Il gioco e il sacro

La Champions, l'architettura del campo, la ritualità dell'ingresso dei calciatori: in un'età secolarizzata, il calcio ha ricreato gli antichi riti.

Un tempo le fasi preparatorie delle partite erano semplici: un match iniziava con i giocatori che entravano in campo, si scaldavano per qualche minuto, e dopo il lancio della monetina e, se era il caso, un cambio campo, si partiva. Anche le cerimonie preliminari per le finali di coppa e le partite internazionali erano modeste: un paio di inni, e un personaggio importante a salutare le squadre. Oggi, i riti pre-partita somigliano sempre di più a cerimonie religiose. I giocatori entrano in campo in processioni austere, spesso sono accompagnati da bambini. Le strette di mano, un tempo riservate ai capitani e agli ufficiali di gara, adesso coinvolgono tutte le squadre. Il pallone, che prima era portato sul prato dall’arbitro senza troppe formalità, viene trattato come un oggetto sacro, raccolto da un piedistallo.

Ci troviamo in un’era di inflazione cerimoniale, e ogni ritualità innecessaria spiana la strada per un’altra simile. Adesso c’è anche chi porta il pallone al piedistallo. Le cerimonie prepartita più famose e prolisse sono quelle della Champions League: il rituale che coinvolge le tre squadre (i giocatori più quella arbitrale, tutti schierati mentre suona l’inno della competizione) è la cosa più vicina a una preghiera che ci sia in un campo da calcio. Niente, di questa pomposità, è organica o intrinseca al calcio. È stata creata soltanto per scopi di marketing e branding.

Lo storico Edward Hardwick ha descritto una trasformazione simile nella chiesa delle origini: durante i primi decenni dopo che Constantino rese il cristianesimo la religione di stato dell’Impero, «le cerimonie iniziarono a diventare sempre più elaborate», e i riti «acquisitono uno splendore altamente enfatico». L’obiettivo, allora come oggi, era quello di impressionare i fedeli dando sempre più importanza allo spettacolo e creando un senso di “timore sacro”. Il calcio ha sempre avuto un’aura semi-religiosa: i trofei sono riveriti come se fossero dei Graal – cosa che simbolicamente sono. Nelle scuole in cui nacque il calcio in Inghilterra, virili e cristiane, le coppe d’argento messe in palio evocavano davvero il mito della coppa da cui Gesù bevve durante l’ultima cena e in cui cadde il suo sangue mentra veniva crocifisso.

All’inizio della semifinale della Coppa del mondo del 2014 il Brasile entrò in campo indossando la maglia di Neymar, infortunato. È un gesto che ricorda l’iconografia di San BartolomeoLo storico dell’arte Mike O’Mahony vede invece dei paralleli tra l’inconografia calcistica e l’arte cristiana. All’inizio della semifinale della Coppa del mondo del 2014, ad esempio, il Brasile entrò in campo indossando la maglia di Neymar, infortunato. È un gesto che ricorda l’iconografia di San Bartolomeo, l’apostolo e martire tradizionalmente raffigurato con indosso, come una veste, la sua stessa pelle scorticata. Sono in molti i giocatori che ancora pregano prima di una partita, nonostante quello che disse Johan Cruijff quando, arrivato in Spagna, notò quanti giocatori si facevano il segno della croce: «Se funzionasse, ogni partita finirebbe in parità». Ma è ancora più intrigante il modo in cui il calcio, in un’epoca sempre più secolarizzata, prende in prestito antichi simboli e modus pensandi per trasformare se stesso in una specie di religione. Gli stadi sono “cattedrali”. I migliori giocatori sono “dèi”. A Napoli e Buenos Aires, a Maradona, sono stati costruiti degli altari. A Francesco Totti è dedicato, a Roma, il famoso murale del Rione Monti. In Inghilterra i tifosi sono chiamati “faithful”, fedeli. Gli stessi fan giocano sulle pratiche religiose: con i cori cantati insieme, le scaramanzie dei posti, i vestiti indossati per le partite più importanti, e così via.

Ma torniamo all’inno della Champions League, che fu introdotto quando la Coppa Campioni fu rebrandizzata nel 1992. L’inno è basato su “Zadok the Priest” di Georg Friedrich Händel, che fu composto per l’incoronazione di Giorgio II nel 1727. Il testo originale è fortemente religioso: «God save the King, long live the King, may the King live for ever! Amen! Hallelujah!». Le nuove parole sono più secolarizzate («Ils sont les meilleurs / Sie sind die Besten / These are the champions») ma proiettano la religiosità esaltata della composizione su un nuovo oggetto di venerazione: il gioco del calcio.

L’inno è basato su “Zadok the Priest” di Georg Friedrich Händel, che fu composto per l’incoronazione di Giorgio II nel 1727L’allestimento delle partite ci porta a notare un altro elemento caratteristico della nuova religiosità calcistica: il campo stesso. Prima di ogni partita di Champions, il cerchio centrale è coperto dal logo della competizione, la cosiddetta “star ball”. È un simbolo ubiquo e un elemento fondamentale di branding, e nella sigla di apertura della copertura televisiva viene riadattato in modo sontuoso: il pallone si trasforma in un enorme (e architettonicamente impossibile) tetto che si inarca su uno stadio di fantasia, «illuminando una folla appassionata di oltre un milione di spettatori», come recita il comunicato della Uefa, e gettando luce su tutta la città circostante. Per aumentare l’enfasi, la telecamera si alza e vediamo, alla fine, la “star ball” in cielo. Il concept è stato sviluppato in parte dall’agenzia di branding e design londinese Radiant Studios, e richiama una famosa scena del film Scala al paradiso, in cui si vede uno stadio in cielo riempito da una folla inverosimilmente vasta.

Sfere e cerchi, naturalmente, si portano dietro associazioni simboliche che vanno ben oltre il calcio. Un cerchio può rappresentare il sole, la luna e altri pianeti, oppure il ciclo della vita, l’infinito, o il concetto junghiano di sé. Immaginari legati al cerchio sono tipici di tutte le religioni del mondo, in ogni epoca. La Chiesa del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, costruita per “ricordare” il luogo di nascita di Cristo, fu eretta su una piante circolare perché i suoi creatori consideravano quel punto il centro del mondo. Gli astronauti dell’Apollo 11, guardando la Terra dalla superficie della Luna, videro il nostro pianeta come una “pallla”. Platone predisse che un uomo che si fosse trovato a guardare la Terra da oltre le nuvole avrebbe visto il pianeta come «una palla contenuta in dodici pezzi di pelle cuciti tra di loro».

Alex Bellos, un matematico e scrittore, autore di diversi libri sul calcio tra cui un’autobiografia di Pelé, nota più prosaicamente che è una forma pratica: «Il cerchio è presente in natura in un modo diverso da tutte le altre forme geometriche. La sezione trasversale di un uovo è un cerchio. L’iride dell’occhio è un cerchio. Ed è l’unica forma davvero facile da riprodurre. Tutto quello che serve è una penna e un filo, oppure un compasso». Il cerchio di centrocampo è, probabilmente, il più importante tra i simboli religiosi del campo. Siamo così abituati al modo in cui è stato disegnato che non ci pensiamo, e nemmeno i “padri del gioco” si accorsero del significato profondo della loro creazione. Ma questo non significa che non ci sia un forte simbolismo. Quando i fondatori della Football Association si ritrovarono, nel 1863, in un pub di Londra per stilare le regole, il campo era privo di qualsiasi segnaletica. Per dirla con le parole del Libro della Genesi: «Era senza forma e vuoto». Poteva, in origine, essere grande anche il doppio di un campo moderno, e non c’era nulla che segnalasse dove iniziava e finiva la superficie di gioco, eccezion fatta per una bandierina in ogni angolo. Non c’erano reti né traverse, e la porta era costituita soltanto di due pali verticali. Non doveva nemmeno essere rettangolare: alcuni, tra i primi campi, erano degli strani romboidi. Si fece ordine lentamente: nel 1866 venne per la prima volta teso un nastro tra le estremità dei pali. Nel 1875 arrivò la traversa vera e propria. Nel 1883 vennero tracciate le linee laterali. Il cerchio di centrocampo nel 1891.

È un progetto che, per caso, ricorda il piano del sancta sanctorum del Tempio di Salomone, in cui è contenuta la cassa rettangolare dell’Arca dell’AlleanzaNon c’è stato un grande architetto o un piano regolatore: le regole venivano introdotte durante le riunioni, e i giocatori potevano segnalare le mancanze e le possibilità di sviluppo del campo. Con l’arrivo del calcio di rigore, nel 1891, emersero nuove questioni: come si doveva segnalare l’area di rigore? Da quanti metri si sarebbe dovuto calciare? Le linee vennero tracciate a varie distanze dalla porta. Per alcuni anni, l’area assomigliò alla lettera M dell’insegna McDonald’s. Nel 1902 si pose fine alla confusione con la soluzione che vediamo ancora oggi: due rettangoli, uno dentro l’altro, e un punto per indicare il posto del pallone (la lunetta fuori dall’area non arrivò per altri 35 anni). Nel frattempo, il campo era diventato a tutti gli effetti rettangolare. A seconda della lunghezza, poteva consistere di due quadrati perfetti divisi dalla linea di metà campo. È un progetto che, per caso, ricorda il piano del sancta sanctorum del Tempio di Salomone, in cui è contenuta la cassa rettangolare dell’Arca dell’Alleanza. La D in cima all’area fu aggiunta nel 1937 per porre fine agli sconfinamenti durante i rigori. È un arco che trasforma l’area in un rettangolo sormontato da una cupola: è la forma caratteristica dei più importanti edifici sacri del mondo, dal Pantheon di Roma a Santa Sofia a Istanbul, passando per il Campidoglio di Washington D.C.. Ricorda la Basilica di San Pietro e la moschea al-Aqsa, a Gerusalemme.

C’è una ragione per cui queste strutture uniscono le forme del semicerchio e del rettangolo: cerchi e sfere sono sempre stati associati a concetti come sacro e sublime. Quadrati, cubi e rettagoli erano invece visti come simboli del profano e materiale. Uniscili – secondo la teoria architettonica – e avrai una rappresentazione congiunta di Cielo e Terra. La tensione tra queste due forme è intrecciata in ogni aspetto del calcio: i giocatori si muovono in un ambiente di rettangoli, cerchi e frammenti di cerchi, e l’obiettivo finale è far finire una sfera – il pallone – in un rettangolo – la porta.

In un’età secolarizzata, il calcio ha riorganizzato antichi riti. Ma la storia ci mette in guardia dal trasformare lo sport in una religione vera e propria. I giochi con una palla dei Greci e dei Romani erano probabilmente parenti più stretti del football americano che del nostro calcio. I cinesi inventarono il tsu-chu. Più importanti ancora erano i giochi sacri diffusi in America centrale sotto le civiltà pre-colombiane: Olmechi, Maya e Aztechi. Erano sport di squadra giocati su campi rettangolari e lastricati, utilizzando palloni di gomma, duri e pesanti. Sono stati scoperti circa 1300 campi del genere in tutto il Mesoamerica. Come le culture che li avevano prodotti, anche questi giochi vennero distrutti dall’invasione spagnola del Sedicesimo secolo. Nonostante siano sopravvissute versioni “annacquate” in alcune zone remote del continente, nessuno sa con certezza quali fossero le regole. Alcuni sembrerebbero un incrocio tra il calcio e il basket, ma giocato senza usare né mani né piedi: i giocatori usavano le anche e il torso per spostare il pallone. In alcune versioni l’obiettivo era infilare la sfera in canestri di pietra. Altre erano più simili alla moderna pallavolo.

Il più grande campo arrivato fino a noi si trova nel complesso Maya di Chichen Itza, nella penisola dello Yucatan. Era dedicato a un gioco più importante della vita e della morte, e portava con sé molti significati. Diventava, talvolta, un sostituto alla guerra. Soprattutto, metteva in scena il mito Maya della creazione. La storia riguarda due gemelli che giocano, costantemente, a quella specie di sport. La cosa infastidisce gli dèi, che li attraggono negli inferi, li sconfiggono e li uccidono. Ma i gemelli risorgono, tornano per una rivincita, vincono, uccidono gli dèi e rinascono nuovamente diventando il sole e la luna. Il reperto più straordinario che gli archeologi hanno ritrovato a Chichen Itza è una specie di “scaffale dei teschi”. La sua funzione? I giochi sacri terminavano con dei sacrifici umani, e gli scaffali ospitavano le teste delle centinaia di vittime. Una stele intagliata da un altro sito mostra un giocatore in una posa successiva a una partita. È seduto su uno sgabello, il braccio sinistro sorregge il destro, sembra tranquillo. Non possiamo, tuttavia, decifrarne l’espressione facciale: ci sono sette serpenti piumati dove dovrebbe essere la testa. Come tutti gli altri sconfitti, è appena stato decapitato.

 

Dal numero 23 di Undici
Le immagini sono tratte dalla sigla della Champions League