La guerra che non fermò il calcio

Il conflitto per le Malvinas è una ferita ancora aperta, 37 anni dopo.

Il Cimitero di Darwin sorge in una zona fredda e deserta, a poco meno di cento chilometri dalla capitale delle Isole Falkland. Tra le croci dei monumenti in memoria di 230 soldati argentini caduti in battaglia spira sempre un vento forte e gelido. Come per ricordare, qualora ce ne fosse bisogno, che il Polo Sud non è lontano come in qualsiasi altra parte del mondo. Là, ancora oggi, si radunano periodicamente gruppi di famiglie e di veterani argentini, e di fronte a quelle lapidi color gesso dedicano ai soldati un minuto di silenzio o cantano l’inno nazionale. Luis Escobedo gestisce un’associazione di reduci e, poco più di una settimana fa, è tornato sulle isole in cui lui stesso ha combattuto per rendere omaggio ai caduti. Dopo qualche inno alla patria, i veterani hanno completato il rito della memoria dispiegando alcune bandiere argentine. Tra queste, una bianca, con il profilo delle isole e la scritta “Territorio Argentino”. Un kelper – un abitante dell’arcipelago – presente al cimitero ha denunciato tutto alla polizia delle Falkland, provocando l’arresto di Escobedo e dei suoi compagni di viaggio: dopo due giorni, tra interrogatori e foto segnaletiche, il gruppo di otto argies è stato rilasciato per non aver commesso alcun reato.

Ciò che è accaduto a Luis Alberto Escobedo spiega come, a quasi quarant’anni di distanza, le Malvinas e i suoi 649 morti siano ancora una ferita apertissima per gli argentini. Una prospettiva meno nota di quei 74 giorni di conflitto, però, la ricaviamo da chi è Luis Alberto Escobedo: un ex giocatore di Vélez Sarsfield e Belgrano, che prima di imbracciare il fucile giocava nelle inferiores del Los Andes. Anche la guerra delle Malvinas, come qualsiasi altra cosa accaduta lo scorso secolo in Argentina, ha un legame forte con il calcio.

Un reduce di guerra mostra il suo tatuaggio prima di una partita del River Plate allo stadio Monumental

All’inizio degli anni Ottanta, l’Argentina aveva assunto le fattezze di un enorme malato, sdraiato a sud dell’Equatore. La giunta militare, in carica dal 1976, sembrava finalmente costretta a pagare il conto per anni di repressione, brutalità e politiche scellerate: con una popolazione stanca di contare i desaparecidos e tormentata dall’ennesima gravissima crisi economica, il consenso era ridotto ai minimi termini. Il generale Leopoldo Galtieri, dunque, decise di puntare tutto sul grande nervo scoperto dell’orgoglio nazionale: la rivendicazione delle Malvinas. La disputa sul possesso di questo arcipelago nell’Atlantico del Sud è complessa e delicata, tanto da affondare le radici nell’antichissimo Trattato di Tordesillas del 1494. Argentina e Inghilterra se lo sono conteso per secoli, fin dai tempi dei primi insediamenti francesi, ma dal 1833, quando gli inglesi sbarcarono a Puerto Soledad (Port Louis), approfittando di un vuoto di potere, le Falkland sono possedimento della Corona. Il rapporto degli argentini con queste isole, per quanto piccole e abitate interamente da popolazioni di origine britannica, è tuttora viscerale: nelle scuole se ne insegna la geografia come se si trattasse di Entre Ríos, Tucumán o qualsiasi altra provincia argentina, e il controllo inglese viene considerato un atto di pirateria. Infatti, non fu una sorpresa constatare che tutta l’Argentina venne presa dall’euforia, quando il 2 aprile 1982 le truppe inviate da Galtieri invasero l’arcipelago.

Per recuperare consensi, il generale Leopoldo Galtieri decise di puntare tutto sul grande nervo scoperto dell’orgoglio nazionale: la rivendicazione delle MalvinasI vertici del potere decisero di non spegnere la macchina del fútbol, allineandola a quel rinnovato clima di entusiasmo patriottico: il Torneo Metropolitano di quell’anno venne rinominato prima “Malvinas Argentinas” e poi “Soberanía Argentina en las Islas Malvinas” (nomi di questo genere sono molti diffusi anche oggi per quartieri, squadre di calcio e stadi). La nona giornata di campionato prese il via il venerdì dell’invasione, con un poco  memorabile Central Norte-Mariano Moreno de Junín. La settimana seguente all’occupazione delle isole, mentre Galtieri sfidava gli inglesi dal balcone di Casa Rosada e ostentava noncuranza verso un loro eventuale contrattacco, il San Lorenzo pareggiava 3-3 contro il Los Andes. Il 2 maggio, invece, l’Argentina intera rimaneva attonita per la più grossa disfatta del conflitto in termini di perdite, l’affondamento dell’incrociatore leggero General Belgrano. Mentre il relitto colava a picco insieme a 323 soldati, alla Bombonera il Boca Juniors di Maradona pareggiava 1-1 il big match con l’Estudiantes. In quei giorni, si ipotizzò addirittura di giocare un Superclásico tra Boca e River sul territorio delle Malvinas, per risollevare il morale del soldati al fronte. «Penso sia un dovere patriottico di noi dirigenti rallegrare i nostri ragazzi», disse il presidente bostero Martín Noel. Il calcio, non si fermò mai, nemmeno nei gli ultimi istanti della guerra.

La censura del regime, in Argentina, stava attenuando i colori dell’ecatombe: la “tenace resistenza” diventò molto presto una sconfittaIl 13 giugno 1982, con la sconfitta del Camp Nou contro il Belgio per 1-0, iniziava il Mondiale dell’Argentina. Nelle ore intorno alla partita, si instaurò una sorta di contatto reciproco tra la Selección e i ragazzi al fronte. Nel giro di pochissimo tempo, con un attacco incrociato di aria, terra e mare, la capitale delle Malvinas Puerto Argentino sarebbe tornata a chiamarsi Port Stanley e gli argentini avrebbero firmato la resa: durante i combattimenti finali, racconta il reduce e giornalista Marcelo Rosasco, il suo gruppo di soldati trovò una radio, la accese e riuscì ad ascoltare parte della radiocronaca del debutto dei campioni in carica. I soldati ebbero percezione nitida dei calciatori, ma per la prima volta anche i calciatori ebbero percezione nitida dei soldati e di ciò che stava loro succedendo: appena arrivati in Spagna, al raduno di Villajoyosa, Maradona e compagni appresero dalla stampa iberica che la censura, in patria, stava attenuando i colori dell’ecatombe, e che la «tenace resistenza» di cui parlavano i giornali argentini sarebbe diventata molto presto una sconfitta.

Più di un giocatore dell’Albiceleste lo confessò: le notizie che arrivavano dall’Atlantico del Sud stavano turbando emotivamente il gruppo. Il clima intorno a Spagna ’82, in generale, era molto teso: il governo britannico, stando ad alcuni documenti trapelati negli ultimi anni, avrebbe addirittura pensato di boicottare la Coppa del Mondo. Il timore era che una delle tre Nazionali del Regno Unito – Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord – incontrasse l’Argentina nel bel mezzo della guerra. Alla fine non se ne fece nulla, le quattro Nazionali furono tutte eliminate senza incontrarsi.

La condizione di Ardiles era complicata: in Inghilterra era il bersaglio in quanto argentino che considerava argentine le Falkland, in patria veniva reputato un traditore per essersi sempre dimostrato a proprio agio nella nazione nemicaL’unico vero scontro calcistico tra Inghilterra e Argentina fu quello che tormentò Osvaldo Ardiles. Quando scoppiò la guerra, Ossie aveva già un soprannome anglofono e quattro anni di Premiership alle spalle: dopo il Mondiale vinto in casa, il Tottenham lo aveva acquistato insieme a Ricardo Villa. Il giorno seguente all’invasione, il Tottenham scese in campo contro il Leicester a Wembley per la semifinale di FA Cup, e Ardiles fu travolto da una pioggia di fischi e insulti a ogni tocco palla. Non soltanto dai tifosi avversari. A un certo punto, quella sera, apparve uno striscione: «Argentina can keep the Falkland, we’ll keep Ossie». Ardiles dirà sempre di non aver mai dimenticato quel gesto, perché ha dato una lezione a tutti in un momento molto delicato. Da solo, però, il legame con il Tottenham non fu sufficiente, perché la sua posizione diventò ben presto più contorta e insostenibile: in Inghilterra era il bersaglio in quanto argentino che considerava argentine le Falkland, ma in patria veniva ugualmente reputato un traditore per essersi sempre dimostrato a proprio agio come figlio adottivo della nazione nemica. La già intricata situazione poté solo peggiorare quando suo cugino José, pilota dell’aviazione argentina, rimase ucciso nel conflitto. «La guerra delle Malvinas mi ha rovinato la vita. Non posso più tornare in Inghilterra», dirà dopo aver giocato Spagna ’82, provando a svincolarsi dalla pressione dei due mesi e mezzo più confusi e dolorosi della sua carriera con un trasferimento al Psg. Una volta calmatesi le acque, Ossie cambiò idea e tornò al Tottenham.

La disfatta delle Malvinas è figlia di un grande errore di valutazione. La giunta era profondamente convinta che la sola potenza simbolica dell’invasione fosse sufficiente a mettere l’Argentina in una posizione di forza: non credendo che dall’altro capo dell’Oceano la Thatcher potesse far partire un contrattacco, vennero mandate sulle isole le nuove leve a far presenza. I ragazzi del ’62 furono la classe che ricevette in massa il telegramma della chiamata alle armi: molti di loro giocavano a calcio e alcuni si allenavano già con le squadre più forti del Paese. Sergio Batista, ex ct della Nazionale argentina, all’epoca giocava nell’Argentinos Jrs e si salvò per un numero di estrazione troppo basso nel sorteggio che determinava le chiamate.; anche Jorge Burruchaga evitò le Malvinas, ma a salvarlo fu l’hype, più che la sorte: compiuti i vent’anni era già considerato una promessa dal futuro radioso, quindi fu acquistato dall’Independiente, una delle cinque grandi d’Argentina.

«Un giorno decidemmo di costruire un pallone con della plastica e degli stracci, ma avevamo già iniziato a mangiare poco e perdere chili, quindi ci sentivamo subito deboli»Tanti altri, come Omar De Felippe, ex allenatore dell’Emelec campione d’Ecuador, o Gustavo De Luca – che diventò capocannoniere in Cile – non furono così fortunati e dovettero lasciare le rispettive famiglie e squadre per andare in guerra. Loro e molti altri giovanissimi calciatori chiamati alle armi hanno raccontato la propria storia ne La Clase 62, un bellissimo documentario prodotto da TyC Sports. All’inizio dei 74 giorni alle Malvinas, prima del contrattacco inglese, la vita scorreva lenta, e nella testa dei giocatori c’era ancora spazio per il calcio: «Un giorno decidemmo di costruire un pallone con della plastica e degli stracci, ma avevamo già iniziato a mangiare poco e perdere chili, quindi ci sentivamo subito deboli», racconta Javier Dolard, che prima di partire per il fronte giocava come attaccante nelle inferiores del Boca. Con l’arrivo sull’arcipelago di un nemico molto meglio equipaggiato a livello tecnologico e più pronto – sotto la bandiera inglese combattevano anche i gurka nepalesi – iniziò la vera guerra, così i ragazzi del ’62 dovettero diventare dei soldati a tutti gli effetti. Nel giro di un mese e mezzo dal loro contrattacco, gli inglesi riconquistarono le isole. A fine guerra, i ragazzi del ’62 si ritrovarono cresciuti e cambiati dal conflitto: erano arrivati sperando che la loro permanenza durasse il meno possibile, e che potessero tornare presto a giocare a calcio. Andarono via con il rimpianto di non aver potuto fare di più per vincere.

Una volta tornati in Argentina, dovettero rimettere mano alle loro vite, e ognuno lo fece a modo suo: alcuni, come De Felippe, Escobedo e De Luca riuscirono a recuperare il tempo perso lontano dal campo; ad altri, invece, le Malvinas hanno di fatto compromesso o limitato la carriera sportiva. Molti sono stati reintegrati nella società grazie al calcio, qualcuno ha fatto più fatica a curarsi le ferite della guerra. «Non sono più riuscito a giocare a pallone nel professionismo» racconta Héctor Rebasti, portiere delle inferiores del San Lorenzo prima della guerra, «per un periodo ho cercato di combattere i problemi iniziando a fumare e bere molto, mi sono rovinato il fisico. Una notte, alle Malvinas, mi sono addormentato e ho sognato che le sorti della guerra si sarebbero decise con una partita di calcio. Ho parato di tutto e abbiamo vinto 1-0 nel finale. Fu l’unica volta in cui dormii tranquillo in guerra». Quattro anni dopo, all’Estadio Azteca, Diego Armando Maradona schiantò l’Inghilterra nei quarti di finale di Messico ’86. Dopo quella partita, disse: «Non ho potuto fare altro che piangere per quattro ore. Lo sapevo che a calcio avremmo vinto noi».

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