Cosa ci hanno detto le classiche di primavera

La prima parte della stagione ciclistica 2019 ci ha fatto divertire un bel po'.

È difficile stabilire se il ciclismo risulti più affascinante quando premia le scelte tattiche assennate e il raffinato gioco di squadra, o quando si riduce a questione di pura e spettacolarmente spietata legge del più forte. Forse la verità sta nel mezzo, e il ciclismo ci piace perché alterna i due esiti con discreta frequenza, e perché ciascuno di essi prevede a sua volta tutta una gamma di sfumature diverse, sicché quasi mai una corsa – soprattutto una corsa di un giorno – termina con l’assoluto trionfo della tattica o con l’asettica affermazione della forza bruta.

Da questo punto di vista, le classiche di primavera del 2019 sono state una specie di compendio della varietà di esiti che le corse ciclistiche possono proporre: ci sono state occasioni in cui ha prevalso una perfetta lettura della corsa (Bettiol al Giro delle Fiandre), altre in cui l’evidente superiorità atletica ha consentito al vincitore di sopperire a incertezze tattiche (van der Poel all’Amstel Gold Race), altre ancora in cui è stato il mix di strategia e forza a risultare decisivo (Kristoff alla Gent-Wevelgem). Abbiamo assistito alla consacrazione di giovani fenomeni (Alaphilippe alla Milano-Sanremo), ad exploit semi-inattesi (Fuglsang alla Liegi-Bastogne-Liegi) e a ulteriori passi verso la leggenda di campioni stagionati (Gilbert alla Parigi-Roubaix).

Insomma, questa primavera del ciclismo ci ha fatti divertire un bel po’, e qui di seguito proveremo a raccontare meglio perché. Cominceremo dai giovani: Mathieu van der Poel e Wout van Aert, i “ragazzi terribili” del ciclocross che si stanno prendendo (nemmeno troppo lentamente) anche il ciclismo su strada; Alberto Bettiol, che ha scelto il Giro delle Fiandre per la sua prima vittoria da professionista. Con un salto generazionale non di poco conto parleremo poi di Philippe Gilbert, 37 anni e una leggenda ancora in fase di costruzione, e daremo spazio alle avventure della coppia di fatto ciclistica più calda della primavera. Infine diremo qualcosa anche degli sconfitti (di uno di essi in particolare), perché nel ciclismo partono in molti ma alla fine vince sempre e solo uno, e a tutti gli altri – come agli spettatori – tocca pensare al più presto a un nuovo obiettivo, a un’altra partenza, alla prossima primavera. (Leonardo Piccione)

Tavola imbandita: Mathieu van der Poel

Quando durante lo scorso autunno Mathieu van der Poel ha programmato l’incremento del proprio impegno su strada per la primavera 2019, tutti hanno tracciato un cerchio rosso sul calendario: domenica 21 aprile, Amstel Gold Race. Mathieu sembra progettato per moltissime corse, ma soprattutto per questa, con i muscoli scattanti adatti a rilanciare di potenza sulle brevi salite; con i riflessi pronti a condurre la bici tra le continue curve. Tuttavia a tutti i fattori di predisposizione è necessario aggiungere una variabile: la volontà.

Mathieu van der Poel voleva a ogni costo vincere l’Amstel Gold Race, perché è la corsa più importante dei Paesi Bassi e l’avrebbe disputata con la maglia di campione nazionale – lui che è sì olandese, ma ha sempre vissuto in Belgio, dove è nato e ha cominciato a pedalare. Per Van der Poel l’Amstel Gold Race costituiva l’apice del suo percorso di conquista della strada e di riavvicinamento alla propria gente. Per questo non ha tentennato un attimo a sacrificare persino la Parigi-Roubaix alla causa: contava arrivare pronto al via di Maastricht, il 21 aprile.

Quello che forse non aveva previsto era di arrivarci da favorito assoluto. Se durante lo scorso autunno qualcuno poteva ancora essere autorizzato ad avere dei dubbi sull’esito dell’aumentato impegno di van der Poel nelle corse su strada, alla vigilia dell’Amstel Gold Race nessuno riusciva a immaginare uno scenario senza l’olandese quale assoluto protagonista. Tra l’autunno e l’Amstel, infatti, ci si erano messi, nell’ordine: una stagione di ciclocross nella quale Mathieu aveva vinto 32 delle 34 gare disputate; la riconquista della maglia iridata (sempre di ciclocross); due mesi di attività su strada con 5 vittorie in 14 giorni di corsa, tra cui due semi-classiche di prima importanza come la Dwars door Vlaanderen e la Freccia del Brabante. Roba da terrorizzare la concorrenza.

Il pranzo di Pasqua in casa van der Poel era dunque già preparato: la tavola imbandita, con papà Adrie e nonno Raymond (Poulidor) ai due capi del tavolo; al centro una ciotola per celebrare il giorno di gloria del giovane campione con il suo piatto preferito: spaghetti al ketchup. Di traverso ha provato a mettercisi, fastidiosa come sempre, la realtà. van der Poel ha interpretato l’Amstel Gold Race come qualsiasi altra corsa: di petto, attaccando da lontano, finendo così con il trovarsi apparentemente tagliato fuori dall’azione decisiva. È a quel punto che la realtà si è fatta da parte, per assecondare l’irruzione del predestinato. A 600 metri dal traguardo dell’Amstel, Van der Poel poteva sperare al massimo in un quarto posto, ai -300 ha messo nel mirino la vittoria, ai -150 si è allungato per afferrarla, finalmente, a ridosso dell’arrivo. In quel momento è esplosa Valkenburg, è esplosa l’Olanda, è esploso il ciclismo. Come accade di rado, quando l’attrazione gravitazionale esercitata da un ente è talmente intensa da riuscire a piegare la realtà stessa. (Filippo Cauz)

Oltrepassare la soglia: Wout Van Aert

Il passaggio che consente di definire meglio la primavera di Wout Van Aert, belga, 24 anni e mezzo e quintali di talento, non è una fase specifica di una gara specifica. Si tratta banalmente dello spezzone di un post-gara. Un minuto di quella che tecnicamente andrebbe classificata come intervista ma che in realtà non ha nulla o quasi del tradizionale botta e risposta tra giornalista e atleta.

È finita da poco la Parigi-Roubaix e Van Aert, disteso sul prato al centro del velodromo più famoso del mondo, pare completamente inebetito. Alternando lunghi silenzi a sguardi smarriti nel vuoto, tutto quello che riesce a dire ai microfoni è una serie di “je suis mort”, “je suis completement fini”, “je ne sais pas”. Nelle sei ore precedenti Wout aveva, più o meno nell’ordine: forato; recuperato tutto solo sul gruppo; sostituito la bicicletta; scivolato su un tratto senza pavé; slalomato tra le ammiraglie in un tratto di pavé; raggiunto il gruppetto dei migliori; allungato dal gruppetto dei migliori; finito le energie; concluso al 18° posto.

L’inviato di Cyclingtips Caley Fretz ha descritto questo completo annientamento fisico e psicologico come un esempio di «quello che può fare la Parigi-Roubaix a un uomo». Vero. Ma l’annebbiata intervista rilasciata da Van Aert lo scorso 14 aprile sintetizza vividamente almeno altre due cose. La prima è l’indole di questo corridore. Grazie alla sua tenacia, nota da anni agli appassionati di ciclocross – il suo primo amore –, Van Aert è in grado di spingersi in corsa fino ai limiti del tracollo fisico, a prescindere dalle gare e dalle stagioni. Letteralmente. Van Aert non si ferma sulla soglia del dolore, ma – per la gioia degli appassionati di ciclismo, che non possono che felicitarsi della presenza di un tal testardo in gruppo – la oltrepassa senza alcun ripensamento. Van Aert spesso e volentieri è primo nella classifica della dedizione alla causa.

Meno di frequente Wout risulta primo negli ordini di arrivo delle gare su strada: zero volte, in questa prima parte di 2019. Il post-gara di Roubaix può essere anche considerato, dunque, la sintesi di un avvio di stagione in cui a enormi sforzi hanno corrisposto poche soddisfazioni finali per il giovane belga. È vero, la prima primavera in una squadra WorldTour ha portato a Van Aert risultati complessivamente migliori rispetto all’anno scorso: ottimi esordi alla Sanremo (6°) e alla E3 Harelbeke (2°); di nuovo 3° alla Strade Bianche; peggioramenti – piccoli – solo alla Gent-Wevelgem (29° nel 2019, 10° nel 2018) e al Giro delle Fiandre (9° contro 14°, in allegato pure mezza polemica con Sagan). Ma, come si suol dire, è mancato l’acuto.

Ora: per un corridore di nemmeno 25 anni alla seconda stagione su strada non dovrebbe essere nemmeno lontanamente una preoccupazione quella di non ancora vinto una classica di rilievo; ci sarà tempo e modo. Se non fosse che contemporaneamente il suo più grande rivale, quello del paragrafo precedente, ne ha già portate a casa tre. Ma questi sono meriti dell’avversario più che demeriti suoi. I successi di Mathieu van der Poel non sono un problema di Wout Van Aert. O forse un po’ sì? (Leonardo Piccione)

Irrequietezza e cambiamento: Alberto Bettiol

Frattura scomposta della clavicola sinistra, frattura alla costola sinistra e una lesione al polmone. Questo era il bottino che Alberto Bettiol si era portato a casa dalla sua campagna delle classiche di primavera 2018. L’aveva terminata, come quest’anno, con un DNF (Did Not Finish, cioè un ritiro) alla Liegi-Bastogne-Liegi. E qui finiscono le somiglianze. Perché quest’anno le cose per Alberto Bettiol sono andate in maniera molto diversa.

Il toscano ha cominciato la primavera 2019 impressionando sia alle Strade Bianche sia sul Poggio, alla Milano-Sanremo, dove ha spaccato il gruppo con uno scatto di cui in seguito avrebbe approfittato più di tutti Julian Alaphilippe. Una sorta di prova generale, lo scatto sul Poggio, di quello che Bettiol avrebbe confezionato un paio di settimane dopo sulle pietre gobbute dell’Oude Kwaremont, al Giro delle Fiandre. Senza propiziare la vittoria di qualcun altro, questa volta, ma tenendosi stretta la sua bellissima cavalcata solitaria, il momento più alto della campagna di primavera italiana (ulteriormente addolcita domenica scorsa dal secondo posto di Davide Formolo alla Liegi-Bastogne-Liegi).

In questa stagione di classiche, Bettiol è stato tra i pochi in grado di scalfire la dirompente brutalità di Van der Poel e la voracità di Alaphilippe. Più in generale, i caschetti rosa shocking della sua Education First sono stati tra i più costanti a frapporsi tra le sfumature di blu dell’Astana e della Deceuninck.  Non sorprende, in fondo, che una carriera atipica come quella di Bettiol (talentuoso, altalenante, sfortunato, vittorioso per la prima volta in carriera in una corsa pazza come il Fiandre), si sia legata così strettamente a quella altrettanto irrequieta della EF, capace di sopravvivere solo un anno fa a difficoltà economiche che sembravano averla indirizzata verso la chiusura. Bettiol e la Education First sono la prova che nel ciclismo nell’arco di un anno si può passare da non riuscire a respirare per una lesione al polmone a non riuscire a farlo per la gioia che strozza la voce dopo aver vinto una delle corse più importanti del mondo. (Francesco Bozzi)

Specchiarsi nella Storia: Philippe Gilbert

Benché di origine francese, il concetto di “classica monumento” deve la sua diffusione alla stampa americana, che sul finire del secolo scorso irruppe nel mondo del ciclismo sulla scia delle imprese di Lance Armstrong e dei nuovi linguaggi del web. Dallo sport di scuola europea, prevalentemente narrato, si passava a quello statunitense, più analitico, attento a numeri e statistiche, fondato sul costante confronto con un passato che va sfidato a suon di record da battere. 

L’inseguimento di Philippe Gilbert alla frontiera della vittoria in ciascuna delle cinque classiche monumento del ciclismo rappresenta quindi anche una sfida alla storia di questo sport. Solo tre giganti del ciclismo ci si sono riusciti in passato: Rik Van Looy, Eddy Merckx e Roger De Vlaeminck. Solamente altri cinque sono riusciti a salire sul podio di ogni monumento. L’ultimo tra loro è Philippe Gilbert, capace di conquistare la Parigi-Roubaix a soli otto mesi dal suo terribile capitombolo al Tour de France. Guardarlo sul gradino più alto del podio di Roubaix è stato come guardare in uno specchio d’acqua: da un lato Gilbert che solleva un trofeo di pietra in un pomeriggio di aprile, dall’altro le pietre (di un muretto a secco) che sollevano lui in un pomeriggio di luglio.

Quell’incidente sembra un ricordo lontano, eppure è da lì che è originata la spinta che lo scorso 14 aprile ha portato Gilbert ad attaccare, a fare a spallate con Peter Sagan, a sprintare contro l’imponente Nils Politt, infine a festeggiare. Perché le sfide più grandi sono quelle che si ficcano in testa e non smettono di martellare fino a quando non sono state portate a termine, e Philippe Gilbert sembra fatto per inseguire solo tali sfide, quelle che consentono di specchiarsi nella storia di questo sport. Alla sua collezione adesso ne manca una soltanto, che per ora – ma solo per ora – sembra lontanissima. Agli appassionati di ciclismo non resta che stringere i denti con lo stesso vigore con cui Gilbert ha già ricominciato ad allenarsi. Servirà per sopravvivere ai prossimi mesi, ora che il conto alla rovescia è partito e il ticchettio si avverte distintamente: manca meno di un anno alla Milano-Sanremo. (Filippo Cauz e Michele Polletta)

La strana coppia: Julian Alaphilippe e Jakob Fuglsang

Ci sono un francese e un danese che pedalano su una strada tortuosa del Limburgo. Sembra l’inizio di una barzelletta e invece è lo scenario creatosi a 36 chilometri dalla conclusione dell’ultima Amstel Gold Race. Il francese è Julian Alaphilippe, mentre il suddito di Margherita II risponde al nome di Jakob Fuglsang. Sono stati loro gli indiscussi protagonisti del trittico delle Ardenne. Il giorno dell’Amstel, tuttavia, i due sono entrati nella storia dalla parte sbagliata, perdendo una corsa che sembrava dovesse essere affare riservato a loro e che invece ha arriso a un altro (il fenomenale giovanotto olandese di cui avete letto sopra). Qualche sguardo di troppo ed ecco sfumata la vittoria. Un errore che avrebbe potuto tingere di rimpianto la stagione dei protagonisti della nostra storia, se non fosse che entrambi hanno avuto modo di togliersi più di una soddisfazione in una primavera, quella appena trascorsa, durante la quale hanno condiviso numerosi chilometri ruota a ruota, a portata di sguardo di sfida, da Piazza del Campo a Siena fino a Liegi.

Julian Alaphilippe ha cominciato a vincere alla Strade Bianche, il 9 marzo, battendo proprio Fuglsang. Ha continuato alla Tirreno-Adriatico, superando in volata Sagan e Viviani nella tappa di Jesi, ed è sbocciato definitivamente in riviera, insieme alla primavera: il 23 marzo ha vinto la Milano-Sanremo battendo tutti allo sprint. Dopo aver stappato champagne anche nei Paesi Baschi, vincendo una tappa all’omonimo giro, l’abbiamo ritrovato a punzecchiarsi con Fuglsang sul Bemelerberg, ultima asperità dell’Amstel Gold Race e punto di partenza di questa breve ricostruzione. Era il 21 aprile e Alaphilippe, favoritissimo di giornata, sarebbe arrivato quarto e indispettito – subito alle spalle di Fuglsang.

Passano tre giorni e il quadretto si ripete. Il francese e il danese ancheggiano fianco a fianco sulle pendenze del Mur de Huy. Fianco a fianco in realtà ci restano ben poco, giusto l’attimo che serve ad Alaphilippe per piantare la stoccata decisiva e assicurarsi la sua seconda Freccia Vallone. Alaphilippe primo, Fuglsang secondo. Passano altri tre giorni e va in scena l’ultimo atto della frenetica primavera di questa strana coppia. Quello cui si assiste alla Liegi-Bastogne-Liegi è in realtà un monologo in lingua danese. Nessun testa a testa, nessun confronto tattico né psicologico, se non un rapido scambio di battute in corsa: Fuglsang guarda Alaphilippe, Alaphilippe se ne accorge, si gira e dice al rivale che non è giornata, augurandogli di vincere.

Così a 15 chilometri dall’arrivo, sulla Cote de la Roche Aux Faucons, il danese accelera e stacca tutti, cominciando da un Alaphilippe per una volta appannato e finendo con un brillante Formolo. Fuglsang prosegue fino a Liegi a testa bassa, senza più voltarsi, sbandando persino in discesa ma mantenendo ben chiaro l’obiettivo di giornata: prendersi la prima classica monumento di una carriera che in questo avvio di stagione ha assunto per lui dei contorni nuovi, finalmente luccicanti. (Pietro Pisaneschi)

Una parentesi di normalità: Peter Sagan

Domenica 21 aprile, il giorno di Pasqua, Peter Sagan confidava in una risurrezione (la sua), invece si è trovato a celebrare – e nemmeno da protagonista – un’epifania (quella di Mathieu van der Poel). Ora: parrebbe largamente ingiustificato l’inserimento di un corridore di nemmeno trent’anni, tre volte campione del mondo e vincitore della Parigi-Roubaix appena un anno fa, tra i grandi sconfitti di questa primavera (secondo in questa graduatoria forse solo a Greg Van Avermaet e Michał Kwiatkowski). A ben vedere, anzi, nell’ultimo mese il campione slovacco ha messo insieme una serie di piazzamenti che per gran parte dei corridori del gruppo costituirebbe un bottino di assoluto rispetto: 4° alla Milano-Sanremo; 11° al Giro delle Fiandre; 5° alla Parigi-Roubaix. Eppure la totalità dei giudizi sull’avvio di stagione di Sagan è piuttosto impietosa. Più che il non aver vinto nessuna classica – meglio: il non essere mai sembrato realmente in grado di vincere – quel che fa propendere il giudizio verso la bocciatura è l’evidenza che Peter Sagan non è più, al momento, il corridore-fenomeno del gruppo. Quantomeno non è più l’unico fenomeno.

Il salto di qualità di Alaphilippe e l’esplosione di Van der Poel il giorno di Pasqua (all’Amstel Gold Race, gara in cui Sagan si è insolitamente ritirato) hanno fatto scrivere ad alcuni commentatori che il rampante francese ha le sembianze del “nuovo Sagan”, o che il giovane olandese è destinato a diventare un “Sagan 2.0”. Come se il vecchio Peter fosse improvvisamente diventato un riferimento del passato, esponente nobile ma quasi decadente di un’intristita generazione di mezzo: non ancora elevata a un rango di leggenda pari a quello di un Gilbert, ma al tempo stesso non più in grado di apportare un contributo di freschezza paragonabile a quello di un van der Poel o di un Alaphilippe.

Invece Peter Sagan c’è, eccome. Due elementi su tutti attorno ai quali costruire la certezza di un suo immediato ritorno ai massimi livelli di competitività possono simbolicamente essere considerati la generosità e l’acume con cui alla Parigi-Roubaix ha propiziato l’azione che poi è risultata decisiva per la vittoria di Gilbert, facendo la differenza pressoché nello stesso tratto di percorso in cui l’aveva fatta l’anno prima. In una stagione avara di soddisfazioni, Sagan è riuscito comunque a ritagliarsi un ruolo niente affatto marginale nella corsa più dura dell’anno. Questo perché Peter – sembra incredibile doverlo rimarcare – si diverte ancora parecchio a correre in bicicletta, e a farlo con il suo mai anonimo stile. Quest’anno non ha vinto (ancora) nulla forse semplicemente perché la sua preparazione è stata travagliata. O magari perché non tutte le annate sono uguali, né buone.

Comunque sia, non c’è molto da temere. Peter Sagan non sarà più il fenomeno, ma non è detto che sia un male. Questo parziale ridimensionamento, questa parentesi di normalità – ammesso che si possa mai veramente parlare di normalità, in riferimento allo slovacco – ha tutto il potenziale per trasformarsi in una fonte di rinnovate motivazioni. Sagan deve solo attingere a essa; gli appassionati di ciclismo, attendere. (Leonardo Piccione)

Immagini Getty Images