecnico, «due sessioni al giorno, una al mattina e una nel tardo pomeriggio. Un ritmo di lavoro paragonabile solo a quello della Masia, con la differenza che all’Aspire si svolge tutto nella stesso complesso. A Barcellona invece i ragazzi devono uscire dalla Masia per andare a scuola, altri addirittura vivono fuori città, e talvolta i problemi logistici costringono a rinunciare a qualcosa dal punto di vista della pianificazione».

 

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