Simone Inzaghi è il nuovo allenatore italiano

L'elasticità è la caratteristica principale del tecnico della Lazio.

In un’intervista rilasciata a Vanity Fair, il direttore della scuola allenatori di Coverciano, Renzo Ulivieri, ha parlato così del calcio italiano: «Ogni partita del campionato di Serie A è una battaglia tattica, la nostra arte di allenare viene tramandata sul campo». Ulivieri ha espresso due concetti astratti, ma allo stesso tempo ha spiegato l’approccio al gioco tipico dei tecnici italiani: non esistono identità condivise e/o principi guida inderogabili, la loro preparazione si esprime attraverso l’elasticità rispetto alle varie situazioni, lo studio e l’applicazione di nuove soluzioni strategiche. Una figura che si sublima nell’intuitività adattiva di Massimiliano Allegri, ma che forse si proietta anche nel futuro, attraverso il lavoro di Simone Inzaghi.

Scrivere di Simone Inzaghi allenatore vuol dire ricostruire una carriera breve, profondamente atipica: il tecnico della Lazio si è lanciato ed affermato contemporaneamente ai massimi livelli, e l’ha fatto da giovanissimo, in un paese che fatica ad accettare il ricambio generazionale, non solo nel calcio; inoltre non è un allenatore idealista, questa sua caratteristica rende ancora più complessa un’indagine sul suo calcio, sarebbe stato più facile raccontarlo se fosse stato uno di quelli che professano una sola filosofia di gioco e la manipolano in maniera ossessiva per avvicinarsi alla perfezione. Inzaghi ha scelto una strada diversa, forse controculturale nell’era contemporanea: è un tecnico reattivo rispetto al proprio contesto, trasforma le sue squadre in base alle caratteristiche dei calciatori, costruisce in itinere un modello che esalta il talento dei suoi uomini e/o i loro periodi di forma più brillante. È un approccio ribaltato, esattamente opposto rispetto a quello di tanti suoi colleghi, per qualcuno si tratta di una metodologia anacronistica, eppure Simone Inzaghi è già arrivato a un punto da cui è difficile tornare indietro, per risultati e talento percepito. Ci è riuscito in due stagioni e mezza sulla panchina di un club importante, ha 42 anni e quindi ha tutto il tempo per migliorare ancora.

Il percorso della Lazio 2018/19 è una sintesi delle qualità di Simone Inzaghi: i biancocelesti hanno chiuso la scorsa stagione con il migliore attacco della Serie A (89 gol realizzati, tre più della Juventus campione d’Italia), il tecnico emiliano aveva ideato e assemblato un sistema di gioco ambizioso, in grado di ottenere il massimo dai suoi talenti offensivi. La squadra saliva compatta per rifornire e supportare Milinkovic-Savic e Luis Alberto, i due trequartisti duettavano alle spalle di Immobile alternando soluzioni differenti, poi cercavano di azionare il centravanti in verticale, nei modi e negli spazi migliori per esaltare la sua forza, la sua continuità realizzativa. La nuova annata del serbo e dello spagnolo è iniziata tra mille difficoltà tecniche ed emotive, così Inzaghi ha modificato il gioco della Lazio, schierando Caicedo dall’inizio con maggiore continuità (l’attaccante ecuadoriano conta 18 partite da titolare in questa stagione, in quella precedente furono 11 in tutto) per creare dei nuovi meccanismi; nel frattempo ha familiarizzato con la fantasia dinamica di Correa, l’argentino ex Siviglia ha risposto bene agli stimoli dell’allenatore e ha conquistato la sua fiducia.

Solo che l’inevitabile ciclicità del calcio e del talento avrebbe riportato Milinkovic-Savic e Luis Alberto al centro della Lazio, Inzaghi lo sapeva e allora ha iniziato a lavorare per riaccoglierli, per inserirli in un sistema nuovo, diverso eppure funzionale. Oggi i due trequartisti sono di nuovo in campo insieme, anzi addirittura convivono con Correa alle spalle di Immobile. Per sostenere la presenza di tanti calciatori offensivi, la Lazio si dispone in campo con uno schieramento fluido che tende a compattarsi in fase passiva e poi esplode letteralmente in transizione, dopo il recupero palla. Il gol di Milinkovic-Savic a Milano, nello scontro diretto contro l’Inter, nasce proprio da un’azione di ripartenza: difesa bassa, ribaltamento del fronte, tanti uomini che accompagnano il portatore di palla e poi attaccano l’area di rigore. Nel derby contro la Roma, l’azione che porta rigore del 2-0 nasce all’improvviso, con il solo Correa che parte nella metà campo avversaria. Con quattro passaggi, la Lazio mette l’argentino solo davanti a Olsen.

L’azione che porta al rigore trasformato di Immobile, nel derby vinto 3-0

Connessioni diverse, principi diversi, risultati diversi: la squadra estremamente offensiva ma perforabile dello scorso anno è diventata molto più solida, nelle ultime 8 partite di campionato ha incassato solo 5 gol, mentre la quota di reti segnate per partita si è abbassata da 2,34 a 1,5 rispetto allo scorso anno. I numeri sono la testimonianza della metamorfosi voluta da Inzaghi, che ha letto e interpretato i segnali dei suoi uomini e ha cambiato direzione. È un’elasticità coltivata fin dall’inizio della sua carriera: durante l’esperienza nelle giovanili della Lazio (dagli Allievi Regionali fino alla Primavera), Inzaghi preferiva giocare con il 4-3-3, un sistema riproposto anche nelle prime partite sulla panchina della prima squadra; dopo, però, è passato stabilmente alla difesa a tre. Ovviamente non è solo una questione di moduli, l’intera filosofia calcistica di Inzaghi si regge sul primato dell’adattabilità. È stato lui stesso a confermarlo, durante un’intervista rilasciata a Paolo Condò: «Ogni allenatore ha le sue idee, ma non deve focalizzarsi solo su quelle. Il mio compito è mettere i calciatori in condizione di rendere al meglio». La sensazione che si prova guardando la Lazio è proprio questa: tutti i giocatori sono parte del sistema, sanno cosa fare in ogni situazione, i meccanismi della squadra sono costruiti su di loro e allora la qualità finisce per essere esaltata.

Allo stesso modo, però, questo tipo di approccio ha rappresentato e rappresenta il limite della Lazio di Inzaghi: la mancanza di riferimenti fissi oltre l’amalgama del talento finisce per penalizzare la squadra quando i calciatori vivono un momento difficile, quantomeno costringe l’allenatore a un nuovo cambiamento – quindi, a un inevitabile periodo di rodaggio. Inzaghi sa esaltarsi in questa fase transitoria, ma è vero anche che la Lazio ha messo insieme quattro pareggi e cinque sconfitte nelle prime sedici giornate del campionato in corso, e ha conquistato un solo punto negli scontri diretti del girone d’andata contro le avversarie di livello pari o superiore (pareggio contro il Milan, sconfitte contro Napoli, Juventus, Roma, Inter e Atalanta). I risultati sono di nuovo positivi ora che Inzaghi sembra aver trovato l’assetto migliore, solo che nel frattempo il campionato è andato avanti, così la Lazio si ritrova a dover lottare per il quarto posto con tantissime squadre, e corre il rischio di perdere la corsa per un dettaglio infinitesimale – come successo nella scorsa stagione.

È l’aspetto negativo di un approccio elastico: i risultati di una squadra e di un allenatore reattivi rispetto al proprio contesto sono indissolubilmente legati alla qualità e alle condizioni dei giocatori, chi sceglie di non fissare principi di riferimento ha più difficoltà quando deve governare le avversità e le partite, fatica ad andare oltre variabili non riproducibili o difficilmente modificabili – ad esempio il gap di talento con squadre più forti, oppure una gara non interpretata al meglio. Ieri sera, per esempio, la Lazio non è riuscita a venire a capo della Spal, un avversario nettamente inferiore: la sensazione avuta al Mazza è che la squadra di casa abbia voluto e sia riuscita a soffocare il gioco offensivo dei ragazzi di Inzaghi, che a loro volta non hanno trovato il guizzo vincente, nonostante la conferma del sistema con Immobile supportato da Correa, Milinkovic-Savic e Luis Albero. La Lazio ha fatto benissimo nelle ultime due stagioni ma non ha ancora colto un risultato finale di rilievo, oggi è al quinto posto e ha uno svantaggio (virtuale) di un punto dal Milan, allora il giudizio sul suo allenatore rimane legato alla classifica, è molto positivo ma inevitabilmente sospeso. Di certo Inzaghi è un tecnico di alto livello, sa lavorare con i calciatori e per i calciatori, sa migliorarli costruendo il gioco intorno a loro. Però non è ancora riuscito ad andare un po’ più in là dell’effettivo valore della sua squadra, magari centrando una qualificazione in Champions o la vittoria di un trofeo. Ha ancora tempo per riuscirci, ma il bilancio della sua carriera sarà compilato in questo modo. Per gli allenatori, soprattutto quelli italiani, funziona proprio così.